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M67 (NGC 2682) – 07/04/2015

Telescopio o obiettivo di acquisizione (Imaging telescope or lens): Newton SkyWatcher BlackDiamond 150 mm f/5

Camera di acquisizione (Imaging camera): CCD Atik 383L+ B/W [5.4 μm] @ -7.0°C

Montatura (Mount): SkyWatcher NEQ6

Telescopio o obiettivo di guida (Guiding telescope or lens): Rifrattore acromatico SkyWatcher 102mm f/5

Camera di guida (Guiding camera): Magzero MZ-5m B/W [5.2 μm]

Riduttore di focale (Focal reducer): non presenti (not present)

Software (Software): PixInsight 1.8 + Adobe Photoshop CS6

Accessori (Accessories): correttore di coma Baader MPCC MkIII (Baader MPCC coma corrector)

Filtri (Filter): 2” Astronomik CCD R,G,B

Risoluzione (Resolution): 3362 x 2504 (originale/original), 3338 x 2507(finale/final)

Data (Date): 07/04/2015

Luogo (Location): Briosco – MB, Italia (Italy)

Pose (Frames): 10 x 100 sec bin 1×1 R, 10 x 100 sec bin 1 x 1 G, 10 x 100 sec bin 1 x 1 B

Calibrazione (Calibration): 10 x 100 sec bin 1×1 dark, 15 bias, 14 flat R, 16 flat G e 14 flat B

Fase lunare media (Average Moon phase): 89.1%

Campionamento (Pixel scale):  2.9510652 arcsec/pixel

Focale equivalente (Equivalent focal lenght): 750 mm

Note (note): Composizione RGB (RGB composition)

M67 (NGC 2682) - 07/04/2015




Luna – 01/04/2015

Telescopio o obiettivo di acquisizione (Imaging telescope or lens): Rifrattore ED (ED reftactor) Tecnosky Carbon Fiber 80mm f/7

Camera di acquisizione (Imaging camera): Imaging Source DBK31.AU03 colori / color [4.65 μm]

Montatura (Mount): SkyWatcher NEQ6

Telescopio o obiettivo di guida (Guiding telescope or lens): non presente (not present)

Camera di guida (Guiding camera): non presente (not present)

Riduttore di focale (Focal reducer): non presente (not present)

Software (Software): Registax5/6 + PixInsight

Accessori (Accessories): non presente  (not present)

Filtri (Filter): Astronomik IR-cut

Risoluzione (Resolution): 1024 x 768

Data (Date): 01/04/2015

Luogo (Location): Briosco – MB, Italia (Italy)

Pose (Frames): mosaico di tre immagini, ciascuna somma di 1000 frames

Calibrazione (Calibration): non presente (not present)

Fase lunare media (Average Moon phase): 94.0%

Campionamento (Pixel scale): 1.7127 arcsec/pixel

Focale equivalente (Equivalent focal lenght): 560 mm

Luna - 01/04/2015




Il guadagno di una camera digitale

Negli ultimi anni, le maggiori ditte produttrici di fotocamere digitali (DSLR) stanno combattendo forsennatamente per aggiudicarsi il sensore con maggiore numero di pixel ed elettronica in grado di fornire il maggiore numero di ISO. Proprio per questo motivo abbiamo deciso di affrontare per l’ennesima volta l’argomento ISO, ovvero “il guadagno di una camera digitale”. Altri articoli presenti su questo sito sono il significato degli ISO nelle fotocamere digitalie gli ISO e l’immagine astronomica. ASTROtrezzi ha approfondito in dettaglio il processo che porta, partendo dai “fotoni” (luce) proveniente da oggetti celesti lontani nello spazio e nel tempo, ad avere una bellissima immagine astronomica sul monitor di casa nostra. Il guadagno di una camera digitale (e quindi vedremo gli ISO) si trova tra la generazione del segnale da parte del sensore CCD o CMOS (vedi l’articolo La generazione del segnale) ed il conseguente processo di digitalizzazione dello stesso (vedi l’articolo ADC: dal mondo analogico a quello digitale). Riassumiamo quindi brevemente cosa succede: il nostro raggio di luce (fotone) prodotto in una lontana galassia, viaggia per milioni di anni fino a raggiungere la nostra ottica (obiettivo e telescopio) che lo devia facendolo incidere su un pixel del nostro sensore. Qui, con una certa probabilità dettata dall’efficienza quantica (vedi l’articolo Efficienza quantica) viene convertito in elettroni. Dato un certo tempo di esposizione, la quantità di carica raccolta dal pixel viene amplificata e quindi digitalizzata da un componente elettronico noto come ADC (Analog to Digital Converter). Questo processo di amplificazione permette di ottimizzare la dinamica del sistema ovvero far si che la fotocamera possa raccogliere il maggior numero di sfumature di grigio (ricordiamoci che il sensore è in bianco e nero, vedi per esempio l’articolo costruire un’immagine a colori).

