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Fill Factor e Full Well Capacity

Analizzando in dettaglio le caratteristiche di un sensore a semiconduttore, possiamo notare come la capacità di raccogliere i “fotoni cosmici” dipende strettamente dal tipo di architettura utilizzata. Infatti a differenza dei sensori CCD dove l’area sensibile coincide con il pixel stesso (ad esclusione degli Interline Transfer), nei sensori CMOS parte è occupata dall’elettronica. I pixel dei sensori CMOS risulteranno pertanto meno sensibili alla luce. Ma quanto?

Per quantificare questo effetto è stato introdotto il concetto di pixel fill factor (FF) definito come il rapporto percentuale tra l’area fotosensibile e quella del pixel. Il FF sarà quindi tanto maggiore quanto più estesa sarà la superficie attiva del sensore. Per i CCD valori tipici di pixel fill factor si aggirano intorno al 90% scendendo al 30% nel caso dei CMOS.

Il basso pixel fill factor dei sensori CMOS è stato originariamente un limite invalicabile. Fortunatamente, grazie al progresso tecnologico in ambito opto-meccanico, si è riusciti a produrre lenti convergenti del diametro di alcune decine di micrometri (!) capaci di convogliare i raggi luminosi incidenti nelle regioni sensibili del pixel. Queste lenti prendono il nome di microlenti.

Grazie alle microlenti è stato pertanto possibile aumentare quello che definiremmo “l’effettivo pixel fill factor” fino a valori prossimi al 100%. Non fatevi  quindi ingannare dalle apparenze e cercate informazioni sul pixel fill factor reale e non quello corretto dalle microlenti. Oltre ad aumentare l’FF, le microlenti hanno l’effetto di ridurre l’alone generato dalla luce diffusa dalle parti non fotosensibili del pixel. Questo effetto è importante soprattutto nel caso di sorgenti di luce intensa. Recentemente, l’azienda CentralDS fornisce un servizio di debayerizzazione delle reflex digitali al fine di ottenere camere monocromatiche. Questo avviene rimuovendo sia i filtri colorati della matrice di Bayer che le microlenti poste di fronte a ciascun pixel. Così facendo si ha una riduzione del pixel fill factor effettivo (dal 90% al 30% circa) compensato però dall’aumento di trasmittanza dovuto alla rimozione dei filtri colorati (dal 40% al 100% circa). Ovviamente permane il problema dell’alone per le sorgenti luminose, fortunatamente marginale in ambito astrofotografico.

Aumento del fill factor a seguito dell’applicazione di microlenti. Nel caso in figura si passa dal 60% (A) al 100% (B)

Un’altra caratteristica dei pixel che costituiscono il sensore digitale è la full well capacity (FWC). Questa grandezza fisica è definita come la quantità massima di elettroni che possono essere accumulati all’interno di un elemento fotosensibile. Tale caratteristica dipende dal potere capacitivo del fotoelemento (capacity), immaginato come un pozzo dove vengono raccolti i fotoelettroni (well). La FWC, che varia generalmente tra le decine e le centinaia di migliaia di elettroni, fissa la quantità massima di fotoni che può raggiungere un fotoelemento prima che questo raggiunga la saturazione. Di conseguenza verrà fissata anche la dinamica della camera stessa. Quest’ultima, definita come il numero di sfumature di grigio tra il bianco ed il nero è importante in astrofotografia dove spesso abbiamo forti contrasti tra soggetti luminosi (stelle) e deboli (nebulose o galassie). Ma cosa influenza la FWC? Sono numerosi i fattori che entrano in gioco come l’architettura del pixel e la grandezza della regione di svuotamento ma quello principale rimane la superfice dell’elemento fotosensibile o, in breve, il pixel fill factor.

Se le microlenti riescono infatti ad aumentare il pixel fil factor, queste non sono in grado di aumentarne anche la full well capacity che quindi rimane bassa per i sensori CMOS rispetto a quelli CCD. Questa caratteristica si traduce in un sostanziale aumento della dinamica delle camere CCD rispetto alle normali reflex digitali. Questo è uno dei motivi che, ancor oggi, fa prevalere le CCD in ambito astronomico.

