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Come raffreddare la propria reflex digitale

Come ben sappiamo mantenere bassa la temperatura di un sensore CMOS o CCD è di fondamentale importanza per la riduzione del rumore termico che viene registrato nei light frame acquisiti durante le sessioni astrofotografiche.

In commercio, la maggior parte delle camere CCD per uso professionale presentano sistemi più o meno complessi in grado di portare il sensore fino a decine di gradi sotto la temperatura ambiente. Per fare ciò vengono utilizzate semplici ventole per la rimozione del calore e la sua dispersione nell’ambiente o celle di Peltier che permettono di raggiungere e mantenere la temperatura di lavoro del sensore ben al di sotto dei zero gradi Celsius.

Ma come possiamo fare a raffreddare il sensore di una comune reflex che magari abbiamo già modificato per uso astronomico rimuovendo il filtro ir-cut?

La soluzione che procediamo ad analizzare e che è stata totalmente sviluppata in casa utilizzando parti di recupero, consiste nella realizzazione di una zanca in metallo da collegare alla reflex che funge da supporto per una ventola alimentata a 12V. Grazie all’elevato flusso d’aria prodotto (convezione forzata), la ventola applicata migliora la dissipazione del calore prodotto dalla camera riducendo conseguentemente la temperatura del sensore.

Il supporto è stato realizzato in Alluminio, scelta valutata in termini di minor peso rispetto ad altri materiali, piegando una piccola lastra, creando i fori per fissare la ventola  e tagliando le parti non necessarie in termini di stabilità al fine di alleggerirne ulteriormente la struttura. Bisogna assolutamente tenere in considerazione la solidità del proprio focheggiatore e allo stesso tempo non si deve utilizzare una lastra troppo sottile in quanto ciò potrebbe causare micro vibrazionicon conseguente micro mosso che va ad inficiare sulla qualità degli scatti. Può essere utile applicare un feltrino alla base di contatto con la reflex per smorzare le possibili micro vibrazioni che possono essere generate dalla ventola.

Per quanto riguarda la ventola utilizzata, la scelta è ricaduta in particolare su 2 modelli intercambiabili, entrambe brush-less in modo da ridurre il più possibile le vibrazioni smorzabili dal supporto. Una è da 3000 rpm che garantisce un maggior afflusso di aria a patto di presentare vibrazioni non trascurabili, ed una da 1800 rpm con minor flusso d’aria ma totalmente priva di vibrazioni. Queste ventole poi son state protette con una piccola gabbia per evitare che vengano inavvertitamente colpite le pale in rotazione e cablate con normale cavo 2×0,75 nero e rosso terminato su connettore a banana, la classica presa accendi sigari.

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Ovviamente questa realizzazione deve avere anche un riscontro in termini di prestazioni, pertanto si è proceduto ad effettuare una serie di test in una stanza climatizzata a temperatura costante di 21±1° sia per quanto riguarda la temperatura rilevata nel corpo macchina (ottenuta con termometro interno) che per quanto riguarda il rumore presente nei dark frame ripresi a diversi tempi di posa. La fotocamera utilizzata è una Canon EOS 1000D.

TEMPERATURA DELLA FOTOCAMERA

Come si evince dal grafico la diminuzione di temperatura rilevata effettuando pose da 5 minuti di posa si attesta intorno ad un delta termico di pochi gradi nella prima mezzora, mentre dai 35 minuti in poi la variazione di temperatura rispetto alla condizione di ventola spenta si attesta attorno ai 5°C costanti. I valori riportati nel grafico sono la media di 3 test separati effettuati in entrambe le condizioni.

RUMORE TERMICO

Il rumore termico è stato valutato prendendo in considerazione la deviazione standard negli scatti di dark frame. Questa è stata misurata su dark frame ripresi a 5 minuti di distanza l’uno dall’altro in 3 sessioni distinte a cui è stata successivamente applicata la media per ogni frame. Come si nota dal grafico la quantità di rumore acquisito è molto minore con la ventola attiva, come si può evincere inoltre anche dalla seguente immagine comparativa.

Possiamo a questo punto concludere che questa semplice soluzione, di facile realizzazione, produce un abbattimento sensibile del rumore termico, migliorando non di poco la qualità dei frame acquisiti.

[contributo di Matteo Manzoni]




Il guadagno di una camera digitale

Negli ultimi anni, le maggiori ditte produttrici di fotocamere digitali (DSLR) stanno combattendo forsennatamente per aggiudicarsi il sensore con maggiore numero di pixel ed elettronica in grado di fornire il maggiore numero di ISO. Proprio per questo motivo abbiamo deciso di affrontare per l’ennesima volta l’argomento ISO, ovvero “il guadagno di una camera digitale”. Altri articoli presenti su questo sito sono il significato degli ISO nelle fotocamere digitalie gli ISO e l’immagine astronomica. ASTROtrezzi ha approfondito in dettaglio il processo che porta, partendo dai “fotoni” (luce) proveniente da oggetti celesti lontani nello spazio e nel tempo, ad avere una bellissima immagine astronomica sul monitor di casa nostra. Il guadagno di una camera digitale (e quindi vedremo gli ISO) si trova tra la generazione del segnale da parte del sensore CCD o CMOS (vedi l’articolo La generazione del segnale) ed il conseguente processo di digitalizzazione dello stesso (vedi l’articolo ADC: dal mondo analogico a quello digitale). Riassumiamo quindi brevemente cosa succede: il nostro raggio di luce (fotone) prodotto in una lontana galassia, viaggia per milioni di anni fino a raggiungere la nostra ottica (obiettivo e telescopio) che lo devia facendolo incidere su un pixel del nostro sensore. Qui, con una certa probabilità dettata dall’efficienza quantica (vedi l’articolo Efficienza quantica) viene convertito in elettroni. Dato un certo tempo di esposizione, la quantità di carica raccolta dal pixel viene amplificata e quindi digitalizzata da un componente elettronico noto come ADC (Analog to Digital Converter). Questo processo di amplificazione permette di ottimizzare la dinamica del sistema ovvero far si che la fotocamera possa raccogliere il maggior numero di sfumature di grigio (ricordiamoci che il sensore è in bianco e nero, vedi per esempio l’articolo costruire un’immagine a colori).

Supponiamo come esempio di lasciare esposto il nostro sensore per un certo tempo (tempo di esposizione) alla pioggia di fotoni cosmici. Una volta passato questo intervallo di tempo andiamo, come dei contadini, a raccogliere il numero di elettroni accumulati in ciascun pixel. Supponiamo che questi variano da 0 (cielo nero) a N (nucleo della galassia), rimanendo sempre al di sotto della massima Full Well Capacity ossia il massimo numero di elettroni immagazzinabili in un singolo pixel. A questo punto il nostro segnale dovrà essere digitalizzato a 14bit (ovvero convertito in 16384 differenti toni di grigio, misurati in ADU dove 0 ADU è il nero e 16383 ADU è il bianco). Prima della digitalizzazione però il segnale viene moltiplicato/diviso per un certo coefficiente detto guadagno della camera (G) e misurato in elettroni (e-) per ADU (alcuni definiscono guadagno il rapporto inverso ovvero ADU per e-). Quindi il numero di ADU in uscita dalla nostra camera andrà da 0 (per 0 elettroni prodotti nel sensore) a N/G. Ovviamente G < 1 significa che il segnale viene amplificato mentre G > 1 ridotto. Esiste una correlazione tra guadagno e ISO che però dipende dalla fotocamera digitale considerata (il guadagno è scelto in modo di ottimizzare la dinamica del sensore). Nel caso della Canon EOS 40D, il guadagno varia da 3.40 e-/ADU a 100 ISO a 0.21 e-/ADU a 1600 ISO.

Supponiamo quindi di aver raccolto con la nostra esposizione un numero di elettroni pari a 20000, allora questi corrisponderebbero a 5882 ADU a 100 ISO e 95238 ADU a 1600 ISO. Come si vede nel primo caso stiamo utilizzando il 36% della dinamica, mentre nel secondo caso, tutti i pixel che hanno collezionato più di 3440 elettroni appariranno come bianchi (16383 ADU) in quanto mandano in saturazione l’ADC. Ecco quindi che nel secondo caso l’immagine risulterà bruciata ovvero perdiamo informazioni sulle sfumature dei bianchi.

Abbiamo qui imparato una cosa molto importante: il guadagno non aumenta la sensibilità del sensore. Quest’ultimo infatti agisce solo al termine della raccolta della luce e pertanto non influenza la capacità o meno del sensore di immagazzinare i fotoni. Quindi il numero di fotoni raccolti da una CCD astronomica o DSRL è indipendente dal numero di ISO utilizzati ma è legato unicamente al tempo di esposizione e alle caratteristiche dell’ottica (rapporto focale). Chiamare (come si fa abitualmente) gli ISO sensibilità è quanto di più fuorviante si possa pensare. Ma allora come agiscono gli ISO sulle nostre immagini astronomiche?

Prima di tutto dobbiamo chiederci quale è il tempo di esposizione che abbiamo a nostra disposizione. Ricordiamo ancora una volta come quest’ultimo sia il parametro fondamentale della nostra ripresa astronomica. Supponiamo di avere un tempo t massimo dettato da vari fattori (tempo a disposizione, rischio meteo o inquinamento luminoso, qualità di inseguimento della montatura, numero di scatti che vogliamo mediare …). Andiamo quindi a misurare quanti elettroni riusciamo a collezionare in questo tempo utilizzando la nostra ottica (obiettivo fotografico o telescopio ad un certo rapporto focale fissato). Per fare ciò impostiamo gli ISO al minimo. Se già con gli ISO al minimo la nostra foto risulta già in saturazione (perdiamo informazione sui bianchi) allora sarà necessario abbassare il tempo di esposizione, altrimenti dovremo modificare gli ISO in modo che la nostra dinamica venga completamente coperta dai 16 bit dell’ADC. In figura 1 vediamo l’effetto di un’immagine che non sfrutta la dinamica, che la sfrutta appieno o va in saturazione.

Figura 1: (A) immagine che non sfrutta appieno la dinamica, (B) immagine corretta, (C) immagine in saturazione

 

Analizzando questa figura notiamo un problema tanto importante in astronomia quanto in fotografia tradizionale. Nella nostra immagine abbiamo sia parti deboli (nebulosità) caratterizzate da un numero esiguo di elettroni accumulati nel pixel che regioni luminose come le stelle, al limite della saturazione già a bassi valori di ISO. Come fare ad ottenere quindi immagini corrette dove le stelle luminose non vanno in saturazione e le deboli nebulosità possano emergere?

La risposta è ovviamente semplice dal punto di vista teorico quanto complessa da quello sperimentale: aumentare il numero di ADU ossia il numero di bit dell’ADC. Questa è la soluzione che in astronomia è stata affrontata con le camere CCD dedicate che lavorano infatti con ADC a 16 bit e non a 14 bit come le DSLR tradizionali. Il futuro delle reflex sarà quello di avere dinamiche sempre superiori in modo che ad un certo valore di ISO sarà possibile ottenere sfumature di neri e bianchi che poi verranno sfruttare in post-produzione al fine di ottenere immagini corrette.

