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Illuminare la notte

Astrofili e Astrofotografi passano la loro vita alla ricerca del buio. Eppure, anche il nictofilo più incallito sa che, per muoversi al buio, è necessario utilizzare una fonte di luce. Il problema non si porrebbe se l’occhio non impiegasse più di 30 minuti per adattarsi all’oscurità.

Questo fenomeno di adattamento inizia con la completa dilatazione della pupilla che passa da un diametro di 2 mm in condizione di luce a 8 mm in condizione di buio. Se il restringimento della pupilla è un processo veloce, quasi istantaneo; la dilatazione è un processo molto lento e può durare alcuni minuti. Bisogna inoltre considerare il fatto che, in assenza di luce, i coni smettono di funzionare ed i bastoncelli iniziano ad attivarsi dando origine a quella che è nota come visione notturna (monocromatica). Questa attivazione è un processo lento, della durata di una ventina di minuti, ed è alimentato dalla sintesi da parte del nostro corpo di una proteina detta rodopsina. Viceversa, bastano invece pochi secondi di luce per rompere tale molecola con conseguente riduzione della sensibilità dei bastoncelli.

Ora, come fare a mantenere una condizione di adattamento all’oscurità garantendo un livello minimo di illuminazione? I biologi si accorsero fin da subito che la neutralizzazione della rodopsina non è stimolata dalla luce rossa, anche se intensa. Quindi, illuminando l’ambiente con una luce rossa a bassa intensità sarà possibile conservare la condizione di adattamento al buio. Questo spiega perché negli osservatori astronomici si illuminano gli ambienti con delle lampade di colore rosso.

Con la nascita dell’astrofotografia l’utilizzo della luce rossa assunse ancora maggiore importanza in quanto questa era l’unica in grado di non impressionare le pellicole fotografiche. Conferma di questo fatto è l’utilizzo dell’illuminazione rossa nelle camere oscure.

Per tutti questi motivi l’utilizzo di torce e/o lampade rosse sono diventate con il passare del tempo le uniche fonti di luce permesse durante campi astronomici, astrofotografici e negli osservatori astronomici. Ma siamo sicuri che questa condizione è ancora valida ai giorni nostri?

Per quel che riguarda gli astrofili visualisti nulla è cambiato e la luce rossa rimane l’unica sorgente di illuminazione che può garantire loro una visione del cielo notturno ottimale. Gli astrofotografi invece hanno subito un balzo tecnologico che li ha portati dall’epoca della pellicola fotografica ai moderni sensori a semiconduttore.

Questi ultimi vengono utilizzati sia nella fotografia tradizionale che in quella astronomica. Se in passato con la stessa pellicola fotografica era possibile eseguire scatti sia fotografici che astrofotografici, oggi i sensori a semiconduttore vengono impiegati in modo differente a seconda del loro campo di applicazione.

Nella fotografia tradizionale realizzata con normali reflex digitali (note anche come DSLR), il sensore a semiconduttore risponde alla luce visibile in modo del tutto analogo a quello che facevano un tempo le pellicole fotografiche. Questo vuol dire che anche le reflex digitali moderne sono poco sensibili alla luce rossa.

In astrofotografia invece i sensori a semiconduttore devono essere molto sensibili alla luce rossa ed del vicino infrarosso. In questo modo è possibile massimizzare il segnale prodotto dalle nebulose ad emissione che brillano principalmente nella riga Hα a 656 nm (colore rosso). Questo può essere ottenuto anche modificando le tradizionali reflex digitali in modo da renderle più sensibili alla luce rossa (si legga l’articolo “La modifica Baader per DSLR”).

La risposta spettrale delle camere astronomiche ovvero la capacità di queste di raccogliere la luce a seconda della lunghezza d’onda della luce incidente, viene successivamente alterata dall’interposizione di filtri interferenziali come i filtri anti-inquinamento luminoso (LPS) o a banda stretta (Hα, Hβ, SII, OIII). L’effetto complessivo di camera e filtri determina la lunghezza d’onda, e quindi il colore, della luce con cui illuminare gli ambienti circostanti.