Supponiamo come esempio di lasciare esposto il nostro sensore per un certo tempo (tempo di esposizione) alla pioggia di fotoni cosmici. Una volta passato questo intervallo di tempo andiamo, come dei contadini, a raccogliere il numero di elettroni accumulati in ciascun pixel. Supponiamo che questi variano da 0 (cielo nero) a N (nucleo della galassia), rimanendo sempre al di sotto della massima Full Well Capacity ossia il massimo numero di elettroni immagazzinabili in un singolo pixel. A questo punto il nostro segnale dovrà essere digitalizzato a 14bit (ovvero convertito in 16384 differenti toni di grigio, misurati in ADU dove 0 ADU è il nero e 16383 ADU è il bianco). Prima della digitalizzazione però il segnale viene moltiplicato/diviso per un certo coefficiente detto guadagno della camera (G) e misurato in elettroni (e-) per ADU (alcuni definiscono guadagno il rapporto inverso ovvero ADU per e-). Quindi il numero di ADU in uscita dalla nostra camera andrà da 0 (per 0 elettroni prodotti nel sensore) a N/G. Ovviamente G < 1 significa che il segnale viene amplificato mentre G > 1 ridotto. Esiste una correlazione tra guadagno e ISO che però dipende dalla fotocamera digitale considerata (il guadagno è scelto in modo di ottimizzare la dinamica del sensore). Nel caso della Canon EOS 40D, il guadagno varia da 3.40 e-/ADU a 100 ISO a 0.21 e-/ADU a 1600 ISO.

Supponiamo quindi di aver raccolto con la nostra esposizione un numero di elettroni pari a 20000, allora questi corrisponderebbero a 5882 ADU a 100 ISO e 95238 ADU a 1600 ISO. Come si vede nel primo caso stiamo utilizzando il 36% della dinamica, mentre nel secondo caso, tutti i pixel che hanno collezionato più di 3440 elettroni appariranno come bianchi (16383 ADU) in quanto mandano in saturazione l’ADC. Ecco quindi che nel secondo caso l’immagine risulterà bruciata ovvero perdiamo informazioni sulle sfumature dei bianchi.

Abbiamo qui imparato una cosa molto importante: il guadagno non aumenta la sensibilità del sensore. Quest’ultimo infatti agisce solo al termine della raccolta della luce e pertanto non influenza la capacità o meno del sensore di immagazzinare i fotoni. Quindi il numero di fotoni raccolti da una CCD astronomica o DSRL è indipendente dal numero di ISO utilizzati ma è legato unicamente al tempo di esposizione e alle caratteristiche dell’ottica (rapporto focale). Chiamare (come si fa abitualmente) gli ISO sensibilità è quanto di più fuorviante si possa pensare. Ma allora come agiscono gli ISO sulle nostre immagini astronomiche?