In assenza di alti bit, l’unica possibilità è fare una doppia esposizione ovvero una a bassi ISO per le stelle ed una ad alti ISO per la debole nebulosità.Questa ultima frase potrebbe trarre alle sbagliate conclusione che aumentando gli ISO vediamo gli oggetti più deboli e quindi aumentiamo la sensibilità della camera. Come detto in precedenza questo non è vero. Alzare gli ISO vuol dire semplicemente “spalmare” il segnale sulla dinamica fornita dall’ADC. In questo processo non solo andremo ad aumentare il segnale (presente ed indipendente dagli ISO) ma anche il rumore.

Quindi riassumendo le migliori condizioni di lavoro sarebbero tempi lunghi e bassi ISO o in mancanza di tempo ISO adatti ad ottimizzare la dinamica del soggetto della ripresa (nebulose, galassie o ammassi). Il tutto diventerebbe ottimale se agli scatti deepsky si aggiungesse uno scatto “veloce” ottimizzato sulle stelle di campo in modo da salvarne i colori.

Questo ovviamente in un mondo idilliaco. Infatti se alti ISO significa alto rumore elettronico, lunghi tempi di esposizione significa alto rumore termico. Il secondo può essere eliminato grazie all’utilizzo del master dark frame, mentre il primo sommando più scatti. Ecco quindi l’amletico dilemma: meglio tanti scatti ad alti ISO o pochi scatti a bassi ISO? Se si considera un intervallo di tempo determinato (la notte astronomica), allora tenuto conto del tempo necessario per effettuare i dark frame, è meglio effettuare molti scatti a elevati valori di ISO, come dimostrato nell’articolo gli ISO e l’immagine astronomica. Questo ovviamente a patto che il rumore introdotto nell’amplificazione del segnale (ISO) sia casuale. Questo è vero generalmente per reflex semi-professionali o professionali. Per le reflex non professionali consigliamo un range di ISO compresi tra 400 e 800 ISO. Infine, nel caso di fotocamere raffreddate (CentralDS o CCD astronomiche), immagini a lunga posa risultano prive di rumore termico e pertanto si consigliano tempi di esposizione lunghi e valori di ISO bassi. Riportiamo a titolo di esempio in figura 2 il risultato del test riportato nell’articolo gli ISO e l’immagine astronomica.

Figura 2: Confronto tra la somma rispettivamente di 4 immagini da 8 minuti a 200 ISO e 30 immagini da 1 minuto a 1600 ISO.

Facciamo inoltre notare come, in assenza di scatti multipli (e quindi riduzione del rumore elettronico presente negli scatti ad alti ISO), l’utilizzo di tempi di esposizione lunghi e bassi valori di ISO è consigliata. Questa è la condizioni standard della fotografia tradizionale.

Concludendo quindi: il segnale astronomico (numero di fotoni che incidono sul pixel) non dipende dal numero di ISO utilizzati ma è funzione del tempo di esposizione. Maggiore sarà il tempo di esposizione e maggiore saranno le informazioni che andremo a raccogliere. A questo punto aspetta all’astrofotografo cercare di non perdere queste preziose informazioni scegliendo il valore di ISO più adatti. Questi dipenderanno dalla luminosità dell’oggetto, dal tempo a disposizione per effettuare la/le posa/e, dalla possibilità di effettuare multipli scatti, dal rumore dell’ADC (casuale o no?), da rumore termico dalla dinamica dell’ADC (14 o 16 bit). Figura 2 mostra come, seppur l’immagine a sinistra sia stata ottenuta esponendo per 8 minuti, questa sia stata distrutta dall’eccessivo rumore termico. Infatti raccogliendo meno informazioni (1 minuti) ma ottimizzando il valore degli ISO (elevati a patto di avere multipli scatti) si è riusciti a spremere al massimo l’informazione ottenendo un risultato analogo in termini di informazioni e superiore in termini di rumore.




Il Master Bias Frame

Nel post Il bias frame, abbiamo analizzato la natura di questo particolare tipo di scatto utile per la calibrazione delle nostre immagini astronomiche. In particolare abbiamo visto come esso contenga informazioni sull’offset associato alla nostra camera di ripresa oltre che sulla struttura del rumore elettronico non casuale. Ovviamente il tutto condito da rumore elettronico casuale a media nulla.

Proprio quest’ultimo abbiamo imparato a ridurlo mediando numerosi bias frame. Infatti, essendo per definizione il rumore casuale a media nulla, è facilmente eliminabile mediando il valore del livello di luminosità di ciascun pixel su un certo numero di frame. La questione aperta, oggetto di questo post è: “Quanti scatti mediare?”. La risposta è sempre la solita che si trova su libri e siti di astrofotografia ovvero più scatti vengono mediati e migliore è il risultato ottenuto. Inoltre si trova erroneamente riportato che il rumore del bias frame mediato o master bias frame è inversamente proporzionale alla radice del numero di frame utilizzati nella media. Questo non è vero in generale e scopriremo il perché dal punto di vista statistico.

Innanzitutto supponiamo di considera un singolo pixel soggetto da solo rumore elettronico casuale. Questo significa che se consideriamo i valori di luminosità BL(x,y,i) assunti dal singolo pixel di coordinate (x,y) in un certo numero di frame N, questi saranno distribuiti secondo una distribuzione gaussiana centrata in un certo valore medio BL(x,y). Lo stesso ovviamente si può dire per ogni pixel del sensore e quindi per ogni valore della coordinata (x,y). Se ora quindi effettuiamo la media aritmetica dei vari bias frame, otterremo per ogni pixel il valore medio di luminosità BL(x,y). Se ora costruiamo la distribuzione dei livelli di luminosità BL(x,y) allora otterremo ancora una distribuzione gaussiana con valore medio BL che, se tutto è stato effettuato correttamente, corrisponde all’offset della nostra camera di ripresa. La distribuzione dei BL(x,y) è gaussiana e rappresenta la distribuzione dei valori medi di luminosità assunta da un certo numero N di bias frame. Essendo la distribuzione della media, questa ha larghezza σ pari al readout noise diviso per la radice di N. Il rumore elettronico casuale quindi scala come la radice quadrata del numero di bias frame utilizzati.

Purtroppo però il nostro bias frame non contiene solo rumore elettronico casuale associato all’elettronica ed al processo di conversione analogico/digitale (ADC) ma anche del rumore elettronico non casuale come rumori a pattern fisso o transienti. Questi andranno così a modificare la nostra distribuzione BL(x,y) che non scalerà quindi più con la radice quadrata del numero di frame. Trascurando i rumori transienti, di secondaria importanza ed eliminabili utilizzando ad esempio la mediana dei frame invece della media, i rumori a pattern fisso (righe, bande, …) non sono a media nulla e pertanto non vengono eliminati nel processo di media dei singoli bias frame. Praticamente più che di rumore dovremmo parlare di segnale.

Rumori casuali e non casuali vanno così a sommarsi in quadratura dando luogo alla larghezza σ complessiva della distribuzione dei valori di BL(x,y). Quando effettuiamo la somma di più bias frame avremo che la componente “casuale” di σ andrà a scalare con la radice quadrata del numero di bias frame, mentre la componente “non casuale” rimarrà fissa ad un determinato valore σ0. Nel caso ipotetico di avere un numero infinito di bias frame allora  σ coinciderà esattamente con σ0.

Al fine di dimostrare quanto appena detto, abbiamo effettuato la mediana di un certo numero di bias frame N calcolando di volta in volta la larghezza della distribuzione dei livelli di luminosità del master bias frame (ovvero ricordiamo ancora una volta, del frame ottenuto come media/mediana di N bias frame). La camera utilizzata è una ATIK 383L+ monocromatica in bin 1×1 raffreddata a -16.9°C ed una Canon EOS 500D. Il risultato ottenuto è mostrato in Figura 1.

Figura 1: quadrato della larghezza (RMS) della distribuzione dei livelli di luminosità BL(x,y) del master bias frame in funzione dell'inverso del numero di frame utilizzati, per camera CCD ATIK383L+ monocromatica e CMOS Canon EOS 500D

Dal fit effettuato sui punti di Figura 1 possiamo subito notare come il quadrato di σ sia funzione di 1/N (ovvero σ scala come la radice del numero di conteggi) e presenti un asintoto che corrispondente quindi al quadrato di σ0. Se mediamo quindi un numero di frame sufficientemente elevato (diciamo > 10, anche se > 50 è decisamente consigliato) allora il contributo a σ dovuto al rumore casuale diviene praticamente trascurabile.

Ricordiamo inoltre che, nel caso delle DSLR, σ è funzione del numero di ISO utilizzato dato che le condizioni di funzionamento dell’elettronica cambiano al variare della sensibilità utilizzata. Figura 2 mostra ad esempio la variazione di σ  in funzione degli ISO per una fotocamera Canon EOS 40D. Si può facilmente notare come questa incrementi in modo praticamente lineare all’aumentare della sensibilità.

Figura 2: larghezza della distribuzione dei livelli di luminosità BL(x,y) del bias frame in funzione degli ISO di una DSLR Canon EOS 40D

Concludendo quindi possiamo affermare che per ottenere un buon master bias frame è necessario acquisire un numero di frame N sufficientemente elevato da ridurre la componente di rumore casuale presente nell’immagine. Sono i rumori elettronici non casuali a determinare la larghezza minima della nostra distribuzione e pertanto un N eccessivamente grande non comporta nessun miglioramento della qualità del master bias frame. Purtroppo molto spesso i rumori non casuali sono intrinsechi dell’elettronica e pertanto difficilmente riducibili. Ricordiamo infine che bassi valori di sensibilità (ISO) sono consigliabili dato che posseggono un valore di σ inferiore. Questo non coincide con il readout noise dato che per ottenere tale valore dobbiamo sottrarre al bias frame la componente non casuale del rumore (ottenibile mediando un numero elevato di bias frame escluso quello in esame). Per maggiori informazioni sul readout noise consigliamo la lettura del post Il bias frame.




Come ridurre i diametri stellari

Quando si muovono i primi passi nel mondo dell’astrofotografia, si viene colti dall’ossessione di riprendere il numero maggiore di stelle. Questo perché i primi risultati, spesso deludenti, mostrano qualche stella spesso mossa o sfuocata circondata da un immenso cielo nero.

Con il passare del tempo però la tecnica migliora e grazie ad astroinseguitori e montature più o meno computerizzate il problema del numero di stelle diventa secondario. Infatti i tempi di esposizione si allungano così tanto da raggiungere il livello in cui è l’inquinamento luminoso a determinare il numero di stelle presenti in una ripresa astronomica.

La qualità di un’immagine astronomica non dipende però solo dal numero di stelle riprese ma dalla loro qualità. In che senso? Supponiamo di dover riprendere una nebulosa debole immersa in un campo di stelle luminose. Dopo pochi secondi di posa i pixel colpiti dalla luce delle stelle andranno subito in saturazione raggiungendo il loro massimo livello di luminosità. Della nebulosa invece nessuna traccia, essendo molto debole. Cosa si fa quindi? Si aumenta il tempo di posa. In questo modo la nebulosa comincia ad apparire e i pixel già saturi cominciano a trasbordare passando della carica ai pixel vicini. Il risultato netto è quello che le stelle si espandono aumentando il loro diametro. Ecco quindi che aumentando la posa avremo una bella nebulosa con sovrapposto dei “palloni” bianchi (le stelle sature ed espanse).