Purtroppo, tutte le sorgenti di luce artificiale oggi permesse e disponibili sul mercato sono a spettro continuo. In particolare, le più diffuse, se non uniche presenti sul mercato, sono le luci LED. Per produrre una luce di un determinato colore utilizzando la tecnologia LED, è possibile utilizzare almeno quattro diverse tecniche:

  1. Utilizzare un diodo LED con spettro di emissione che, seppur continuo, presenta un picco alla lunghezza d’onda che identifica il colore. In questo caso si parla di LED colorati.
  2. Utilizzare una terna di LED colorati: rosso, verde e blu. In questo caso, ciascun colore sarà generato dalla combinazione di questi tre LED. Lo spettro complessivo sarà ovviamente continuo ed in questo caso si parlerà di LED RGB.
  3. Utilizzare un LED in luce bianca, circondato da un bulbo in vetro o plastica colorata. In questo caso, lo spettro continuo del LED verrà ristretto ad una banda centrata nel colore richiesto. Seppur spesso anche in questo caso si parla di LED colorati in realtà la definizione corretta è lampade LED colorate in quanto il colore non è dato dal diodo LED ma dal colore del bulbo.
  4. Utilizzare un LED in luce bianca a cui è stato sovrapposto un filtro interferenziale capace di far passare solo una determinata lunghezza d’onda. In questo caso lo spettro complessivo di emissione della lampada sarà in buona approssimazione discreto e corrispondente alla lunghezza d’onda voluta. Lampade del genere non esistono sul mercato ma possono essere assemblate artiginalmente unendo un LED bianco ad un filtro interferenziale. In questo caso parleremo di lampade LED filtrate.

Da sinistra a destra: lampada LED colorata, LED RGB, lampada LED filtrata.

Di tutte le soluzioni, ovviamente la lampada LED filtrata è l’unica che realmente ci permette di controllare la lunghezza d’onda della luce ambientale, essendo questa a spettro discreto. In tutti gli altri casi, la nostra sorgente di luce sarà a spettro continuo ed andrà necessariamente a peggiorare la qualità delle nostre riprese astrofotografiche introducendo un gradiente cromatico. Purtroppo però, trovare filtri interferenziali capaci di fare passare una sola lunghezza d’onda indipendentemente dall’angolo di vista è davvero molto difficile e particolarmente costoso.

Lampada LED filtrata con filtro 10 nm Pixelteq a 620 nm a confronto con la risposta spettrale di un filtro anti-inquinamento luminoso IDAS NGS1.

Usare lampade LED colorate è sicuramente la soluzione peggiore in quanto la banda passante è generalmente troppo ampia. Ad esempio, una lampada con bulbo di colore rosso emette luce con lunghezze d’onda comprese tra 620 e 760 nm con lunghe code nel verde e nel vicino infrarosso. Con una banda di emissione così ampia, la possibilità di dare contributi al canale rosso delle nostre riprese astrofotografiche, persino quelle in banda stretta, non è per nulla trascurabile. Ricordiamo inoltre che in questo range troviamo anche la famosa linea Hα delle nebulose ad emissione, fondamentale per le riprese di oggetti del profondo cielo.

Lampada LED colorata a confronto con la risposta spettrale di un filtro anti-inquinamento luminoso IDAS NGS1. L’area colorata rappresenta il possibile disturbo generato dall’illuminazione ambientale.

Anche utilizzare LED RGB può essere dannoso. Infatti, per generare qualsiasi colore che non sia uno dei tre primari additivi è necessario accendere tre LED: rosso, verde e blu. Questo si traduce in un rumore presente in tutti e tre i canali della nostra ripresa astrofotografica, indipendentemente dal filtro utilizzato. Quindi la soluzione LED RGB è preferibile alla lampada LED colorata solo se si utilizza uno dei tre colori primari.

Lampada RGB impostata per generare luce a 620 nm a confronto con la risposta spettrale di un filtro anti-inquinamento luminoso IDAS NGS1. L’area colorata rappresenta il possibile disturbo generato dall’illuminazione ambientale.

Infine, l’utilizzo di LED colorati risulta essere nel suo complesso quella meno dannosa, ad esclusione della lampada LED filtrata decisamente meno economica. Data infatti la risposta spettrale del sistema camera astronomica + filtro interferenziale, è possibile determinare la lunghezza d’onda (o le lunghezze d’onda) a cui il nostro sistema è meno sensibile. Dato questo valore è necessario cercare sul mercato lampade LED con spettro di emissione centrato in quella lunghezza d’onda. Se si utilizza un filtro a banda stratta di tipo Hα, ad esempio, un LED di colore blu sarà sicuramente la scelta ottimale. Se invece utilizziamo un filtro antinquinamento luminoso, un LED di colore prossimo alla riga del sodio o del rosso con lunghezza d’onda maggiore di 700 nm possono essere soluzioni più che valide.