Prima di tutto dobbiamo chiederci quale è il tempo di esposizione che abbiamo a nostra disposizione. Ricordiamo ancora una volta come quest’ultimo sia il parametro fondamentale della nostra ripresa astronomica. Supponiamo di avere un tempo t massimo dettato da vari fattori (tempo a disposizione, rischio meteo o inquinamento luminoso, qualità di inseguimento della montatura, numero di scatti che vogliamo mediare …). Andiamo quindi a misurare quanti elettroni riusciamo a collezionare in questo tempo utilizzando la nostra ottica (obiettivo fotografico o telescopio ad un certo rapporto focale fissato). Per fare ciò impostiamo gli ISO al minimo. Se già con gli ISO al minimo la nostra foto risulta già in saturazione (perdiamo informazione sui bianchi) allora sarà necessario abbassare il tempo di esposizione, altrimenti dovremo modificare gli ISO in modo che la nostra dinamica venga completamente coperta dai 16 bit dell’ADC. In figura 1 vediamo l’effetto di un’immagine che non sfrutta la dinamica, che la sfrutta appieno o va in saturazione.

Figura 1: (A) immagine che non sfrutta appieno la dinamica, (B) immagine corretta, (C) immagine in saturazione

 

Analizzando questa figura notiamo un problema tanto importante in astronomia quanto in fotografia tradizionale. Nella nostra immagine abbiamo sia parti deboli (nebulosità) caratterizzate da un numero esiguo di elettroni accumulati nel pixel che regioni luminose come le stelle, al limite della saturazione già a bassi valori di ISO. Come fare ad ottenere quindi immagini corrette dove le stelle luminose non vanno in saturazione e le deboli nebulosità possano emergere?

La risposta è ovviamente semplice dal punto di vista teorico quanto complessa da quello sperimentale: aumentare il numero di ADU ossia il numero di bit dell’ADC. Questa è la soluzione che in astronomia è stata affrontata con le camere CCD dedicate che lavorano infatti con ADC a 16 bit e non a 14 bit come le DSLR tradizionali. Il futuro delle reflex sarà quello di avere dinamiche sempre superiori in modo che ad un certo valore di ISO sarà possibile ottenere sfumature di neri e bianchi che poi verranno sfruttare in post-produzione al fine di ottenere immagini corrette.

In assenza di alti bit, l’unica possibilità è fare una doppia esposizione ovvero una a bassi ISO per le stelle ed una ad alti ISO per la debole nebulosità.Questa ultima frase potrebbe trarre alle sbagliate conclusione che aumentando gli ISO vediamo gli oggetti più deboli e quindi aumentiamo la sensibilità della camera. Come detto in precedenza questo non è vero. Alzare gli ISO vuol dire semplicemente “spalmare” il segnale sulla dinamica fornita dall’ADC. In questo processo non solo andremo ad aumentare il segnale (presente ed indipendente dagli ISO) ma anche il rumore.

Quindi riassumendo le migliori condizioni di lavoro sarebbero tempi lunghi e bassi ISO o in mancanza di tempo ISO adatti ad ottimizzare la dinamica del soggetto della ripresa (nebulose, galassie o ammassi). Il tutto diventerebbe ottimale se agli scatti deepsky si aggiungesse uno scatto “veloce” ottimizzato sulle stelle di campo in modo da salvarne i colori.

Questo ovviamente in un mondo idilliaco. Infatti se alti ISO significa alto rumore elettronico, lunghi tempi di esposizione significa alto rumore termico. Il secondo può essere eliminato grazie all’utilizzo del master dark frame, mentre il primo sommando più scatti. Ecco quindi l’amletico dilemma: meglio tanti scatti ad alti ISO o pochi scatti a bassi ISO? Se si considera un intervallo di tempo determinato (la notte astronomica), allora tenuto conto del tempo necessario per effettuare i dark frame, è meglio effettuare molti scatti a elevati valori di ISO, come dimostrato nell’articolo gli ISO e l’immagine astronomica. Questo ovviamente a patto che il rumore introdotto nell’amplificazione del segnale (ISO) sia casuale. Questo è vero generalmente per reflex semi-professionali o professionali. Per le reflex non professionali consigliamo un range di ISO compresi tra 400 e 800 ISO. Infine, nel caso di fotocamere raffreddate (CentralDS o CCD astronomiche), immagini a lunga posa risultano prive di rumore termico e pertanto si consigliano tempi di esposizione lunghi e valori di ISO bassi. Riportiamo a titolo di esempio in figura 2 il risultato del test riportato nell’articolo gli ISO e l’immagine astronomica.