In questo articolo descriveremo alcune tecniche da effettuare in post produzione (ovvero dopo aver applicato le opportune tecniche di calibrazioni delle immagini e somma) al fine di ridurre i diametri stellari (vedi Figura 1).

Fig. 1: Immagine della nebulosa Cono con e senza la riduzione dei diametri stellari.

In particolare abbiamo analizzato quattro tra le più note tecniche di riduzione dei diametri stellari con Photoshop nel mondo dell’astrofotografia digitale: Astronomy Tool, Traslazione, Filtro Minimo, Peter Shah.

Astronomy Tool e Peter Shah

Queste due tecniche per la riduzione dei diametri stellari sono una serie di operazioni da effettuare con Photoshop raggruppate in un’unica azione scaricabile da internet. In particolare queste azioni sono state testate su Photoshop CS2 al fine di evitare problemi di incompatibilità con le versioni più recenti del programma.

Astronomy Tool è un’insieme di azioni a pagamento acquistabili per 21.95 $ (aggiornato a Maggio 2013) dal sito http://www.prodigitalsoftware.com/Astronomy_Tools_For_Full_Version.html . Una volta scaricate le azioni in un unico file .ATN è necessario copiarlo ed incollarlo in una cartella (ad esempio create ed incollate il file nella directory C:\Programmi\Adobe\Adobe Photoshop CS2\Azioni). A questo punto aprite Photoshop CS, cliccate su Finestra → Azioni e quindi cliccando sull’icona mostrata in Figura 2 andate su Carica Azioni e selezionate il file .ATN relativo a Astronomy Tool.

Fig. 2: come caricare le azioni di Photoshop CS

A questo punto aprite l’immagine con le stelle da ridurre e cliccando sull’azione “Make Stars Smaller”, Photoshop CS farà tutto il lavoro per voi riducendo i diametri stellari. Applicate pure l’azione più volte finché l’immagine finale risulterà di vostro gradimento. L’azione Peter Shah scaricabile all’indirizzo http://stargazerslounge.com/index.php?app=core&module=attach&section=attach&attach_id=11811 , è gratuita e progettata per Photoshop CS. La procedura di installazione è la stessa appena descritta per Astronomy Tool ma in questo caso l’azione si chiama “StarRemoving”. Purtroppo questa funziona solo su versioni di Photoshop CS in lingua inglese. Se volete farla funzionare su versioni di Photoshop CS in lingua italiana scrivete a davide@astrotrezzi.it .

Traslazione

Il metodo della traslazione dei dischi stellari consiste in una serie di operazioni questa volta non automatizzate in un’azione dedicata ma da eseguire una dopo l’altra nell’ordine qui indicato:

  • Aprite l’immagine con le stelle da ridurre con Photoshop CS
  • Cliccare su Selezione → Intervallo Colori. Impostate il menù seleziona su luci e quindi cliccate su OK. In questo modo verranno selezionati tutti i dischi stellari ed alcune regioni estremamente luminose del profondo cielo (non importa, lasciatele o deselezionatele).
  • Cliccate su Selezione → Modifica → Arrotonda. Inserite il valore 1 e cliccate su OK.
  • Cliccate su Selezione → Modifica → Espandi. Inserite il valore 1 e cliccate su OK.
  • Cliccate su Selezione → Modifica → Bordo. Inserite il valore 4 e cliccate su OK. A questo punto la selezione dovrebbe essere rappresentata da un cerchio intorno a ciascuna stella dell’immagine. In caso contrario provate a impostare valori più altri.
  • Cliccate su Modifica → Copia
  • Cliccate su Modifica → Incolla creando così un nuovo livello.
  • Nella finestra dei livelli (se non l’avete cliccate su Finestra → Livelli) andate sul nuovo livello e impostate come metodo di fusione Scurisci.
  • Cliccate su Livello → Duplica Livello. Cliccate OK
  • Ripetete il punto precedente altre due volte in modo da generare quattro livelli con le stelle oltre all’immagine di partenza (Sfondo).
  • A questo punto andate su ognuno di questi quattro livelli e spostateli utilizzando le frecce della tastiera rispettivamente su, giù, destra e sinistra di una stessa quantità (l’ideale è fare un pixel alla volta).
  • Visualmente dovreste vedere una sensibile riduzione dei dischi stellari. Cliccate infine su Livello → Unico Livello. Questo appiattirà tutti i livelli sull’immagine di sfondo.
  • Salvate l’immagine così ottenuta. Se necessario ripetete tutta la procedura più volte.

Filtro Minimo

La tecnica della riduzione dei dischi stellari utilizzando il filtro Minimo è una delle più diffuse tra gli astrofotografi professionisti. Come per il metodo della traslazione, anche in questo caso non abbiamo un’azione di Photoshop CS e pertanto bisognerà compiere manualmente la serie di operazioni riportate qui sotto:

  • Aprite l’immagine con le stelle da ridurre con Photoshop CS
  • Cliccate su Selezione → Intervallo Colori. Selezionate il colore con lo strumento contagocce e impostate la tolleranza su 200. In questo modo verranno selezionate tutte le stelle e le regioni deepsky particolarmente intense (non importata, lasciatele o deselezionatele). Cliccate quindi su OK.
  • Cliccate su Selezione → Modifica → Espandi, inserite il valore 4 e cliccate su OK.
  • Cliccate su Selezione → Modifica → Sfuma, inserite il valore 2 e cliccate su OK. In questo modo dovremmo avere una selezione circolare intorno ad ogni stella dell’immagine.
  • Cliccate su Filtro → Altro → Minimo. Ponete raggio pari a 1 pixel e cliccate su OK. A questo punto dovreste vedere già una diminuzione del diametro stellare. A questo punto però dobbiamo ridurre leggermente l’effetto del filtro. Per fare questo,
  • Cliccate su Modifica → Dissolvi Minimo. Portiamo il cursore su 50% e cliccate su OK.
  • Salvate l’immagine così ottenuta. Ripetete più volte tutta la procedura finché il diametro stellare non sarà di vostro piacimento.

CONFRONTO TRA I VARI METODI

Abbiamo considerato l’immagine della nebulosa Cono scattata da ASTROtrezzi ( https://www.astrotrezzi.it/?p=666 ) applicando i quattro metodi di riduzione dei diametri stellari appena illustrati al fine di valutarne l’efficacia e la qualità. In Figura 3 è illustrato il risultato di questo test.

Fig. 3: Confronto tra l'applicazione dei quattro metodi illustrati in questo articolo per la riduzione dei diametri stellari.

La prima immagine rappresenta una regione di 400 x 400 pixel dello scatto originale. Si può osservare come la nebulosa sia ben visibile ma le stelle risultato sature e abbastanza dilatate. La seconda immagine è stata invece ottenuta applicando 3 volte l’azione Astronomy Tool. La nebulosa mantiene una certa morbidezza mentre la riduzione dei dischi stellari si nota anche se in modo non del tutto evidente. Nella terza immagine si è utilizzato invece il metodo della traslazione. La riduzione è più efficace di quella ottenuta con Astronomy Tool a patto di aumentare il rumore dell’immagine nonché modificare la forma degli spikes che presentano ora una leggera interruzione. La quarta immagine è stata ottenuta applicando il metodo del filtro minimo tre volte. In questo caso il rumore dell’immagine è migliore rispetto a quello ottenuto con il metodo della traslazione e la riduzione dei dischi stellari è più efficace di quella ottenuta con Astronomy Tool. Purtroppo questo metodo sembra però presentare degli artefatti, simili ad aloni poco luminosi, nelle vicinanze dei dischi stellari. Infine la quinta immagine è stata ottenuta con l’azione di Peter Shah applicata tre volte. In questo caso il rumore è ancora contenuto e la riduzione stellare è ottima e priva di artefatti.

Quale è il miglior metodo per ridurre i dischi stellari? Il più efficiente è sicuramente l’azione sviluppata da Peter Shah per Photoshop CS. Questa permette di ridurre il diametro stellare senza introdurre artefatti come invece fanno (seppur molto marginalmente) i metodi della traslazione e del filtro Minimo. L’azione Astronomy Tool è meno efficiente di quella di Peter Shah anche se l’immagine finale risulta in generale più morbida. La morbidezza può comunque essere ottenuta tramite tecniche di riduzione del rumore da applicare dopo la riduzione del diametro stellare. Per ridurre gli artefatti nell’utilizzo del metodo filtro Minimo consigliamo di espandere l’immagine di un fattore due o tre. Al termine del lavoro si procederà con la riduzione della stessa riportandola alle dimensioni originali.

Il confronto tra i metodi discussi in questo articolo non può però fermarsi qui. Infatti un altro fattore importante nella scelta di un metodo di riduzione dei diametri stellari è quello relativo all’elasticità del metodo utilizzato. Infatti il diametro ottimale delle stelle non esiste ed è a discrezione dell’autore. In questo senso un metodo che permette di ridurre i diametri stellari in modo progressivo risulta favorito. Alla luce di ciò il metodo della traslazione è molto limitante dato che applicato due volte fornisce un’immagine ricca di artefatti e di scarsa qualità. Abbiamo quindi spinto al limite i metodi discussi al fine di testare quando il metodo utilizzato comincia a creare degli artefatti che vanno ad inficiare la qualità dell’immagine. In Figura 4 è illustrato il risultato del test.

Fig. 4: Confronto tra l'applicazione limite dei quattro metodi illustrati in questo articolo per la riduzione dei diametri stellari.

È possibile notare ancora una volta come quello in grado di fornire l’immagine migliore è l’azione di Peter Shah anche se meno elastico del metodo filtro Minimo e dell’Astronomy Tool.

Riassumendo quindi, l’azione sviluppata da Peter Shah offre il migliore strumento per la riduzione dei diametri stellari. Peccato che questa funzioni correttamente solo su versioni di Photoshop CS in lingua inglese. Una modifica per farlo funzionare anche sulla versione di Photoshop CS in italiano non è complicata e per maggiori informazioni scrivete a davide@astrotrezzi.it . Appena possibile svilupperemo un nostro metodo di riduzione dei diametri stellari per Photoshop CS basato sull’azione di Peter Shah. Al secondo posto, praticamente a pari merito, abbiamo l’azione Astronomy Tool e il metodo del filtro Minimo. Ognuno dei due metodi ha dei pregi e dei difetti. Comunque risultano entrambi molto flessibili e offrono un risultato generalmente molto buono. Purtroppo l’azione Astronomy Tool è a pagamento. Ultimo della lista è il metodo della traslazione che, oltre ad essere poco flessibile, introduce artefatti e rumore all’immagine.

Chiunque voglia partecipare attivamente nello sviluppo di plug-in e azioni per Photoshop CS può mandare un mail all’indirizzo davide@astrotrezzi.it .




Il Flat Frame

Negli articoli “Il bias frame” ed “Il dark frame” abbiamo visto come correggere il valore di luminosità assunto da ciascun pixel del nostro sensore a semiconduttore al fine di ottenere una risposta omogenea all’assenza di luce. In questo modo, in assenza di luce, il nostro elemento fotosensibile assumerà livello di luminosità pari a 0 ADU. Ma cosa succede ora se cominciamo a mandare dei fotoni sul sensore (si veda “Un Universo di fotoni”)? Quello che ci aspettiamo, una volta corretta la nostra immagine con il master dark ed il master bias, è che:

Livello di Luminosità = valore teorico + rumore elettronico casuale

Questo sarebbe vero se tutti i pixel rispondessero allo stesso modo alla radiazione luminosa. Purtroppo la situazione è più complicata e ogni pixel produce un numero di elettroni diverso dall’altro quando inondato da una sorgente luminosa uniforme. Perché?