LED colorato (o RGB impostato su un colore primario) a confronto con la risposta spettrale di un filtro anti-inquinamento luminoso IDAS NGS1. L’area colorata, seppur piccola, rappresenta il possibile disturbo generato dall’illuminazione ambientale.

Per ciascuno dei casi illustrati, avere un LED dimmerabile può essere utile al fine di poter variare il livello di luminosità ambientale. Il modo migliore per determinare quanto il nostro sistema sia sensibile al tipo di luce con cui vogliamo illuminare l’ambiente circostante è quello di fotografare un oggetto presente nell’ambiente stesso. La sorgente di luce migliore sarà quella che darà il minore contributo in tutti e tre i canali ripresi. Di seguito sono riportate delle riprese effettuate con camera astronomica CentralDS 600D II Pro e filtro Astronomik Hα da 2 pollici e diversi tipi di illuminazione. Come si vede il LED RGB WiZ A.E27 utilizzato in modalità colore primario (rosso) è quello che ha dato i risultati migliori con un debole disturbo nel canale rosso e totale assenza nei canali verde e blu.

Confronto tra le varie fonti di illuminazione ambientale (canale rosso).

Confronto tra le varie fonti di illuminazione ambientale (canale verde).

Confronto tra le varie fonti di illuminazione ambientale (canale blu).

 




filtri per camere a colori e OWB

I sensori a semiconduttore che costituiscono il cuore delle reflex digitali e dei CCD astronomici sono sensibili non solo alla parte “visibile” dello spettro elettromagnetico ma anche al vicino infrarosso ed ultravioletto (si legga ad esempio l’articolo Efficienza Quantica). Sebbene la radiazione UV venga quasi completamente riflessa (e quindi filtrata) dalle lenti che costituiscono i nostri obiettivi fotografici e telescopi, la radiazione infrarossa attraversa imperturbata il sistema ottico raggiungendo direttamente il sensore. Persino i filtri che costituiscono la matrice di Bayer (RGB) dei più comuni sensori a colore sono piuttosto trasparenti alla radiazione infrarossa.

Ma perché questa radiazione è così dannosa? Il problema è che il piano focale dell’infrarosso è diverso da quello della luce visibile generando così aloni intorno alle nostre immagini. Proprio per ridurre questa “fastidiosa” componente della radiazione nonché altri difetti quali l’effetto Moiré e l’aliasing, gran parte delle aziende produttrici di reflex digitali, tra le quali Canon e Nikon, hanno deciso di montare di fronte al sensore a semiconduttore una serie di filtri IR/UV cut (vedi articolo Filtri IR/UV-cut e luminanza).

In particolare Canon (così come Nikon) monta due filtri IR/UV cut denominati Low Pass Filter (LPF). Il filtro LPF#2, noto anche come hot mirror, è il primo che la luce incontra ed è quello che taglia gran parte della radiazione infrarossa. Il secondo LPF#1 si trova invece proprio di fronte al sensore e, oltre a filtrare la radiazione UV ed infrarossa rimanente, protegge quest’ultimo dalla polvere. Le curve di trasmissione dei filtri LPF per le fotocamere Canon EOS 40D e Nikon D700 sono mostrate in figura 1. Come si vede la risposta di questi filtri è molto simile per le due case produttrici di reflex digitali.

Figura 1: curva di trasmissione per i filtri LPF nel caso delle reflex digitali Canon EOS 40D e Nikon D700

Si può osservare da figura 1 come questi filtri, ed in particolare LPF#2 tagli in maniera sostanziale la radiazione a 656.3 nm (linea Hα), di fondamentale importanza in astrofotografia dato che proprio in quella lunghezza d’onda emettono gran parte delle nebulose.

Proprio per questo motivo, gran parte degli astrofotografi modificano la propria fotocamera digitale rimuovendo o sostituendo il filtro LPF#2 con uno in grado di far passare le lunghezze d’onda intorno ai 656.3 nm e allo stesso tempo bloccare la radiazione infrarossa. Nel primo caso di parla di rimozione del filtro mentre nel secondo caso modifica Baader dal nome di una delle maggiori aziende produttrice di filtri per l’astronomia.

In ogni caso la rimozione completa del filtro LPF#2 non porta ad un forte degradamento dell’immagine dato che il filtro LPF#1 taglia comunque gran parte della radiazione infrarossa.