Avere una maggiore FWC comporta un aumento della dinamica. In figura si vede un’immagine (sinistra) rirpesa con una dinamica a 16bit e (destra) con una dinamica inferiore. Il centro galattico risulta completamente bruciato così come le stelle di fondo nel caso dell’immagine a dinamica ristretta.



Formati dei sensori digitali

Negli scorsi articoli abbiamo studiato come, a partire dai fotoni cosmici, sia possibile ottenere sul monitor del nostro computer o in stampa bellissime immagini di corpi celesti. Alla luce di questo, possiamo concludere che il cuore dell’immagine fotografica moderna è il sensore. Questo è costituito da una griglia di elementi fotosensibili; quelli che poi saranno rappresentati (e spesso confusi) dai pixel nelle nostre immagini digitali. Esiste quindi una stretta relazione tra la forma del sensore e quella dell’immagine finale. E’ esperienza comune maneggiare stampe fotografiche dalle forme rettangolari e pertanto possiamo dedurre che questa corrisponda alla geometria del nostro sensore. Ma perché questa scelta? Il “rettangolo” fotografico ha delle proporzioni ben determinate? Quanti formati esistono? In questo articolo vedremo di dare una risposta a tutte queste domande.

QUESTIONE DI FORMA

La disposizione degli elementi fotosensibili non è dettata da nessun vincolo costruttivo e pertanto questi potrebbero essere disposti nelle forme più incredibili. Questo avviene in ambiti dedicati alla ricerca scientifica dove si usano spesso sensori dalle forme circolari, a bande o altro. In fotografia la forma più naturale dovrebbe essere il cerchio. Infatti il sensore deve raccogliere i fotoni che ci arrivano dal sistema ottico che ovviamente, essendo di forma cilindrica, produce sul piano focale un cerchio. Eppure avete mai visto stampe circolari? Ebbene in passato esistevano, come ad esempio la camera Kodak No.1 del 1888 produceva immagini circolari. Allora perché oggi utilizziamo pellicole rettangolari? La soluzione è di natura economica. La produzione di sensori circolari comporta un grosso spreco in termini di stampa dato che queste avvengono sempre su carta di formato quadrato o rettangolare.

Escludendo il cerchio, la forma più naturale per un sensore dovrebbe quindi essere il quadrato. Questa forma geometrica ha avuto ampio sviluppo in passato, mentre oggi sta diventando un formato sempre più di nicchia. Un esempio è il medio formato 6 x  6, di dimensioni 56 x 56 mm, utilizzato in passato dalla Yashica-D a partire dal 1958.

Oggi, la maggior parte dei sensori è rettangolare. L’utilizzo di questa forma geometrica ha origini storiche, psicologiche e pratiche. La fotografia ha seguito un’evoluzione parallela alla stampa che spesso utilizza carta rettangolare in rapporto DIN (ovvero rapporto tra i lati pari a 1.414). Questo fu il motivo storico per cui si preferì il formato rettangolare a quello quadrato. Tale fatto giustificherebbe il perché oggi i sensori rettangolari hanno rapporti spinti, simili a quelli presenti in schermi wide-screen o dei dispositivi mobili, oggetti tecnologici che hanno ormai sostituito la carta stampata. Un’altra giustificazione è di natura pratica e dovuta al fatto che un sensore rettangolare è meno sensibile ai difetti associati all’ottica dato che l’immagine finale è ottenuta da zone lontane dai bordi del campo dove si ha spesso la caduta di luminosità e della qualità dell’immagine (vignettatura e coma).  Quindi l’utilizzo di sensori rettangolari richiede una qualità ottica inferiore e quindi un risparmio per le ditte produttrici (Figura 1).

Figura 1: La forma più naturale per un sensore è il cerchio (A) che purtroppo risulta non ottimizzata per la stampa. Il quadrato (B) è migliore ma, rispetto al rettangolo (C) è più soggetto alla presenza di difetti ottici. Inoltre il rettangolo è più adatto alla stampa commerciale oltre ad essere più "gradevole" da un punto di vista estetico.