I motivi possono essere molti. Prima di tutto ciascun elemento fotosensibile, a causa principalmente delle piccole dimensioni e quindi della difficoltà tecnologica nella realizzazione dello stesso, è diverso l’uno dall’altro. Così se inondiamo due pixel del nostro sensore a semiconduttore con una sorgente uniforme, questi forniranno due livelli di luminosità leggermente (si spera) diversi.

Inoltre non tutte le regioni del sensore sono sensibili allo stesso modo per motivi di costruzione ed infine la luce che ci giunge da una sorgente uniforme deve passare da un sistema ottico che per definizione non ha un campo perfettamente piano, ovvero ai bordi del campo si ha un maggiore assorbimento della radiazione luminosa (vignettatura). Se mettiamo tutti in formule, ciascun pixel avrà quindi livello di luminosità dato da:

Livello di Luminosità = (valore teorico x flat) + rumore elettronico casuale

dove con flat abbiamo indicato un coefficiente di proporzionalità diverso da pixel a pixel. Come ottenere questo coefficiente? La risposta è quantomai semplice. Basta inondare il sensore con una sorgente di luce uniforme. Questa dovrebbe generare un livello di luminosità uguale in ogni elemento fotosensibile. Ovviamente per quanto detto prima questo non succederà ed il valore di luminosità di ciascun pixel sarà pari a quello teorico per il flat. Ecco fatto quindi! Riprendere un’immagine di una sorgente luminosa coincide con il determinare per ciascun pixel il valore del coefficiente flat. Tale scatto è definito flat frame.

Sorgenti luminose uniformi ne esistono varie in commercio. Alcuni strumenti note come flat field generator o flat box sono in grado di fornire sorgenti di luce uniformi e con uno spettro praticamente bianco. Questo permette di avere in una sola esposizione un buon flat in tutti i canali RGB (vedi Costruire un’immagine a colori), fatto importante per sensori a colori come i CMOS delle DSLR. Altre sorgenti di luce approssimativamente uniformi sono i monitor dei computer, il cielo diurno, una maglietta bianca sull’ottica illuminata con una torcia, un muro o un foglio bianco. Lasciamo a voi la fantasia di trovare delle buone sorgenti di luce uniforme. In questi casi bisogna prestare attenzione a non riprendere le frequenze delle lampade (appaiono come bande chiare e scure nello scatto) o campi non perfettamente uniformi.

Trovata la sorgente di luce uniforme è necessario scattare con gli stessi ISO (bin) della ripresa dell’oggetto astronomico e soprattutto con la stessa messa a fuoco. Infatti un pixel potrebbe non assumere il valore di luminosità di un altro a seguito della presenza di polvere o macchie sul sensore. Tali macchie cambiano forma e intensità di assorbimento della luce al variare della messa a fuoco. Questo spiega il perché la messa a fuoco del flat frame deve essere la stessa dello scatto di ripresa dell’oggetto astronomico.

Cosa dire invece del tempo di esposizione? Questo va determinato in modo che il picco di luminosità del flat frame, che rappresenta il valore teorico in ADU fornito dalla sorgente di luce uniforme, risulti al centro dell’istogramma. Per fare questo è possibile utilizzare l’utility INFO presente sulle DSLR al fine di visualizzare sullo schermo della fotocamera l’istogramma relativo allo scatto oppure utilizzando software di elaborazioni delle immagini. Se usate IRIS per elaborare immagini CCD ricordatevi di sottoesporre il flat data la compressione in bit necessaria per elaborare l’immagine. Anche il flat frame ovviamente non è privo di errori ed il suo livello di luminosità è dato da:

Livello di Luminosità = valore teorico + rumore elettronico non casuale + offset + rumore termico + rumore elettronico casuale

 I bias frame utilizzati per la correzione del dark e della ripresa dell’oggetto astronomico possono essere utilizzati anche per correggere il flat ovviando così al rumore elettronico non casuale ed all’offset. Per ovviare al rumore termico è necessario riprendere i dark frame ma utilizzando come tempo di ripresa il tempo di esposizione del flat e non quello di ripresa dell’oggetto astronomico. Il rumore elettronico casuale invece può essere ridotto sommando (mediando) più flat frame. Una volta corretto il flat frame e mediati i flat frame corretti (master flat frame) abbiamo:

Livello di Luminosità [mediato su N scatti] = valore teorico = flat

ottenendo così il coefficiente flat per ciascun elemento fotosensibile del nostro sensore a semiconduttore. I master flat presentano la stessa struttura sia nel caso di CCD che CMOS. Riportiamo pertanto un esempio di flat frame ripreso con una Canon EOS 500D modificata Baader (vedi La “modifica Baader” per DSLR) ed il relativo istogramma RGB. Come si vede dalle immagini, la sorgente luminosa generata dal flat field generator utilizzato non è perfettamente bianca. Ricordiamo infine che seppur in minima parte, la temperatura e l’umidità possono modificare le condizioni di ripresa dei flat frame. Pertanto consigliamo di riprendere tali scatti direttamente sul campo al termine della sessione astrofotografica.

Figura 1: esempio di flat frame acquisito con una DSLR modello Canon EOS 400D modificata Baader.

Figura 2: istogramma per i canali RGB relativo al flat frame riportato in Figura 1.

 




Il Dark Frame

Nell’articolo “Il Bias Frame” abbiamo visto come un sensore a semiconduttore (CCD e CMOS) risponde al buio, ovvero alla totale assenza di fotoni. Abbiamo così imparato che in questo caso, il livello di luminosità di un pixel è dato dai seguenti contributi:

Livello di luminosità = valore teorico + offset + rumore termico + rumore elettronico casuale + rumore elettronico non casuale

Il Bias Frame è definito come “scatto veloce” con tempo di esposizione paragonabile a zero e pertanto con rumore termico nullo. Cosa succede se ora invece di effettuare uno “scatto veloce” al buio ne effettuiamo uno lento? In questo caso gli elettroni di origine termica, emessi in modo continuo dall’elemento a semiconduttore, andrebbero a sommarsi durante il tempo di esposizione producendo un rumore in un certo senso “proporzionale” al tempo di esposizione. Dal punto di vista teorico questo andrà a costituire una coda ad alti valori di livelli di luminosità. Per sensori di tipo CCD il gioco finisce qui, mentre la faccenda si complica nel caso di CMOS dove la temperatura del sensore non è generalmente controllata (se non nei casi delle DSLR CentralDS). Infatti, con l’aumentare del tempo di esposizione, e posa dopo posa, la temperatura del sensore CMOS varia così come l’emissione di elettroni termici in ciascun elemento fotosensibile. Il risultato complessivo è che ciascuna posa di buio risulta lievemente diversa. A questa variazione della temperatura dell’elemento a semiconduttore bisogna aggiungere anche la possibilità che la temperatura ambiente cambi durante la notte.

Indichiamo quindi con il termine rumore termico l’aumento del livello di luminosità associato all’emissione di elettroni termici, sia questa costante nel caso di sensori a temperatura controllata o variabile nel caso di DSLR tradizionali o raffreddate esternamente.

IL DARK FRAME

Il discorso fatto per in precedenza è riferito ad un solo elemento a semiconduttore: può essere esteso a tutta la matrice di fotoelementi che costituiscono il sensore? In linea generale si, ma dato che l’emissione termica (così come il bias) è diversa per ogni elemento a semiconduttore, il valore di luminosità di buio sarà differente da pixel a pixel. Data un’immagine di buio è quindi necessario sapere quale è il valore dell’offset, l’eventuale rumore elettronico non casuale ed il rumore termico di ciascun pixel, in modo che se sottratto all’immagine “lenta di buio” si otterrà una matrice di pixel con livello di luminosità pari a 0 ADU. Solo in questo modo se durante la ripresa di un oggetto celeste non arriveranno fotoni sull’elemento fotosensibile corrisponderà ad una luminosità pari a 0 ADU.

Prendiamo pertanto la nostra macchina fotografica digitale (DSLR) o la nostra camera CCD astronomica e poniamo il tappo di fronte all’ottica al fine di non far arrivare fotoni sul sensore ricreando pertanto la condizione di buio. Settiamo il tempo di esposizione della nostra DSLR o camera CCD astronomica pari a quello che verrà utilizzato per la ripresa dell’oggetto celeste (vedi il post “Il Light Frame”). Ricordiamo che per le reflex dobbiamo impostare anche gli stessi ISO utilizzati per riprendere la nostra immagine astronomica al fine di porsi nelle stesse condizioni di scatto (la catena elettronica funziona in modo diverso a seconda degli ISO impostati). Per lo stesso motivo anche il binning della nostra camera CCD non dovrà essere modificato. Con questi settaggi si riprendano un certo numero di immagini noti come dark frame.

Per calibrare un’immagine astronomica in modo che un pixel assuma un livello di luminosità pari a 0 ADU è necessario sottrarre all’immagine stessa l’offset, i rumori elettronici non casuali e il rumore termico. Questo può essere effettuato facilmente dato che tutte queste informazioni sono contenute nel dark frame. In particolare definito master dark frame la media dei singoli dark frame, il livello di luminosità di ciascun pixel dell’immagine astronomica calibrata sarà:

Livello di Luminosità = valore assunto dal pixel – master dark frame

Ecco quindi che se effettuiamo una ripresa della galassia di Andromeda e abbiamo un pixel che non viene raggiunto da nessun fotone (ad esempio un pixel del fondo cielo), allora questo assumerà un livello di luminosità pari, per quanto detto prima:

Livello di luminosità = valore teorico + rumore elettronico casuale + master dark

Ecco quindi che se all’immagine della galassia di Andromeda sottraiamo il master dark frame, otteniamo che il pixel privo di fotoni avrà un livello di luminosità pari a:

Livello di luminosità = valore teorico + rumore elettronico casuale

Dove il rumore elettronico casuale diviene prossimo a zero mediando un certo numero N di immagini riprese nelle stesse condizioni di scatto ovvero

Livello di luminosità [mediato su N scatti] = valore teorico

Scattare un dark frame però richiede molto tempo ed ottenere una statistica molto elevata può risultare complicata. Infatti ricordiamo che i dark frame vanno ripresi nelle stesse condizioni di scatto dell’immagine astronomica. Durante la nostra sessione astrofotografica dobbiamo quindi, in caso di fotocamere digitale prive di controllo della temperatura del sensore, prevedere di lasciare del tempo per acquisire un certo numero minimo di dark frame. Purtroppo nel tempo impiegato per riprendere un dark frame otteniamo più di 100 bias frame. Quindi malgrado non contenga informazioni sul rumore termico, il (master) bias frame è in grado di stimare con precisione statistica superiore il valore dell’offset e di eventuali rumori elettronici non casuali presenti nella ripresa rispetto al (master) dark frame. Diviene pertanto conveniente separare i due contributi e quindi creare un master dark che contiene il solo rumore termico medio ed un master bias che contiene informazioni sull’offset e sul rumore elettronico non casuale. Quindi ricordando che nel dark, il valore di luminosità di ciascun pixel è pari a

Livello di luminosità = master bias + rumore termico + rumore elettronico casuale = dark

Allora possiamo identificare la sola componente di rumore termico medio come:

rumore termico + rumore elettronico casuale = dark – master bias

e quindi successivamente mediando su un numero N  di scatti è possibile ridurre a zero il rumore elettronico casuale ottenendo il rumore termico medio.