Figura 2: Confronto tra la somma rispettivamente di 4 immagini da 8 minuti a 200 ISO e 30 immagini da 1 minuto a 1600 ISO.

Facciamo inoltre notare come, in assenza di scatti multipli (e quindi riduzione del rumore elettronico presente negli scatti ad alti ISO), l’utilizzo di tempi di esposizione lunghi e bassi valori di ISO è consigliata. Questa è la condizioni standard della fotografia tradizionale.

Concludendo quindi: il segnale astronomico (numero di fotoni che incidono sul pixel) non dipende dal numero di ISO utilizzati ma è funzione del tempo di esposizione. Maggiore sarà il tempo di esposizione e maggiore saranno le informazioni che andremo a raccogliere. A questo punto aspetta all’astrofotografo cercare di non perdere queste preziose informazioni scegliendo il valore di ISO più adatti. Questi dipenderanno dalla luminosità dell’oggetto, dal tempo a disposizione per effettuare la/le posa/e, dalla possibilità di effettuare multipli scatti, dal rumore dell’ADC (casuale o no?), da rumore termico dalla dinamica dell’ADC (14 o 16 bit). Figura 2 mostra come, seppur l’immagine a sinistra sia stata ottenuta esponendo per 8 minuti, questa sia stata distrutta dall’eccessivo rumore termico. Infatti raccogliendo meno informazioni (1 minuti) ma ottimizzando il valore degli ISO (elevati a patto di avere multipli scatti) si è riusciti a spremere al massimo l’informazione ottenendo un risultato analogo in termini di informazioni e superiore in termini di rumore.




IC 443 – 22/12/2014

Telescopio o obiettivo di acquisizione (Imaging telescope or lens): Newton SkyWatcher BlackDiamond 150 mm f/5

Camera di acquisizione (Imaging camera): Canon EOS 40D (filtro LPF2 rimosso / LPF2 filter removed) [5.7 μm]

Montatura (Mount): SkyWatcher NEQ6

Telescopio o obiettivo di guida (Guiding telescope or lens): Rifrattore acromatico SkyWatcher 102mm f/5

Camera di guida (Guiding camera): Magzero MZ-5m B/W [5.2 μm]

Riduttore di focale (Focal reducer): non presente (not present)

Software (Software): PixInsight + Adobe Photoshop CS6

Accessori (Accessories): correttore di coma Baader MPCC (coma corrector)

Filtri (Filter):  2” UHC-E

Risoluzione (Resolution): 3888 x 2592 (originale/original), 3864 x 2545 (finale/final)

Data (Date): 22/12/2014

Luogo (Location): Sormano – CO, Italia (Italy)

Pose (Frames): 10 x 660 sec at/a 1000 ISO.

Calibrazione (Calibration): 4 dark, 53 bias, 55 flat

Fase lunare media (Average Moon phase): 1.2%

Campionamento (Pixel scale): 1.2797 arcsec/pixel

Focale equivalente (Equivalent focal lenght): 750 mm

Note (note):

IC 443 - 22/12/2014




M74 (NGC 628) – 21/12/2014

Telescopio o obiettivo di acquisizione (Imaging telescope or lens): Ritchey-Chrétien GSO 203 mm f/8

Camera di acquisizione (Imaging camera): Canon EOS 40D (filtro LPF2 rimosso / LPF2 filter removed) [5.7 μm]

Montatura (Mount): SkyWatcher NEQ6

Telescopio o obiettivo di guida (Guiding telescope or lens): Rifrattore acromatico SkyWatcher 102mm f/5

Camera di guida (Guiding camera): Magzero MZ-5m B/W [5.2 μm]

Riduttore di focale (Focal reducer): non presente (not present)

Software (Software): PixInsight + Adobe Photoshop CS6

Accessori (Accessories): non presente (not present)

Filtri (Filter):  2” IDAS LPS-D1

Risoluzione (Resolution): 3888 x 2592 (originale/original), 3872 x 2531 (finale/final)

Data (Date): 21/12/2014

Luogo (Location): Sormano – CO, Italia (Italy)

Pose (Frames): 8 x 480 sec at/a 1600 ISO.