Se si vuole invece avere il sensore “nudo” ridonandogli la capacità di vedere sia nel vicino UV che infrarosso, allora è necessario rimuovere anche il filtro LPF#1. Questo tipo di modifica si chiama modifica Full Spectrum. Anche in questo caso il filtro LPF#1 può essere rimosso o sostituito con un filtro trasparente al fine di proteggere il sensore dalla polvere.

Figura 2 mostra come la rimozione del filtro LPF#2 o la sostituzione con un filtro Baader siano praticamente equivalenti se il filtro LPF#1 viene mantenuto in sede. La soluzione ideale in termini astrofotografici si ottiene rimovendo il filtro LPF#1 e sostituendo il LPF#2 con un filtro Baader o alternativamente uno di luminanza (vedi articolo Filtri IR/UV-cut e luminanza). Ovviamente in questo caso perderemmo completamente la funzione di auto-focus e pulizia del sensore.

Figura 2: risposta spettrale per vari filtri. In particolare LPF1 corrisponde alla rimozione completa del filtro LPF#2. Si riportano come esempio i filtri IR/UV cut quali il filtro Baader e la luminanza L prodotta dalla ditta Astronomik. In nero è indicato anche la risposta spettrale (indicativa) di un sensore Canon generico privato dei filtri LPF#1 e LPF#2. In verde infine è indicata la linea Hα.

Modificando la risposta spettrale di una reflex digitale, si va ovviamente anche a modificare il bilanciamento del bianco. Nel caso in cui la vostra fotocamera sia stata modificata Baader o avete rimosso il filtro LPF#2, esiste la possibilità di montare il filtro OWB (original white balance) in grado di rigenerare la risposta spettrale originale con annesso bilanciamento del bianco.

Purtroppo in molti casi la modifica delle reflex digitali comporta la perdita dell’auto-focus. Informatevi bene quindi prima di modificare la vostra fotocamera.

Prima di concludere vogliamo far notare come una reflex modificata Baader o con rimozione del filtro (LPF#2) non richiede l’utilizzo di filtri IR/UV cut o luminanza aggiuntivi. Nel primo caso addirittura tali filtri porterebbero ad una riduzione della capacità della fotocamera di raccogliere la luce nel rosso / vicino infrarosso. L’utilizzo di filtri IR/UV cut è invece fondamentale quando si utilizzano webcam astronomiche per riprese planetarie (controllate che non siano già montati dalla ditta madre). Riportiamo a titolo d’esempio la risposta spettrale della camera a colori Imaging Source DBK 21AU618.AS (figura 3). Come si vede i filtri RGB che vanno a costituire la matrice di Bayer del sensore lasciano passare parte della radiazione infrarossa. Questa, come detto in precedenza, va ad inficiare la qualità ottica delle nostre immagini.

Figura 3: risposta spettrale dei vari elementi fotosensibili (RGB) per la camera Imaging Source DBK 21AU618.AS

Misure spettroscopiche relative a reflex Canon EOS originali, modificate Baader, rimozione filtro LPF#2 e Full Spectrum saranno realizzate prossimamente da ASTROtrezzi con reticolo di diffrazione. Chi fosse interessato a partecipare alla campagna di misura/analisi può scrivere a ricerca@astrotrezzi.it . Si ringrazia Marco Gargano per il supporto tecnico (Figura 1 – curve relative alla fotocamera digitale Nikon D700; tutti i diritti sono riservati – vietata la pubblicazione/distribuzione).




Filtri IR/UV cut e luminanza

Alla parola “filtro”, spesso si associa un colore. Questo perché la maggior parte dei filtri seleziona solo determinate lunghezze d’onda riflettendo le altre che quindi andranno ad assegnare uno specifico colore a ciascun filtro. Eppure esistono filtri trasparenti ovvero in grado di far passare tutta la radiazione visibile. Se a passare è però tutta la radiazione visibile, quale utilità hanno allora questi filtri?

Per comprenderlo dobbiamo ricordare che la luce visibile è solo una piccola parte di quella che prende il nome di radiazione elettromagnetica. In particolare un sensore a semiconduttore, come CCD e CMOS sono sensibili a radiazioni di lunghezza d’onda compresa tra circa 350 e 1100 nm. Ricordando che la luce visibile ai nostri occhi ha lunghezza d’onda compresa tra circa 390 e 700 nm, vuol dire che i sensori a semiconduttori osservano ben “oltre il visibile” ed in particolare nelle frequenze del vicino ultravioletto (UV, tra 350 e 390 nm) e del vicino infrarosso (IR, tra 700 e 1100 nm).