Riassumendo, per calibrare correttamente le nostre immagini astronomiche sfruttando al meglio le informazioni che possiamo ricavare dal master bias frame, descritto nel post “Il Bias Frame”, e dai dark frame dobbiamo calcolare il rumore termico medio che con abuso di notazione viene anche chiamato master dark frame (creando ovviamente confusione):

rumore termico medio = MEDIA (dark frame – master bias frame) = master dark frame

e questo contiene tutte le informazioni sull’emissione termica di elettroni da parte di ciascun fotoelemento del sensore a semiconduttore. Il master bias frame conterrà invece tutte le informazioni relative all’offset e ai rumori elettronici di natura non casuale. Ecco quindi che in un’immagine di buio, ciascun pixel assumerà il seguente livello di luminosità:

Livello di luminosità [mediato su N scatti] = master bias frame + master dark frame

PIXEL CALDI E PIXEL FREDDI

Sino ad ora abbiamo parlato del rumore intrinseco che ciascun elemento a semiconduttore possiede. Esiste però la possibilità che alcuni pixel funzionino in maniera del tutto anomala rispetto agli altri. In particolare la maggior parte di questi posseggono un comportamento quantizzato, ovvero o rimangono sempre ad un livello di saturazione o rimangono completamente spenti. Nel primo caso si parla di pixel caldi mentre nel secondo caso di pixel freddi. Pixel caldi e freddi vanno “sottratti” da ciascuna immagine astronomica dato che introducono un segnale “fittizio”. In questo caso più che sottrazione si dovrebbe parlare di sostituzione. Infatti il livello di luminosità dei pixel caldi e freddi viene sostituito con il valore 0 ADU che è quello che dovrebbe assumere, dopo la calibrazione, un pixel che non riceve radiazione luminosa. Dato che i pixel freddi hanno livello di luminosità pari a 0 ADU, è praticamente inutile una loro identificazione, visto che la sostituzione non avrebbe nessun effetto. Ecco pertanto che la maggior parte dei software astronomici specializzati nell’elaborazione delle immagini prevedono una funzione di ricerca e quindi sostituzione, dei soli pixel caldi.

Esistono ora dei pixel che funzionano in modo anomalo ma non sono pixel caldi e freddi? Purtroppo si. Generalmente non sono molti e vengono identificati (e quindi eliminati) dai software astronomici come pixel caldi. Questi pixel noti come “pixel riscaldati” (warm pixel) sono pixel che generano un rumore termico con un tasso superiore rispetto a quelli tradizionali portandoli, in tempi di esposizione sufficientemente lunghi o a seguito di un aumento della temperatura del sensore, a saturazione.

Uno studio dei pixel riscaldati è progetto di ricerca per ASTROtrezzi.it. Chi fosse interessato è pregato di inviare un e-mail all’indirizzo ricerca@astrotrezzi.it   

Riportiamo di seguito lo studio del dark frame per una ATIK 314L+ B/W (sensore CCD) e per una Canon EOS 40D (sensore CMOS).

ATIK 314L+ B/W

Cominciamo con il dire che la CCD ATIK 314L+ B/W è una camera astronomica raffreddata da cella di Peltier a temperatura controllata. Questo significa che durante gli scatti la temperatura del sensore viene mantenuta costante da un sistema di controllo elettronico. Questo fatto è dimostrato riprendendo un certo numero di dark frame e confrontati. Il confronto è illustrato in Figura 1 e mostra come la distribuzione dei livelli di luminosità non vari da una posa ad un’altra.

Figura 1: Confronto tra quattro dark frame ripresi in successione uno dopo l’altro. Come si vede le distribuzioni sono identiche indice di una temperatura costante del sensore durante la ripresa

Data l’ampia dinamica e la ridotta corrente di lettura, una CCD è maggiormente sensibile alla corrente di buio o meglio al rumore termico. In particolare dato che la quantità di ADU indotti dal rumore termico aumenta all’aumentare del tempi di esposizione, quello che succede è una traslazione netta dell’offset all’aumentare del tempo di esposizione. Ecco quindi che in maniera più marcata rispetto ai sensori CMOS abbiamo uno spostamento dell’offset a causa dell’aumento del rumore termico integrato. Questo è visibile in Figura 2 dove si vede la differenza tra il bias frame ed un dark frame da 1000 secondi (quindi un periodo di integrazione, tempo di esposizione, un milione di volte più lungo).

Figura 2: Confronto tra bias e dark frame. Lo spostamento dell’offset è dovuto sostanzialmente al tempo di integrazione del rumore termico.

La sensibilità dei CCD al rumore termico o se vogliamo l’aumento della dinamica di questi tipi di sensori rispetto ai CMOS si riflette in una “non ottimale” sottrazione del master bias frame dai dark. In particolare dato che l’offset del bias è diverso da quello del dark, La sottrazione produce una curva che non risulta centrata a zero ADU come dovrebbe ma ha un massimo leggermente spostato (vedi Figura 8). In ogni caso, un eventuale stretching dell’istogramma permetterebbe di sistemare il tutto ottenendo quanto atteso teoricamente. Un esempio di rumore termico (master dark frame) effettuata su una singola posa è visibile in Figura 3.

Figura 3: esempio di master dark frame acquisito con una CCD astronomica modello ATIK 314L+ B/W. Si noti la distribuzione uniforme del segnale termico.

CANON EOS 40D

In questo post ci concentreremo principalmente sui sensori CMOS, dato che escludendo i modelli CentralDS, in tutti gli altri casi risultano privi di sistemi di controllo della temperatura (tra cui la Canon EOS 40D in esame). Questo rende complessa la descrizione del dark frame nel caso di reflex digitali. In primo luogo un rivelatore a semiconduttore, se non raffreddato, varia la sua temperatura durante la fase di funzionamento. Dato che gli scatti, siano essi immagini astronomiche o dark frame, avvengono in successione, quello che succede è che la temperatura dell’elemento fotosensibile va via via aumentando così come il rumore termico da essa indotto. L’effetto globale è quello della formazioni di code ad alti (e bassi) valori di ADU come visibile in Figura 4. Malgrado questo, gran parte dei pixel si comportano correttamente mantenendo costante la quantità di rumore termico ed aumentandone soltanto le fluttuazioni statistiche. Questo è visibile in Figura 5.

Figura 4: variazione della distribuzione dei livelli di luminosità del dark frame in funzione del numero di scatti successivi ossia della temperatura del sensore

Figura 5: malgrado l’aumento della larghezza dell’offset, la maggior parte dei singoli pixel si comportano correttamente mantenendo costante il suo valore.

Se però ora calcoliamo la quantità di ADU complessivi dell’immagine e la dividiamo per il numero di pixel del sensore, otteniamo quello che potremmo chiamare livello di luminosità media per pixel. In altre parole quello che andiamo a misurare è la quantità di ADU che mediamente possiede ciascun pixel, ovvero un’approssimazione dell’offset. Se il rumore indotto dai singoli fotoelementi fosse costante, allora il livello di luminosità medio per pixel non dovrebbe variare da scatto a scatto. L’aumento di temperatura invece provoca un aumento del rumore termico che si traduce quindi in un aumento del livello di luminosità medio per pixel. L’andamento per una successione di 8 dark frame da 7 minuti a 800 ISO, ripresi in successione uno dopo l’altro, è illustrato in figura 6. Come si vede, dopo un gradiente iniziale dovuto al riscaldamento “veloce” del sensore, successivamente l’aumento del livello di luminosità media in funzione della temperatura è lineare (con coefficiente di correlazione pari a 0.97) pari a 2.6821 ADU/°C.

Figura 6: aumento del livello di luminosità media per pixel in funzione della temperatura del sensore per dark frame da 7 minuti a 800 ISO acquisiti in rapida successione.

La figura 6 dovrebbe farci riflettere sul fatto che quando riprendiamo delle immagini astronomiche con una reflex digitale, il rumore termico ad essa associato non è costante e varia da posa a posa. Cosa possiamo fare? Purtroppo poco. L’unica possibilità è lasciare un periodo di tempo tra una posa e la seguente in modo da permettere al sensore di raffreddarsi. Ricordiamo comunque che il livello di luminosità media per pixel è variata in 8 dark da 7 minuti di “soli” 43 ADU su un valore medio inziale pari a 1044 ADU. L’errore che quindi commettiamo nel non considerare il riscaldamento del sensore a seguito del suo funzionamento è esiguo e mediamente inferiore al 5%. Gran parte del “rumore termico” è poi contenuto in quelli che abbiamo chiamati pixel caldi e riscaldati. Una sottrazione e correzione di questi pixel porterebbe ad un significativo miglioramento della qualità del master dark frame.

Un altro effetto è la dipendenza del rumore termico dal tempo di esposizione. Infatti all’aumentare del tempo di posta aumenta la quantità di rumore termico integrato. Il processo è lineare per tempi di esposizione sufficientemente lunghi come mostrato in figura 7. In particolare in grande è riportata la variazione del livello di luminosità medio per pixel in funzione del tempo di esposizione, mentre nel riquadro piccolo il livello di luminosità medio per pixel sempre in funzione del tempo di esposizione.

A 800 ISO, abbiamo dopo 150 secondi di posa, un incremento di rumore termico lineare (coefficiente di correlazione lineare 0.99) pari a 0.1421 ADU/secondo.

Figura 7: variazione del livello di luminosità media per pixel in funzione del tempo di esposizione. Nel riquadro a lato livello di luminosità media per pixel in funzione del tempo di esposizione. Tutti i dark frame sono stati ripresi a 800 ISO.

La quantità di rumore termico che introduciamo aumenta quindi linearmente con il tempo di esposizione andando a deteriorare l’informazione contenuta nell’elemento fotosensibile. Ma quanto contribuisce questo rumore rispetto all’offset? Abbiamo visto in precedenza come un aumento della temperatura del sensore introduce una variazione del livello di luminosità media per pixel inferiore al 5%. In questo caso per tempi di esposizione pari a 7 minuti a 800 ISO abbiamo che la variazione di ADU rispetto al bias frame è pari a 42 ADU e quindi inferiore persino a quello che si ottiene a seguito del riscaldamento del sensore.

In ogni caso questo valore rimane costante da posa a posa se la temperatura del sensore rimanesse costante (cosa che invece abbiamo visto non accadere). 42 ADU è quindi il vero contributo di rumore medio contenuto in ciascun pixel alimentato per 7 minuti a 800 ISO in condizioni di buio ad una determinata temperatura T. Quindi se i 43 ADU dovuti alla variazione di temperatura del sensore erano una sorgente di errore nel processo di “costruzione” del master dark frame, questi 42 ADU costituiscono il rumore termico medio costante intrinseco della fotocamera e quindi facilmente correggibile attraverso il processo di sottrazione del master dark frame (rumore termico medio).