Infine, a queste due motivazioni tecnologiche bisogna aggiungerne una di natura psicologica. Il rettangolo, specie se di proporzioni auree (ovvero rapporto tra i lati pari a 1.618), risulta assai più gradevole agli occhi di un quadrato. A seguito di tutti questi fattori, storicamente si optò per l’utilizzo di sensori di forma rettangolare. Ma con quale rapporto? Di che dimensioni?

LO ZOO DEL FORMATO

Essendo frutto di spinte differenti, il rapporto tra i lati del rettangolo che costituiscono il sensore così come le sue dimensioni sono praticamente casuali. Ad oggi esistono infinite combinazioni di lati e rapporti. Alcuni di questi, riportati in Tabella 1, si sono diffusi più di altri.

 
Nome Formato Base (mm) Altezza (mm) Rapporto
1/2.5” 5.76 4.29 1.343 (4:3)
1/1.7” 7.6 5.7 1.333 (4:3)
2/3” (Fuji, Nokia) 8.6 6.6 1.303 (4:3)
1” (Nikon, Sony) 13.2 8.8 1.5 (3:2)
Four Thirds System (Olympus, Panasonic) 17.3 13 1.331 (4:3)
Foveon (Sigma) 20.7 13.8 1.5 (3:2)
APS-C (Canon) 22.2 14.8 1.5 (3:2)
APS-C (Nikon, Sony, Pentax, Fuji) 23.6 15.7 1.503 (3:2)
APS-H (Canon) 28.7 19 1.510 (3:2)
Full Frame (35 mm) 36 24 1.5 (3:2)
ATIK 314L+ (Sony ICX-285AL) 8.98 6.71 1.338 (4:3)
ATIK 383L+ (Kodak KAF 8300) 17.6 13.52 1.302 (4:3)
ATIK 11000 (Kodak KAI 11002) 37.25 25.70 1.449 (3:2)
Imaging Source DMK41 (Sony ICX-205AL) 7.6 6.2 1.223 (5:4)
Celestron NexImage 5 5.7 4.28 1.332 (4:3)

Tabella 1: Esempi di formati più diffusi.

In particolare, in cinematografia si diffuse a partire dal 1909 il formato 35 mm. Questo aveva dei fori ai lati per il trascinamento della pellicola durante la proiezione video. Lo stesso formato venne convertito nel fotografico 135 che manteneva i fori ai lati ed una dimensione dei fotogrammi pari a 24 x 36 mm. Tale formato si diffuse e costituì lo standard per le pellicole fotografiche nelle fotocamere analogiche (vedi Figura 2). Con l’avvento della tecnologia digitale si cercò di ottenere fotocamere con sensori di dimensioni 24 x 36 mm, note come sensori full frame. Ad oggi, la maggior parte dei sensori digitali hanno dimensioni inferiori a 24 x 36 mm e pertanto si associa al termine full frame quello di pieno formato. Questa terminologia è interessante in quanto, nella fotografia analogica, il formato 24 x 36 mm era spesso ritenuto piccolo rispetto ai più grandi medio e grande formato.

Figura 2: il formato 135, il più diffuso nel mondo della fotografia analogica amatoriale e semi-professionale.

La stessa varietà di forme e rapporti presenti nell’ambito della fotografia tradizionale si riflette nella fotografia astronomica dove i formati più diffusi sono stati riportati in Tabella 1. Le dimensioni dei sensori così come quelle degli elementi fotosensibili che li costituiscono determinano anche il fattore crop e quindi il loro utilizzo. Ecco quindi che sensori molto piccoli e con un’elevata densità di pixel vengono utilizzati nelle riprese planetarie al fine di massimizzare l’ingrandimento ottenuto dall’ottica mentre grandi sensori con pixel molto grandi sono preferibili per la fotografia astronomica DeepSky dove invece è richiesta alta sensibilità alla debole luce proveniente da oggetti lontani oltre che ad un grande campo per riprenderli nella loro interezza. Per maggiori informazioni sull’effetto crop consigliamo la lettura dell’articolo il fattore di crop.