Se quindi ora vogliamo che un sensore a semiconduttore “veda” solo la radiazione visibile allora è necessario applicare a questo un filtro in grado di bloccare la radiazione UV e IR. Questo filtro è noto con il nome di luminanza (L), la cui curva di trasmissione la versione prodotta dalla ditta Astronomik è riportata in figura 1. Il filtro di luminanza può essere utilizzato o per aumentare la qualità ottica dell’immagine (nei rifrattori la radiazione IR e UV non viene focalizzata correttamente andando quindi ad inficiare la qualità ottica dello strumento) oppure nella composizione LRGB (per maggiori informazioni si legga l’articolo La tecnica LRGB).

Figura 1: (A) curva di trasmissione le filtro L Astronomik. Si può osservare come questo filtro copra tutto il range spaziato dai filtri RG e B della medesima marca (vedi articolo “Filtri colorati ed RGB”). (B) come appare il filtro L Astronomik da due pollici per telescopi astronomici.

Sul mercato esistono inoltre una notevole varietà di filtri del tutto simili a quelli di luminanza che prendono il nome di filtri IR-cut ovvero taglia infrarosso. In realtà, come per il filtro L, quasi gli IR-cut tagliano in realtà anche la componente ultravioletta della luce rilevabile da un sensore a semi-conduttore (talvolta infatti vengono riportati come filtri IR/UV cut). Esempi di curve di trasmissione per filtri IR-UV cut sono riportati in figura 2.

Figura 2: Curva di trasmissione per filtri IR/UV cut prodotti o venduti dalle aziende Astronomik, Baader Planetarium e Tecnosky. La regione dello spettro colorata in grigio rappresenta la regione del visibile. In nero tratteggiato è riportata la curva di trasmissione per il filtro L Astronomik. Si può osservare come tutti questi filtri coprano completamente lo spettro del visibile con code residue, più o meno lunghe, nel vicinissimo infrarosso e ultravioletto.

Quanto detto in questo articolo vale unicamente per camere CCD astronomiche monocromatiche. Reflex digitali e camere CCD a colori sono provviste ovviamente di un set di microfiltri RGB (matrice di Bayer) oltre che, talvolta, di uno o più filtri UV/IR cut montati di fronte al sensore. In questi casi l’utilizzo del filtro IR-cut o di Luminanza può risultare superfluo se non addirittura controproducente. Per maggiori dettagli si legga l’articolo “Filtri per camere a colori e OWB”.




Filtri colorati ed RGB

I filtri colorati sono utilizzati in astrofotografia sia per evidenziare zone specifiche dell’atmosfera o della superficie dei pianeti sia per ricostruire immagini a colori con camere monocromatiche attraverso la tecnica di composizione RGB (vedi post “Costruire un’immagine a colori). In particolare, nel secondo caso, sono stati sviluppati filtri specifici a banda passante, centrati rispettivamente nelle lunghezze d’onda del rosso (R), verde (G) e blu (B). Tali filtri possono essere montati di fronte ai sensori monocromatici delle camere CCD astronomiche oppure andare a formare, a gruppi di quattro, l’elemento fondamentale della matrice di Bayer di camere CCD a colori o reflex digitali. Esempio di curve di trasmissione per filtri R,G e B prodotti della ditta Astronomik sono riportati in figura 1.

Figura 1: (A) curva di trasmissione dei filtri RGB Astronomik. Si può osservare come l’unione dei tre filtri copra completamente lo spettro della luce visibile. (B) come appaiono i filtri RGB Astronomik da due pollici per telescopi astronomici.

Esistono poi numerosi filtri colorati per le osservazioni planetarie, generalmente identificati dal numero di Wratten (W). Quest’ultimo, derivando dalla fotografia tradizionale, non ha un riscontro scientifico vero e proprio assumendo per lo più un significato puramente estetico (colori caldi, colori freddi,…). Tra i principali filtri colorati utilizzati in astronomia ricordiamo: i filtri di colore rosso (W23A-W25) utili per l’osservazione diurna di Mercurio e Venere oltre ad enfatizzare dettagli superficiali di Marte o le bande di Giove.