La variazione dell’offset del dark frame rispetto all’offset bias frame nel caso di CMOS varia quindi dal 5% nel caso di fotocamera “fredda” al 10% nel caso di fotocamera riscaldata. Tale discrepanza è comunque trascurabile e fa si che i due offset siano praticamente coincidenti traducendosi in un valore di livello di luminosità del master dark frame o del rumore termico medio pari a 0 ADU come correttamente atteso. Quindi nei sensori CMOS non siamo di fronte a quel offset fittizio descritto in precedenza nei sensori CCD e visibile in Figura 8.

Figura 8: distribuzione dei livelli di luminosità del master dark frame (rumore termico medio) nel caso di sensori CCD e CMOS. Si vede come nel caso dei sensori CMOS il segnale sia soltanto di natura termica (coda esponenziale) mentre nei sensori CCD si osserva la presenza di un finto offset a seguito della maggiore dinamica e quindi sensibilità allo spostamento dell’offset a seguito dell’integrazione del rumore termico.

Ricordiamo ancora una volta come la maggior parte del rumore termico venga immagazzinato nei pixel riscaldati che quindi giocano un ruolo importante nei sensori a semiconduttori. Riportiamo infine un’immagine del master dark frame nel caso di un sensore CMOS Canon EOS 40D.

Figura 9: esempio di master dark frame acquisito con una DSLR modello Canon EOS 40D (sensore CMOS). E’ possibile osservare i gradienti termici dovuti alle regioni del sensore più vicine a “punti caldi” dell’elettronica.

CONDIZIONI DI DARK FRAME

Ovviamente, dato che i dark frame contengono l’informazione termica del sensore a semiconduttore è strettamente necessario che questi vengano ripresi nelle medesime condizioni ambientali delle immagini astronomiche. Tale vincolo si traduce nel prevedere un tempo di ripresa dei dark a seguito di una notte astrofotografica oppure nel memorizzare la temperatura di utilizzo della camera CCD astronomica o DSLR nel caso di sensori dotati di sistemi di raffreddamento con controllo della temperatura. Nel caso delle reflex digitali persino l’umidità o la luce ambiente potrebbe influire la ripresa del dark frame e quindi è vivamente sconsigliato la ripresa di questi scatti durante l’alba o il tramonto o in notte successive a quella di ripresa.

Ricordiamo inoltre che alcuni pixel possono diventare caldi o freddi a seguito di una rottura per invecchiamento. Pertanto, nel caso di CCD o DSLR raffreddati è necessario ogni tanto aggiornare le proprie librerie di dark.

 MEDIA O MEDIANA

Sino ad ora abbiamo parlato di rumori, ovvero fenomeni fisici sempre presenti in ogni singolo dark frame. Esistono però altri fenomeni che possono verificarsi solo in alcuni dark frame e non in tutti. Questi fenomeni sporadici rischiano però di introdurre un segnale nella media spurio che al netto andrà a peggiorare la qualità dell’immagine astronomica finale. Un segnale sporadico è ad esempio quello generato dai raggi cosmici (per maggiori informazioni si legga l’articolo “I raggi cosmici e l’astrofotografia digitale”) i quali possono rilasciare parte della loro energia in uno o più pixel liberando un gran numero di elettroni.

Un modo per non considerare in una media i pixel che subiscono solo sporadicamente una grossa variazione del loro Livello di Luminosità è utilizzare invece della classica media aritmetica delle immagini, la mediana. Per maggiore informazioni sui vari algoritmi di media di immagini o più precisamente stacking delle immagini si legga l’articolo “Metodi di Stacking”.

IRIS E IL DARK FRAME

IRIS permette di creare il master dark (inteso come rumore termico medio), partendo dai singoli dark frame e dal master bias frame. Il metodo consigliato per combinare le singole immagini è il metodo della mediana. Per quanto riguarda la procedura operativa da seguire si rimanda alla Guida per l’elaborazione delle immagini astronomiche con IRIS. Chi fosse interessato allo studio metodico del dark frame o semplicemente vuole integrare questo articolo con ulteriori considerazioni e schede tecniche, è pregato di inviare una e-mail a ricerca@astrotrezzi.it .

 




Il Bias Frame

Negli articoli precedenti abbiamo visto come sia possibile creare per ogni elemento fotosensibile di un sensore a semiconduttore un segnale digitale in un certo senso proporzionale al flusso di radiazione incidente. Tale segnale rappresenterà, al termine del processo di formazione dell’immagine, il livello di luminosità di ciascun pixel di cui il sensore è costituito.

Sino ad ora abbiamo però considerato il caso in cui il sensore venga inondato da fotoni. Cosa succede se però scattiamo una fotografia al buio? Con buio intendiamo la totale assenza di luce ovvero la condizione di avere su ogni elemento fotosensibile zero fotoni. Zero fotoni significa che non abbiamo nessuna fonte di energia in grado di liberare elettroni in banda di conduzione e quindi di generare un segnale di carica. Nessun segnale si traduce infine in un segnale di ampiezza zero in uscita dell’ADC e quindi un livello di luminosità pari a 0 ADU. Riassumendo, una fotografia del buio è una matrice di pixel ciascuno con livello di luminosità pari a 0 ADU. Questo ovviamente in linea del tutto teorica. Vediamo ora cosa succede nella realtà.

DENTRO IL FOTOELEMENTO

In assenza di luce la possibilità di avere elettroni in banda di conduzione dovrebbe essere praticamente zero. Eppure l’agitazione termica degli elettroni associata al fatto che l’elemento fotosensibile a semiconduttore ha una determinata temperatura diversa da zero, permette ad alcuni di essi di “saltare” naturalmente dalla banda di valenza a quella di conduzione. Elettroni liberi si traducono al termine della catena elettronica in segnali luminosi. Ecco quindi che alcuni pixel che dovrebbero avere livello di luminosità pari a 0 ADU possono assumere valori differenti. Tale effetto aumenta all’aumentare della temperatura dell’elemento a semiconduttore la quale dipende dalla temperatura ambiente e dal riscaldamento dello stesso durante il funzionamento (effetto Joule). Ricordiamo inoltre che l’emissione di elettroni per agitazione termica è un processo continuo e quindi il numero di “cariche termiche” accumulate aumenta con il tempo di esposizione. Ridurre al minimo il tempo di esposizione significa quindi diminuire il numero di elettroni di natura termica. Inoltre, come detto prima, la temperatura del sensore dipende anche dalla temperatura ambiente. Questo significa che sistemi di raffreddamento come ventole o celle di Peltier, possono ridurre di molto il fenomeno di emissione di elettroni termici. In assenza di sistemi di raffreddamento vedremo quindi una notevole differenza tra le riprese effettuate in inverno e quelle estive. L’emissione di elettroni termici trasforma il vero segnale di buio pari a 0 ADU in un segnale con un livello di luminosità diverso da zero. Questo disturbo prende il nome di rumore termico. Nell’articolo “Il Dark Frame” vedremo come trattare questo tipo di rumore.

Se però ora effettuiamo uno scatto molto veloce al buio, allora il sensore funzionerà per un tempo così limitato da non permetterne il riscaldamento. Inoltre tempi d’esposizione brevi significano capacità nulla di accumulo delle “cariche termiche” ovvero riduzione quasi completa del rumore termico. Ecco quindi che scatti “veloci” al buio dovranno fornire in uscita dal sensore a semiconduttore segnali elettrici nulli come atteso teoricamente.

LA CATENA ELETTRONICA

Un segnale nullo in uscita dell’elemento fotosensibile corrisponde necessariamente ad un Livello di Luminosità del pixel associato pari a 0 ADU? Ovviamente no. La strada che il nostro segnale deve percorrere è lunga e piena di ostacoli. Il processo di amplificazione, conversione analogico – digitale e molti altri di natura elettronica introducono rumori. Se un sensore è progettato bene, allora tutti i rumori introdotti nel processo di formazione dell’immagine devono essere non correlati e di natura prettamente casuale. A questi possono però aggiungersi rumori non casuali come ad esempio interferenze elettroniche.

Nel caso di uno scatto “veloce” al buio quindi ogni pixel assumerà un livello di luminosità diverso da zero. La distribuzione di livelli di luminosità (istogramma) dei pixel di un sensore sarà quindi descritta da una gaussiana per i rumori di natura casuale con distorsioni più o meno consistenti nel caso in cui vi fossero rumori non casuali. Per motivi di natura tecnologica inoltre, il livello di luminosità corrispondente al buio (0 ADU) è traslato ad un valore noto come offset.

Se volessimo riassumere l’effetto dei rumori fin qui analizzati su un pixel per uno scatto “veloce”, ovvero con tempi di esposizioni prossimi a zero secondi, effettuato al buio potremmo dire:

Livello di Luminosità = valore teorico + offset + rumore termico + rumore elettronico casuale + rumore elettronico non casuale.

Per quanto detto in precedenza, facendo tendere il tempo di esposizione a zero si ha una riduzione drastica del rumore termico che diventa quindi trascurabile. Inoltre il valore in ADU teorico è 0, dato che non ci aspettiamo elettroni. Quindi la nostra espressione diventa.

Livello di Luminosità = offset + rumore elettronico casuale + rumore elettronico non casuale.

Cosa succede ora se effettuiamo N scatti “veloci” al buio e facciamo la media pixel per pixel del Livello di Luminosità associato? In questo caso ci viene in aiuto la statistica. La media dei valori assunti da una variabile casuale effettuata su un numero di campioni N che tende all’infinito tende al valore vero. Dato che nel nostro caso il rumore elettronico casuale fluttua intorno al valore zero, allora mediando su N scatti con N sufficientemente grande avremo che il rumore elettronico casuale diviene nullo. Pertanto:

Livello di Luminosità [mediato su N scatti] = offset + rumore elettronico non casuale.

Se l’elettronica così come il sensore utilizzato è stata progettata bene e la camera risulta isolata dal punto di vista elettromagnetico, allora il rumore elettronico non casuale dovrebbe essere nullo e il Livello di Luminosità mediato dovrebbe tendere al valore dell’offset del pixel. In caso contrario tale rumore elettronico non casuale, noto come rumore di lettura, sarà presente e non eliminabile dalle nostre immagini astronomiche. Questo può essere ottenuto sottraendo al Livello di Luminosità di un pixel il Livello di Luminosità mediato.

IL BIAS FRAME

Ciascun pixel di un sensore, sia esso CCD o CMOS, possiede quindi un offset. Siamo sicuri che tale offset sia lo stesso per tutti i pixel? Ovviamente no. Ogni pixel (dall’elemento fotosensibile alla catena elettronica) è diverso l’uno dall’altro e pertanto presenta un proprio offset, che mediamente è quello riportato nelle schede tecniche dei sensori. Come fare quindi a normalizzare i nostri pixel, in modo che se fotografiamo il buio otteniamo 0 ADU in ogni pixel? Per fare questo dobbiamo conoscere il valore dell’offset per ogni pixel e sottrarlo ai rispettivi pixel dell’immagine astronomica ripresa. Come fare?