Calibrazione (Calibration): 6 x 480 sec dark, 71 bias, 60 flat

Fase lunare media (Average Moon phase): 0.2%

Campionamento (Pixel scale): 0.7372  arcsec/pixel

Focale equivalente (Equivalent focal lenght): 1595 mm

M74 (NGC 628) - 21/12/2014




IC2118 – 20/12/2014

Telescopio o obiettivo di acquisizione (Imaging telescope or lens): Rifrattore Tripletto APO FPL53 (APO reftactor triplet FPL53) Tecnosky 80mm f/6

Camera di acquisizione (Imaging camera): Canon EOS 40D (filtro LPF2 rimosso / LPF2 filter removed) [5.7 μm]

Montatura (Mount): SkyWatcher NEQ6

Telescopio o obiettivo di guida (Guiding telescope or lens): Rifrattore acromatico SkyWatcher 102mm f/5

Camera di guida (Guiding camera): Magzero MZ-5m B/W [5.2 μm]

Riduttore di focale (Focal reducer): riduttore/spianatore 0.8x a quattro elementi (four elements 0.8x reducer/field flattener)

Software (Software): PixInsight + Adobe Photoshop CS6

Accessori (Accessories): non presente (not present)

Filtri (Filter):  2” IDAS LPS-D1

Risoluzione (Resolution): 3888 x 2592 (originale/original), 3802 x 2523 (finale/final)

Data (Date): 20/12/2014

Luogo (Location): Sormano – CO, Italia (Italy)

Pose (Frames): 18 x 600 sec at/a 640 ISO.

Calibrazione (Calibration): 6 x 600 sec dark, 63 bias, 58 flat

Fase lunare media (Average Moon phase): 1.7%

Campionamento (Pixel scale): 3.0609 arcsec/pixel

Focale equivalente (Equivalent focal lenght): 384 mm

IC2118 - 20/12/2014




Elaborare gli Ammassi Globulari

Riprendere gli ammassi globulari può sembrare facile. Seppur di dimensioni angolari piuttosto ridotte (si consigliano almeno 1000 mm di focale) questi oggetti risultano infatti quasi sempre luminosi permettendo così l’utilizzo di bassi ISO. Anche dalla città, con l’ausilio di filtri anti-inquinamento luminoso e camere CCD è possibile ottenere ottimi risultati. Eppure, come sempre, la vita non è tutta rose e fiori. Specialmente il neofita otterrà immagini apparentemente belle finché non confrontate con quelle riprese dagli osservatori astronomici o da astrofotografi professionisti.

Il “trucco”, se così si può chiamare, esiste e consiste in piccoli accorgimenti da applicare sia durante la ripresa che durante la post produzione. Vediamo quindi come fare operativamente sul campo, prendendo come esempio l’ammasso globulare M3 ripreso al fuoco diretto di un telescopio RC8.

COME RIPRENDERE UN AMMASSO GLOBULARE

A differenza di molti altri oggetti celesti dove il tempo di esposizione va scelto in funzione del rapporto segnale/rumore presente al momento dello scatto, nel caso degli ammassi globulari è il livello di saturazione del vostro sensore a giocare un ruolo fondamentale. Infatti è inutile riprendere le stelle più deboli di un ammasso globulare se il suo nucleo risulterà bruciato. A patto di non utilizzare una doppia esposizione, vediamo come ottenere operativamente una corretta esposizione.

Iniziamo quindi con l’affrontare il problema ovvero evitare di bruciare il nucleo dell’ammasso. In particolare ricordiamo che le stelle del nucleo sono bruciate perché il numero di fotoni che hanno raggiunto i pixel di quella regione sono “troppi” ed hanno mandato in saturazione il sensore. La saturazione può essere così eccessiva che alcuni “fotoelettroni” possono passare ai pixel vicini con conseguente perdita di dettaglio. Pertanto, esponendo per le deboli stelle periferiche si otterrà un nucleo omogeneamente bianco dove le stelle non sono praticamente distinguibili.