Misurare il cielo

La bellezza suscitata da un’immagine astrofotografica nasconde talvolta una pletora di informazioni scientifiche purtroppo alla mercé dei soli astronomi professionisti. In questo articolo andremo ad analizzare il significato di dimensione angolare degli oggetti celesti ed in particolare vedremo come ottenere questa informazione a partire dalle nostre fotografie amatoriali.

Quando riprendiamo ad esempio una galassia, ci sentiamo spesso dire: “Questa galassia è enorme” oppure “ma che bella galassietta” per indicare una galassia di piccole dimensioni; informazioni soggettive che non ci permettono di effettuare confronti con altre foto scattate da noi stessi o da altri astrofotografi.

Come possiamo fornire una misura oggettiva delle dimensioni di tale galassia?

Iniziamo dal principio, ovvero dalla prima informazione che possiamo ottenere sull’oggetto ripreso: la dimensione in pixel. Questa misura dipenderà sostanzialmente da due fattori: la lunghezza focale del telescopio e le caratteristiche della camera di ripresa. La sola misura in pixel quindi non ci permetterà di avere un confronto diretto tra immagini effettuate in condizioni differenti di ripresa, ma rimane comunque un buon punto di partenza al fine di ottenere una misura oggettiva delle dimensioni del nostro oggetto celeste.

Vediamo quindi come ottenere in pratica tale informazione utilizzando software generici come Photoshop (o simili) o software specifici come PixInsight.

Trovare le dimensioni degli oggetti in pixel

Le dimensioni di un oggetto in pixel possono essere ottenute utilizzando programmi generici di grafica che possiedono la funzione righello, ovvero uno strumento in grado di fornirci in pixel la distanza tra due punti dell’immagine. A titolo di esempio, in Photoshop CS3 è possibile stimare la distanza tra due stelle, cliccando sullo strumento righello (rule) ed andando a disegnare una linea tra i due punti da misurare. La distanza, espressa in pixel sarà riportata in alto, sotto lo spazio dedicato ai menù, nel campo indicato con la lettera L1 (Figura 1).

Figura 1: esempio di misura di dimensioni espresse in pixel

Nell’esempio considerato, la distanza tra le due stelle a lato della galassia M81 è pari a 426.04 pixel. Come dicevamo questa misura dipende ancora da alcuni parametri strumentali come la distanza focale del telescopio e le caratteristiche della camera di ripresa. Infatti la stessa distanza può assumere valori differenti in pixel se il campo fosse stato ripreso con un telescopio più grande o con una camera con dimensioni degli elementi fotosensibili inferiori. Come svincolarci da tutto questo? Bisogna trasformare questa misura in qualcosa di più generale e oggettivo. Per fare ciò andiamo a vedere cos’è una misura angolare.

Misure angolari

Quando guardiamo la volta celeste, stiamo osservando una distribuzione di stelle su una superficie immaginaria che non è “piana” come un foglio di carca ma piuttosto “sferica” come una cupola di una chiesa. Se dobbiamo stimare la distanza tra due punti su un foglio di carta, utilizziamo una misura lineare come può essere una lunghezza espressa in millimetri o centimetri. Quando però la distanza è tra due punti su una sfera, allora si utilizzano quelle che sono le misure angolari ovvero si va a misurare l’angolo compreso tra i due punti in esame. Questo in passato veniva misurato con “goniometri specifici” che potete trovare ancora in alcuni osservatori astronomici. Oggi usiamo appunto le fotografie digitali. L’unità di misura dell’angolo è il grado. Dato che le distanze angolari astronomiche sono spesso molto piccole si è deciso di utilizzare anche i sottomultipli del grado ossia il minuto ed il secondo. Per distinguerli dai minuti e secondi temporali (i sottomultipli dell’ora), si parla spesso di minuti d’arco o arcmin e secondi d’arco o arcsec. Supponiamo ora di avere due stelle separate da un secondo d’arco. Queste due stelle verranno focalizzate dal nostro telescopio sul sensore della nostra fotocamera digitale (reflex o CCD). Quest’ultimo può essere considerato piano e pertanto dotato di dimensioni lineari espresse in millimetri o in unità di elementi fotosensibili ovvero in pixel. A che distanza lineare sul sensore espressa in pixel corrisponderà la distanza angolare celeste di un secondo d’arco? Per rispondere a questo dobbiamo percorrere la strada che ha portato quei raggi dal Cosmo al nostro sensore.