Prendiamo la nostra macchina fotografica digitale (DSLR) o la nostra camera CCD astronomica e poniamo il tappo di fronte all’ottica al fine di non far arrivare fotoni sul sensore ricreando pertanto la condizione di buio. Settiamo come tempo di esposizione il minimo imposto dalle specifiche tecniche della nostra DSLR o camera CCD astronomica (ad esempio 1/8000 secondo per una Canon EOS 40D o 1/1000 di secondo per una ATIK 314L+ B/W). Ricordiamo che per le reflex dobbiamo impostare gli stessi ISO utilizzati per riprendere la nostra immagine astronomica al fine di porsi nelle stesse condizioni di scatto (la catena elettronica funziona in modo diverso a seconda degli ISO impostati). Per lo stesso motivo anche il binning della nostra camera CCD non dovrà essere modificato. Con questi settaggi si riprendano un certo numero di immagini che verranno successivamente mediati al fine di ottenere il Livello di Luminosità medio e quindi l’offset per ciascun pixel del sensore. Tali scatti prendono il nome di bias frame. Quindi, maggiore sarà il numero di bias frame acquisiti, minore sarà l’entità del rumore casuale presente nell’immagine e quindi migliore sarà la determinazione dell’offset. Ricordiamo infatti che, dal punto di vista statistico, la precisione con cui determiniamo l’offset aumenta come la radice quadrata del numero di bias frame acquisiti.

La presenza di rumori non casuali purtroppo va ad aumentare aumentando il numero di bias frame acquisiti e pertanto un basso rumore di lettura è una richiesta importante per un astrofotografo esigente.

Riportiamo di seguito lo studio di un bias frame e della media di 50 bias frame, nota con il nome di master bias frame, per una ATIK 314L+ B/W (sensore CCD) e per una Canon EOS 40D (sensore CMOS).

ATIK 314L+ B/W

L’ATIK 314L+ monocromatica monta un sensore CCD da 1392 x 1040 pixel. Abbiamo ripreso 50 bias frame con binning 1 x 1 e tempo di esposizione pari a 1/1000 secondo. In figura 1 è mostrato il livello di luminosità di un pixel del sensore CCD. Come si vede questo fluttua intorno al valore medio pari a 262.9 ADU con una varianza pari a 15.4 ADU. Lo stesso comportamento è stato mostrato da tutti gli altri pixel che costituisce la matrice del sensore.

Figura 1: Il Livello di Luminosità al variare del bias frame. Come descritto in precedenza questo fluttua intorno al valore “vero” dell’offset pari a circa 262 ADU.

In Figura 2 mostriamo invece la distribuzione dei Livelli di Luminosità (istogramma) dei pixel che costituiscono il sensore per un dato bias frame. La distribuzione è dominata da un rumore di tipo casuale, come dimostra il buon accordo con un fit di tipo gaussiano. Il valore medio della distribuzione è 265.999 ± 0.015 ADU con larghezza pari a 17.774 ± 0.012  ADU. Come atteso, mediando su 50 si ottiene una riduzione della larghezza pari a circa 5.77. Questo non è esattamente quanto previsto teoricamente (7.07) a causa della presenza nel picco gaussiano di contributi non gaussiani (rumori non casuali).

Figura 2: in azzurro la distribuzione dei Livelli di Luminosità di un sensore CCD in un bias frame. In rosso il risultato di un fit gaussiano della distribuzione. Ricordiamo che la larghezza della distribuzione del bias frame è spesso detta readout noise.

Al fine di comprendere l’entità di tali rumori non gaussiani si riporta in figura 3 la distribuzione dei Livelli di Luminosità del master bias frame in scala semi-logaritmica. Come si può notare esistono delle piccole code non gaussiane sicuramente imputabili a del rumore di tipo non casuale. Al fine di determinare se tale rumore è dovuto a fenomeni di interferenza elettronica, abbiamo deciso di sottrarre al bias frame il bias frame mediato (su 50 immagini) e di effettuare su tale differenza l’analisi di Fourier FFT. Il risultato, riportato sempre in figura 3 è uno spettro bianco, sintomo di totale assenza di rumore a frequenza spaziale.

Figura 3: a sinistra la distribuzione dei Livelli di Luminosità del master bias frame in scala semi-logaritmica. A destra lo spettro di Fourier ottenuto con il software ImageJ

 Interessante è l’analisi del master bias. In particolare (Figura 4) è possibile vedere un gradiente tra la zona alta e bassa del sensore. Questo perché durante il seppur breve periodo di trasporto delle cariche, queste stazionano con tempi diversi a seconda della loro posizione sul sensore. I pixel più vicini all’HCCD risultano quindi meno soggetti al rumore termico rispetto a quelli più lontani che integrano tale rumore su un tempo effettivamente maggiore. Questo effetto è invece invisibile nel caso di bias frame acquisiti con sensori di tipo CMOS dove i pixel vengono “svuotati” tutti nello stesso istante. Per maggiori informazioni si legga l’articolo “La Generazione del Segnale: CCD e CMOS”.

Figura 4: master bias. Si osservi come la regione più bassa e vicina al HCCD sia più buia (minor rumore di tipo termico) della regione più alta. A destra inoltre è visibile ad un pattern legato al supporto del sensore.

Concludendo la camera ATIK 314L+ monocromatica risulta tecnologicamente ben realizzata sia dal punto di vista fisico che elettronico. In particolare il rumore è sostanzialmente di natura casuale mentre la componente dovuta al rumore di lettura risulta praticamente trascurabile.

CANON EOS 40D

Anche nel caso della DSLR Canon EOS 40D, dotata di sensore CMOS da 3888 x 2592 pixel, il Livello di Luminosità dei singoli pixel fluttuano intorno al valor medio dell’offset. La distribuzione di tali valori all’interno di un singolo bias frame è mostrato in figura 5. Il valore medio della distribuzione è 1025.66 ± 0.002 ADU con larghezza pari a 7.631 ± 0.002  ADU (il valore più basso di quello ottenuto per la camera astronomica ATIK314L+ è dovuto alla minor dinamica della Canon EOS 40D). Come atteso, mediando su 50 frame si ottiene una riduzione della larghezza pari a circa 7.86. Questo è paragonabile a quanto previsto teoricamente (7.07) dovuto molto probabilmente al maggior numero di pixel presenti rispetto al CCD precedentemente preso in esame.

Figura 5: a sinistra in azzurro la distribuzione dei Livelli di Luminosità di un sensore CMOS in un bias frame. In rosso il risultato di un fit gaussiano della distribuzione. A destra lo stesso grafico in scala semi-logaritmica.

In questo caso la distorsione dello spettro è più evidente rispetto alla CCD ATIK sintomo della presenza non trascurabile di rumori non casuali. Questo è evidenziato dal medesimo plot in scala semi-logaritmica dove si nota la presenza di code a bassi e alti valori di ADU. Per un’analisi dettagliata del rumore di lettura si è proceduto come in precedenza attraverso la sottrazione degli spettri e l’analisi di Fourier. In questo caso si osserva però un rumore a frequenza spaziale fissata di tipo sinusoidale (Figura 6).

Figura 6: spettro di Fourier ottenuto con il software ImageJ. In questo caso l’immagine non è uniforme e si vede un rumore di tipo sinusoidale con frequenza spaziale fissata.

Riassumendo quindi, sia la ATIK 314L+ che la Canon EOS 40D mostrano un bias frame dominato sostanzialmente dal rumore casuale, quindi riducibile mediando molti frame. Per quanto riguarda la componente non casuale (rumore di lettura) nel caso dell’ATIK non presenta pattern spaziali, mentre per la Canon è stata verificata la presenza di un rumore spaziale di tipo sinusoidale.

CONDIZIONI DI BIAS FRAME

Sino ad ora abbiamo considerato completamente trascurabile il rumore termico presente in ciascun bias frame. Tale assunzione è corretta dato che la variazione della larghezza della distribuzione dei Livelli di Luminosità nel bias frame in funzione della temperatura del sensore è praticamente trascurabile e stimabile intorno allo 0.52%/°C . Purtroppo però spesso non si considera un altro fattore molto importante. Al variare della temperatura del sensore anche l’elettronica ad esso connesso risponde in modo differente ed in particolare abbiamo una variazione del valore assoluto dell’offset in funzione della temperatura. Tale confronto è ben visibile in Figura 7 dove si riporta la distribuzione dei Livelli di Luminosità per bias frame effettuati a diverse temperature del sensore.

Figura 7: Distribuzione dei Livelli di Luminosità in bias frame effettuate a diverse temperature del sensore CCD ATIK 314L+ B/W.

In particolare si osserva una variazione della posizione dell’offset pari al 3.47% in soli 5°C di escursione da +10°C a +5°C. Tale variazione è stata osservata anche per lunghe esposizioni (con conseguente aumento della temperatura del sensore) come riportato nell’articolo Canon EOS 40D”.

Ulteriori test saranno effettuati per verificare nuovamente ed in modo più dettagliato questo tipo di fenomeno. Per il momento possiamo comunque affermare che, data la dipendenza dalla temperatura del valore dell’offset, è sempre consigliabile acquisire i bias frame nelle stesse condizioni ambientali presenti al momento della ripresa astronomica.

MEDIA O MEDIANA?

Sino ad ora abbiamo parlato di rumori, ovvero fenomeni fisici sempre presenti in ogni singolo bias frame. Esistono però altri fenomeni che possono verificarsi solo in alcuni bias frame e non in tutti. Questi fenomeni sporadici rischiano però di introdurre un segnale nella media spurio che al netto andrà a peggiorare la qualità dell’immagine astronomica finale. Un segnale sporadico è ad esempio quello generato dai raggi cosmici (per maggiori informazioni si legga l’articolo “I raggi cosmici e l’astrofotografia digitale”) i quali possono rilasciare parte della loro energia in uno o più pixel liberando un gran numero di elettroni.

Un modo per non considerare in una media i pixel che subiscono solo sporadicamente una grossa variazione del loro Livello di Luminosità è utilizzare invece della classica media aritmetica delle immagini, la mediana. Per maggiore informazioni sui vari algoritmi di media di immagini o più precisamente stacking delle immagini si legga l’articolo “Metodi di Stacking.

IRIS ED IL BIAS FRAME

IRIS permette di creare il master bias, partendo dai singoli bias frame. Il metodo utilizzato per combinare le singole immagini è il metodo della mediana. Per quanto riguarda la procedura operativa da seguire si rimanda alla Guida per l’elaborazione delle immagini astronomiche con IRIS. Chi fosse interessato allo studio metodico del bias frame o semplicemente vuole integrare questo articolo con ulteriori considerazioni e schede teniche, è pregato di invare una e-mail a ricerca@astrotrezzi.it




Canon EOS 40D

Questo post, in continuo aggiornamento, riporta una serie di test effettuate su una DSLR modello Canon EOS 40D acquistata nel 2009.

Rumore in funzione del tempo di esposizione
Questo test si prefigge di studiare la variazione del rumore in funzione del tempo di esposizione (e quindi della temperatura) per sensibilità fissata, pari a 100 ISO. Con rumore intendiamo la larghezza della gaussiana relativa al valore di buio. Infatti se riprendiamo un’immagine di buio (dark), effettuata ad esempio ponendo il tappo di fronte all’obiettivo, dovremmo ottenere in linea teorica una riga a 0 ADU corrispondente alla situazione di zero fotoni raccolti in ciascun fotoelemento. Per questioni di natura fisica ed elettronica, si è deciso di associare al valore di buio un certo numero di ADU noto come offset. Inoltre vari rumori (casuali) associati al processo di fotorivelazione fanno si che lo spettro di buio non sia una riga ma una distribuzione gaussiana centrata nell’offset e con larghezza pari al rumore. Lo spettro di buio a 100 ISO a macchina “fredda” (25 °C) e a tempo di esposizione pari a 1/8000 secondo è riportato in figura 1.