Per fare ciò dobbiamo ridurre al minimo il numero di stelle saturate. Come fare ad individuarle dato che tutte le stelle in foto risultano praticamente bianche? Dato che l’occhio non si comporta più come un buon metro di misura, utilizziamo strumenti più efficaci e scientifici: l’istogramma o ancor meglio la funzione Threshold di IRIS. Aprite quindi l’immagine appena scattata con IRIS come mostrato in Figura 1, risulterà più o meno scura a seconda della posizione dei cursori presenti nel tool Threshold.

Figura1: l'immagine di M3 così come aperta in IRIS e regolata premendo sul tasto Auto del tool Threshold.

A questo punto zoomate sul nucleo e muovete il primo dei due cursori del tool Threshold verso destra finché le stelle al centro risulteranno distinte e non sature (vedi Figura 2). Spostatevi quindi sulle stelle più luminose e leggete i valori di RGB che appaiono in basso a destra di IRIS. Nel caso in esame avremo valori massimi intorno ai 15400 ADU inferiori seppur di poco ai 16384 ADU massimi dati dalla dinamica della nostra fotocamera (14 bit, Canon EOS 500D).

Figura 2: il nucleo di M3 risolto in stelle.

Nel caso in cui il livello di luminosità delle stelle più luminose sia proprio 16384, allora state sovraesponendo e quindi dovrete diminuire il tempo di esposizione o gli ISO. Se sul computer che utilizzate per l’acquisizione delle immagini notturne non avete IRIS, allora provate con un qualsiasi programma di elaborazione delle immagini tirando l’istogramma verso destra. Se alcune stelle risulteranno sovraesposte allora vuol dire che il tempo di esposizione o gli ISO che state utilizzando sono troppo elevati. Se avrete seguito questo semplice consiglio allora al termine della nottata avrete dei light frame (delle immagini) esposte correttamente e pronte per l’elaborazione. Immagini di ammassi globulari sovraesposti non sono più recuperabili in post produzione.

COME ELABORARE UN AMMASSO GLOBULARE

Oltre all’acquisizione delle immagini astronomiche, anche l’elaborazione gioca un ruolo importante al fine di ottenere un’ottima astrofoto. Per gli ammassi globulari procedete come al solito calibrando i light frame con bias, dark e flat ed infine mediate i light frame calibrati. Questo potrete farlo con IRIS o con qualsiasi altro programma dedicato. Fatto questo potete operare in due modi differenti:

DYNAMIC STRETCHING

Con IRIS potete ottenere una bella immagine del vostro ammasso globulare correttamente esposto andando sul menù view → Dynamic stretching. Si aprirà una finestra. Cliccate su auto nel tool Threshold e successivamente spostate i due cursori, uno dopo l’altro, del tool Dynamic stretching finché non avrete stelle periferiche e del nucleo correttamente esposti (vedi Figura 3).

Figura3: l'ammasso globulare M3 ben bilanciato grazie al dynamic stratching.

LE CURVE DI PHOTOSHOP CS

Elaboriamo in IRIS o in qualsiasi programma dedicato l’ammasso globulare in modo che il nucleo sia correttamente esposto (stelle non saturate). Infatti anche se l’immagine è stata ripresa correttamente, con le curve o il tool Threshold è possibile “bruciare” l’immagine in fase di elaborazione! Apriamo quindi l’immagine ottenuta con Photoshop CS. Premete quindi la combinazione di tasti CTRL+M e si aprirà il tool “curve”. A questo punto, di solito, aumentate la luminosità delle stelle più deboli spostando la curva in alto. In questo modo otterrete un’immagine dell’ammasso globulare con il nucleo completamente “bruciato”, come mostrato in Figura 4.

Figura4: Come solitamente si tirano le curve per oggetti deepsky.