Dal Cosmo al pixel

Per semplicità, consideriamo un telescopio rifrattore costituito da una sola lente biconvessa in grado di focalizzare la luce ad una distanza (lunghezza) focale F. Lo stesso discorso si può estendere a qualsiasi schema ottico. Supponiamo ora che ad una certa distanza “prospettica” dal telescopio ci siano due stelle separate tra loro da un angolo θ. Da un punto di vista geometrico, il nostro telescopio genererà sul sensore l’immagine delle due stelle separate da una distanza lineare d (vedi Figura 2).

Figura 2: Relazione geometrica tra l’angolo θ e la distanza d.

Dal punto di vista matematico possiamo trovare una relazione geometrica tra θ e d ed in particolare:

risolvendo rispetto a d otteniamo:

La distanza d dovrà essere espressa nelle stesse unità di misura della lunghezza focale F e quindi in mm. Se ora vogliamo convertire d da mm in pixel dobbiamo dividere per la dimensione di un elemento fotosensibile espresso anch’esso in mm. Nel caso della foto di Figura 1, la camera di ripresa era una ATIK 383L+ monocromatica con elementi fotosensibili quadrati delle dimensioni di 5.4 micron ossia 5.4 x 10-3 mm. Quindi detta l la dimensione in mm di un elemento fotosensibile (pixel) abbiamo:

Prima di procedere con il calcolo notiamo che l’angolo θ deve essere espresso in radianti. Questa strana unità di misura può essere convertita in gradi utilizzando la seguente equivalenza:

E ricordando che 1° sono 3600 secondi d’arco otteniamo:

Sostituendo quindi l’espressione di θ in quella per il calcolo di d in pixel abbiamo:

Quindi nelle condizioni di ripresa di Figura 1 con lunghezza focale del telescopio pari a F = 750 mm avremo che un secondo d’arco corrisponderà ad una distanza lineare espressa in pixel di:

Quindi il fattore di scala r della nostra immagine astrofotografica sarà 1 arcsec / 0.67 pixel ossia:

che nel caso in esame è 1.49 arcsec/pixel. Questo fattore di scala è importantissimo perché ci permette di stimare le dimensioni dei nostri oggetti in secondi d’arco data la loro estensione misurata in pixel. Proviamo ora a verificare che quanto appena detto sia corretto utilizzando due tecniche differenti: la prima prevede l’utilizzo di Stellarium mentre la seconda di PixInsight.

Stellarium

Stellarium è un planetario gratuito completo di importanti funzioni tra cui la misura angolare delle distanze. Quindi date due stelle possiamo misurarne con Stellarium la loro distanza angolare. Quindi, assumendo di aver fotografato una galassia, possiamo utilizzare le stelle di campo per determinare il fattore di scala r e quindi successivamente la dimensione angolare della galassia data la sua lunghezza espressa in pixel. Per fare ciò apriamo il software Stellarium e apriamo la “Finestra di configurazione” cliccando sull’icona della chiave nel menù di sinistra. Andiamo quindi sul tab “Plugins” e quindi scegliamo “Misura angolo”. Spuntiamo il quadratino “Carica all’avvio” e riavviamo il programma (vedi Figura 3).

Figura 3: la finestra di configurazione di Stellarium

Una volta riavviato il programma, ci troveremo una icona a forma di “angolo sotteso” nel menù in basso. Clicchiamoci sopra e disegniamo una retta sul campo stellare. Il programma disegnerà una linea continua indicando la misura angolare espressa in gradi, primi e secondi. Nel caso delle due stelle in esame di Figura 1 otteniamo 10 arcmin 36.94 arcsec, come mostrato in Figura 4.