Per la superficie di Saturno, nonché per ridurre il seeing nelle osservazioni lunari, consigliamo invece l’utilizzo del filtro arancio (W21) o dei filtri di colore giallo (W8-W12). Questi ultimi possono anche essere utilizzati per evidenziare i particolari delle atmosfere di Giove, Urano e Nettuno oltre alle tempeste su Marte. Sempre grazie a questi filtri è possibile migliorare l’osservazione della granulosità solare (in questo caso è necessario utilizzare contemporaneamente un filtro solare dedicato). Per la grande macchia rossa, i poli marziani e le nubi di Venere si consiglia invece un filtro verde (W56-W58). Particolari della superficie di Mercurio oltre a dettagli atmosferici di Venere, Marte, Giove e Saturno possono essere osservati invece grazie all’ausilio di filtri blu (W38A-W80A).  Analoghi a questi sono i filtri viola (in particolare il W47) che però permettono anche un aumento della qualità dell’osservazione degli anelli di Saturno.

Tutti i filtri colorati qui descritti possono essere utilizzati sia per l’osservazione visuale che per l’astrofotografia. Nel secondo caso, se ne consiglia l’utilizzo per riprese in bianco e nero dato che quelle a colori presenterebbero una forte dominante data dal filtro. A titolo d’esempio riportiamo in figura 2 le curve di trasmissione dei filtri colorati W15 (giallo), W25 (rosso), W58 (verde) e W80A (blu) venduti ad esempio in kit dalla ditta Orion.

Figura 2: (A) curva di trasmissione dei filtri colorati W15,W25,W58 e W80A. Per confronto, in tratteggiato, riportiamo la curva di trasmissione per i filtri RGB Astronomik. (B) come appare un filtro colorato W80A Meade da 1.25 pollici per telescopi astronomici.

I filtri colorati possono essere utilizzati anche per effettuare composizioni RGB anche se si consiglia vivamente l’utilizzo di filtri dedicati. Le curve di trasmissione di tutti i filtri colorati che obbediscono allo standard Wratten sono riportati nel documento “Transmission of Wratten filters” redatto da Allie C. Peed Jr. della Eastman Kodak Company. Alcune ditte come la Baader produce filtri colorati con standard differenti. In tal caso si rimanda al sito del produttore.

 




I filtri astronomici

L’utilizzo dei filtri in astrofotografia è fondamentale, specialmente se si utilizzano CCD astronomiche e/o si riprende da zone soggette ad elevato inquinamento luminoso. Lo scopo dei filtri ottici è quello di selezionare regioni più o meno ristrette dello spettro elettromagnetico di un determinato tipo di polarizzazione oppure semplicemente diminuire l’intensità della sorgente luminosa. Nel primo caso si possono utilizzare materiali in grado di assorbire (filtri ad assorbimento) o riflettere (filtri a riflessione tra cui i filtri interferenziali o dicroici) determinate lunghezze d’onda. Nel secondo caso invece vengono sfruttate le proprietà di determinati materiali in grado di selezionare una determinata polarizzazione della luce (polarizzatori) ed infine nel terzo caso si utilizzano materiali in grado di riflettere parzialmente tutte le lunghezze d’onda del visibile (filtri neutri). I filtri ad assorbimento e riflessione sono caratterizzati da una quantità detta curva di trasmissione che rappresenta la capacità del filtro di far passare una determinata lunghezza d’onda della radiazione luminosa. Queste curve possono o non possono essere normalizzate ad uno (o 100%). I filtri neutri invece sono identificati dalla capacità o meno del filtro di far passare la luce visibile noto come coefficiente di trasmissione. Coefficiente di trasmissione e curva di trasmissione sono concetti differenti anche se ovviamente legati tra loro. Il primo dice quanta luce passa dal filtro, la seconda invece indica quale è la probabilità per tale luce di possedere una determinata lunghezza d’onda una volta passata attraverso filtro. Il valore assoluto del logaritmo in base dieci del coefficiente di trasmissione è detta densità ottica, grandezza fondamentale per la scelta dei filtri neutri. I polarizzatori invece hanno densità ottica variabile a seconda dell’angolo tra la polarizzazione della luce incidente e quella del polarizzatore, detta legge di Malus.

In questo post e nei seguenti analizzeremo in dettaglio quasi tutti i filtri utilizzati in astrofotografia, ed in particolare:

Purtroppo non verranno presi in esame i filtri Hα per osservazioni solari a  cui sarà dedicata una sezione apposita.