Figura 1: Spettro di buio di una Canon EOS 40D (1/8000 secondo, 25°C @ 100 ISO)

Un fit gaussiano dello spettro di buio mostrato in figura 1 fornisce un valore del rumore pari a σ = 5.55 ADU, confrontabile con il valore del readout noise di 5.74 ADU misurato da Christian Buil (http://www.astrosurf.com/buil/eos40d/test.htm). Questo valore dipende evidentemente dalla sensibilità utilizzata e dal tempo di esposizione. In figura 2 è riportato il valore del rumore in funzione del tempo di eposizione. Come si vede si ha un aumento esponenziale in scala semilogaritmica che si traduce in un andamento lineare in funzione del tempo di esposizione. Un fit lineare fornisce un coefficiente angolare pari a 0.003774 ADU/s ed un valore di rumore zero pari a 5.46 ADU. Questo porta ad un aumento del rumore pari a 0.23 ADU/min pari al 4.1% del valore zero.

Figura 2: rumore in funzione del tempo di esposizione per sensibilità pari a 100 ISO (punti rossi). In blu è stato sovrapposto il fit lineare.

Durante la prova è stata monitorata anche la temperatura della camera (estraendola dai dati EXIF), il cui andamento in funzione del tempo è riportato in figura 3.

Figura 3: andamento della temperatura della camera in funzione del tempo.

Rumore in funzione degli ISO
Il rumore non è solo funzione del tempo di esposizione ma anche della sensibilità utilizzata. Si è pertanto effettuata una misura di rumore mantenendo costante la quantità di luce raccolta. Questo si traduce nella scelta dei seguenti tempi di esposizione: 480 sec. @ 100 ISO (33°C), 240 sec. @ 200 ISO (36°C), 120 sec. @ 400 ISO (36°C),  60 sec.  @ 800 ISO (38°C), 30 sec. @ 1600 ISO (38°C) e 15 sec. @ 3200 ISO (38°C). L’andamento del rumore in funzione degli ISO è mostrato in figura 4.

Figura 4: andamento del rumore in funzione della sensibilità (ISO).

Offset in funzione del tempo di esposizione
L’offset o bias è il valore in ADU associato al segnale di buio. Il fit dello spettro mostrato in figura 1 con una distribuzione gaussiana fornisce un valore del centroide, corrispondente all’offset, pari a 1024.72 ADU compatibile con il valore 1024 ADU misurato da Christian Buil (http://www.astrosurf.com/buil/eos40d/test.htm). Purtroppo l’offset ha una leggera dipendenza dal tempo di esposizione (e quindi dalla temperatura) riportata in figura 5. Da un fit lineare si evince un coefficiente angolare pari a – 0.0095 ADU/s ed un valore di offset zero pari a 1024.82 ADU. Questo porta ad una variazione dell’offset di 0.57 ADU/min pari al 0.056% del valore zero.

Figura 5: posizione dell'offset in funzione del tempo di esposizione per sensibilità pari a 100 ISO (punti rossi). In blu è stato sovrapposto il fit lineare.




Gli ISO e l’immagine astronomica

Il mondo dell’astrofotografia è molto diverso da quello della fotografia tradizionale. Una delle caratteristiche peculiari è che, nel primo caso, focale e diaframma dell’ottica sono fissati. Quindi l’unica libertà che rimane all’astrofotografo è quella di variare tempo di esposizione e gli ISO della propria fotocamera digitale.
Come abbiamo letto nel post “il significato degli ISO nelle fotocamere digitali” maggiori sono gli ISO e maggiore sarà la sensibilità del sensore nel raccogliere la luce. Questo a scapito di un aumento del rumore. Questo rumore è principalmente di tipo casuale e quindi può essere limitato combinando più scatti del medesimo soggetto come riportato nei post “somma di immagini astronomiche” e “guida all’astrofotografia digitale”. Alla luce di queste argomentazioni nasce una delle questioni più dibattute: meglio riprendere poche pose a bassi ISO oppure molte pose ad alti ISO?
Dal punto di vista teorico utilizzare bassi ISO significa utilizzare bassi valori di amplificazione. Questo oltre a ridurre il rumore elettronico associato al processo di amplificazione migliora le performance dell’amplificatore stesso. Purtroppo però minori ISO significa minore sensibilità e quindi per ottenere un’immagine analoga a quella ottenuta ad alti ISO è necessario aumentare il tempo di esposizione. Aumentare il tempo di esposizione significa purtroppo riscaldare il sensore aumentandone così il rumore.
A basse temperature o in condizione di oggetti molto luminosi l’utilizzo di bassi ISO è vivamente consigliato. Per la Luna si consiglia 100 ISO, mentre per gli oggetti deepsky un valore tra 200 e 400 ISO è l’ideale. Sotto i 200 ISO infatti l’aumento in termini di performance dell’amplificatore è trascurabile e il rumore associato non diminuisce sensibilmente.
Cosa succede quando però la temperatura è elevata e/o l’oggetto ripreso è molto debole? In questo caso dobbiamo comprendere quale componente del rumore (dovuto al riscaldamento od elettronico) è dominante.
Come detto in precedenza, gran parte del rumore, sia esso termico o elettronico, può essere ridotto sommando più immagini riprese nelle medesime condizioni di scatto. A parità di tempo disponibile per la ripresa, ad alti ISO è possibile riprendere un maggior numero di scatti dato il ridotto tempo di esposizione.
Esiste poi una seconda componente di rumore termico che produce un pattern di pixel “stranamente caldi” che può essere solo limitatamente ridotto con la tecnica del dark (si vedano i post “la calibrazione delle immagini astronomiche” e “guida all’astrofotografia digitale”). Questi pixel diventano sempre via via maggiori all’aumentare del tempo di esposizione. Quindi utilizzare poche pose con tempi di esposizione lunghi, necessario per pose a bassi ISO, comporta un aumento globale del rumore.
Una buona performance dell’amplificatore si ottiene stando a metà o meglio un quarto dei massimi ISO messi a disposizione della fotocamera digitale. Per la Canon EOS 40D ad esempio, questo valore è pari a 800 – 1600 ISO. Riassumendo quindi: Ad alte temperature o in condizione di oggetti deboli l’utilizzo di alti ISO è vivamente consigliato.
Infine l’utilizzo di ISO elevati e quindi brevi tempi di esposizione può essere importante nel caso di montature non particolarmente preciso o in condizioni di forti raffiche di vento.
Un confronto sperimentale è stato ottenuto con Canon EOS 40D, riprendendo un’immagine di IC1396 stampata su un libro di astronomia. Con un tempo di ripresa equivalente pari a 34 minuti sono state ottenute queste due immagini somma rispettivamente di 4 immagini da 8 minuti a 200 ISO e 30 immagini da 1 minuto a 1600 ISO. Le prime intervallate da pause da 30 secondi, le seconde da 10. Il test ha mostrato come l’immagine a 1600 ISO sia decisamente meno rumorosa.

Confronto tra la somma rispettivamente di 4 immagini da 8 minuti a 200 ISO e 30 immagini da 1 minuto a 1600 ISO.




Il significato degli ISO nelle fotocamere digitali

Molti concetti come il tempo di esposizione o il diaframma hanno resistito al passaggio dal mondo analogico a quello digitale. Uno però ha dovuto radicalmente cambiare il proprio significato: la velocità della pellicola. Infatti nell’universo analogico le pellicole fotografiche si differenziavano a seconda della loro sensibilità alla radiazione luminosa. Pellicole sensibili venivano dette “veloci” altrimenti si parlava di pellicole “lente”. Questa definizione dipendeva dal fatto che a parità di luce raccolta le pellicole sensibili avevano bisogno di un minore tempo di esposizione e quindi erano per l’appunto più “veloci”. Lo standard ISO 5800:1987 definì due scale per misurare la velocità delle pellicole. Una lineare detta ASA o ISO mentre una seconda logaritmica detta scala DIN (oggi non più in uso).
È possibile trovare oggi un analogo digitale? Purtroppo la sensibilità di un fotoelemento nel raccogliere fotoni (radiazione luminosa) è costante. Quindi, se volessimo utilizzare la definizione analogica di ISO, dovremmo dire che questi non cambiano dato un determinato sensore CCD o CMOS.
Però un nuovo concetto è stato introdotto nel mondo digitale: l’amplificazione. Un segnale generato da un fotoelemento può (deve) venire amplificato ed il numero di ADU finali associato al pixel sarà proporzionale al numero di fotoni realmente incidenti sul fotoelemento. La costante di proporzionalità è appunto il fattore di amplificazione del segnale. Come il volume per una radio, amplificando maggiormente il segnale di un fotoelemento sarà possibile raccogliere le sfumature più deboli e “vedere” quei pochi fotoni che hanno raggiunto il nostro sensore. A parità di tempo di esposizione, aumentando l’amplificazione il sensore diventerà pertanto più sensibile alla radiazione luminosa. Ecco quindi trovato un analogo al concetto di ISO, noto oggi come ISO equivalente o semplicemente ISO.
Per aumentare la sensibilità delle pellicole fotografiche si aumentava fisicamente la grandezza degli agglomerati di nitrato di Argento presenti sulla pellicola (noti come grani) che fornivano pertanto delle immagini meno continue. Si diceva così che pellicole ad alti ISO presentavano una “grana” maggiore.
Con la nascita della fotografia digitale il concetto di grana era destinato a sparire ma un nuovo fenomeno mostrava caratteristiche analoghe: il rumore elettronico. Infatti un amplificatore non è in grado di distinguere un segnale da un rumore (per esempio termico) e quindi amplificando il primo amplifica inevitabilmente il secondo. A differenza della grana che rendeva comunque l’immagine “morbida”, il rumore elettronico è random e genera un disturbo di fondo molto fastidioso dal punto di vista estetico.

Esempio di "grana" digitale (a sinistra) e analogica (a destra)

 Come avrete quindi imparato dalla lettura di questo articolo, ISO e grana hanno oggi definizioni completamente diverse da quelle utilizzate in passato. Il massimo valore di ISO di una DSLR sta aumentando sempre più anche se una piccola nota è ancora necessaria. Infatti a parità di ISO due fotocamere digitali possono comportarsi in modo completamente differente. Infatti il rumore elettronico non dipende solo dal fattore di amplificazione ma anche dalla qualità del fotoelemento, dell’ADC e dell’amplificatore stesso. Ecco quindi come una posa a 400 ISO effettuata con una Canon EOS 40D può avere qualità maggiore di una stessa effettuata con una Canon EOS 500D. Inoltre ricordiamo che amplificatori di buona qualità permettono la regolazione fine del fattore di amplificatore che si traduce in una maggiore disponibilità di valori di ISO.
Essendo il rumore elettronico legato anche al rumore termico del fotoelemento, ovvero al suo surriscaldamento, tempi di esposizione lunghi possono portare ad una diminuzione della qualità dell’immagine. Per una buona ripresa è quindi necessario utilizzare ISO bassi, tempi di esposizione corti e componenti elettronici di ottima qualità. Ovviamente questo non è sempre possibile e sarà l’oggetto ad esempio dell’articolo “gli ISO e l’immagine astronomica”. Test per verificare la qualità dell’elettronica di fotocamere digitali sono riportati nella sezione ASTROtecnica. Se volete testare la vostra DSLR scrivete a davide@astrotrezzi.it .