Figura 4: La distanza angolare tra le stelle di Figura 1

Se vogliamo esprimere tutto in secondi d’arco dobbiamo ricordare che 1 arcmin = 60 arcsec e 1° = 3600 arcsec, quindi la distanza tra le due stelle risulterà essere 636.94 arcsec. Se ora dividiamo questo numero per la misura effettuata precedentemente sulla nostra foto in pixel, ossia 426.04 pixel abbiamo un fattore di scala r pari a 1.49 arcsec/pixel, in perfetto accordo con quanto calcolato precedentemente per via teorica. Ovviamente si può raffinare il calcolo facendo più misure utilizzando le stelle di campo presenti nel fotogramma. Ciascuna misura dovrà poi essere raffigurata in un grafico θ(arcsec) in funzione di d(pixel). Il coefficiente angolare della retta, imposto il passaggio per lo zero, sarà il fattore di scala r.

 

PixInsight

PixInsight è un software specifico per l’elaborazione di immagini astronomiche. Grazie alla professionalità del team di sviluppatori, oggi è possibile usare PixInsight non solo come strumento “estetico” ma anche scientifico grazie ad un suo script noto come ImageSolver. Prima di tutto è quindi necessario accedere a PixInsight ed aprire un’immagine astronomica sia essa un singolo frame o una somma di più immagini opportunamente calibrate. Dopodiché apriamo ImageSolver andando sul menù Script → ImageAnalysis →ImageSolver. Si aprirà una finestra intitolata Image Plate Solver Script (vedi figura 5).

Figura 5 : la finestra dello script Image Plate Solver

 A questo punto dovrete inserire delle informazioni chiave: le coordinate del vostro oggetto (meglio del centro del fotogramma) spuntando la casella S se le coordinate di declinazione sono negative, l’epoca di riferimento delle coordinate (2000 o attuali), la lunghezza focale del vostro telescopio espressa in mm (spuntate il pallino relativo) e la dimensione dei pixel della vostra camera di ripresa in micron. Successivamente nella sezione “Model Parameters” spuntate “VizieR star catalog:” e dal menù a tendina selezionate (preferibilmente) UCAC3 ed il server francese CDS . Come “Limit magnitude” imponiamo il valore 17. Trascuriamo completamente la sezione “Advanced parameters” lasciando le impostazioni preimpostate. Se non conoscete le coordinate dell’oggetto ripreso potete cliccare sull’icona che rappresenta una lente di ingrandimento. Si aprirà una nuova finestra dal titolo Online Coodinates Search (Figura 6).

Figura 6: lo strumento Online Coordinates Search

A questo punto inserite nel campo “Object identifier” il nome dell’oggetto che avete ripreso e come server utilizzare (preferibilmente) il francese CDS. Cliccando sulla lente di ingrandimento nel campo “Names” ritroverete il vostro oggetto e le sigle ad esso associate. Clicchiamo sul nome e quindi premiamo il tasto OK. Le coordinate dell’oggetto, come per magia appariranno nella sezione “Image parameters” della finestra Image Plate Solver Script. Clicchiamo quindi su OK e aspettiamo che PixInsight faccia il suo lavoro. Al termine di una serie di calcoli, nella “Process Console” troveremo direttamente il nostro fattore di scala espresso in arcosecondi per pixel (Figura 7).

Figura 7: il risultato ottenuto utilizzando PixInsight e lo script ImageSolver

Utilizzando PixInsight otteniamo pertanto un fattore di scala r pari a 1.47 arcsec/pixel, in buon accordo con quanto calcolato precedentemente per via teorica e misurato utilizzando la combinazione di software Photoshop CS3 + Stellarium. La discrepanza di circa l’1% tra il valore teorico e quello fornito da PixInsight può essere dovuto alla non planarità del piano focale (coma) che farà assumere valori diversi di r a seconda della posizione nel fotogramma.

Conclusioni

In questo articolo abbiamo mosso i primi passi verso la “misura del Cosmo”. In particolare abbiamo imparato a calcolare e/o misurare il fattore di scala r ossia il legame tra la misura lineare espressa in pixel di un oggetto o di una distanza e la misura angolare espresse in secondi d’arco. In questo modo potremo fornire delle misure oggettive delle dimensioni degli oggetti ripresi, fare confronti con altre immagini riprese da noi o da altri astrofotografi nonché misurare lo spostamento di un oggetto celeste come comete e asteroidi. Un primo passo verso l’astrometria amatoriale.