Qui proponiamo invece di andare per piccoli passi come riportato in Figura 5 dove la curva viene alzata solo leggermente. Il processo può (deve) essere ripetuto per un numero elevato di volte a volte persino alcune decine. In questo modo si eviterà di bruciare la parte centrale dell’ammasso aumentando la luminosità delle stelle periferiche.

Figura5: i micropassi da seguire per evitare di bruciare il nucleo dell'ammasso globulare.

L’utilizzo delle curve dipende molto dall’immagine di partenza. Se il risultato non vi convince provate a modificare quest’ultima finché non otterrete il meglio dalla vostra foto.

In questo articolo abbiamo descritto i passi da percorrere per ottenere buone immagini di ammassi globulari. Per maggiori informazioni o ulteriori metodi di ripresa/elaborazione di tali ammassi contattateci all’indirizzo davide@astrotrezzi.it . Di seguito un’immagine che mostra la differenza tra una buona foto di M3 ed una sovraesposta (in ripresa o elaborazione).




filtri per camere a colori e OWB

I sensori a semiconduttore che costituiscono il cuore delle reflex digitali e dei CCD astronomici sono sensibili non solo alla parte “visibile” dello spettro elettromagnetico ma anche al vicino infrarosso ed ultravioletto (si legga ad esempio l’articolo Efficienza Quantica). Sebbene la radiazione UV venga quasi completamente riflessa (e quindi filtrata) dalle lenti che costituiscono i nostri obiettivi fotografici e telescopi, la radiazione infrarossa attraversa imperturbata il sistema ottico raggiungendo direttamente il sensore. Persino i filtri che costituiscono la matrice di Bayer (RGB) dei più comuni sensori a colore sono piuttosto trasparenti alla radiazione infrarossa.

Ma perché questa radiazione è così dannosa? Il problema è che il piano focale dell’infrarosso è diverso da quello della luce visibile generando così aloni intorno alle nostre immagini. Proprio per ridurre questa “fastidiosa” componente della radiazione nonché altri difetti quali l’effetto Moiré e l’aliasing, gran parte delle aziende produttrici di reflex digitali, tra le quali Canon e Nikon, hanno deciso di montare di fronte al sensore a semiconduttore una serie di filtri IR/UV cut (vedi articolo Filtri IR/UV-cut e luminanza).

In particolare Canon (così come Nikon) monta due filtri IR/UV cut denominati Low Pass Filter (LPF). Il filtro LPF#2, noto anche come hot mirror, è il primo che la luce incontra ed è quello che taglia gran parte della radiazione infrarossa. Il secondo LPF#1 si trova invece proprio di fronte al sensore e, oltre a filtrare la radiazione UV ed infrarossa rimanente, protegge quest’ultimo dalla polvere. Le curve di trasmissione dei filtri LPF per le fotocamere Canon EOS 40D e Nikon D700 sono mostrate in figura 1. Come si vede la risposta di questi filtri è molto simile per le due case produttrici di reflex digitali.

Figura 1: curva di trasmissione per i filtri LPF nel caso delle reflex digitali Canon EOS 40D e Nikon D700

Si può osservare da figura 1 come questi filtri, ed in particolare LPF#2 tagli in maniera sostanziale la radiazione a 656.3 nm (linea Hα), di fondamentale importanza in astrofotografia dato che proprio in quella lunghezza d’onda emettono gran parte delle nebulose.

Proprio per questo motivo, gran parte degli astrofotografi modificano la propria fotocamera digitale rimuovendo o sostituendo il filtro LPF#2 con uno in grado di far passare le lunghezze d’onda intorno ai 656.3 nm e allo stesso tempo bloccare la radiazione infrarossa. Nel primo caso di parla di rimozione del filtro mentre nel secondo caso modifica Baader dal nome di una delle maggiori aziende produttrice di filtri per l’astronomia.

In ogni caso la rimozione completa del filtro LPF#2 non porta ad un forte degradamento dell’immagine dato che il filtro LPF#1 taglia comunque gran parte della radiazione infrarossa.

Se si vuole invece avere il sensore “nudo” ridonandogli la capacità di vedere sia nel vicino UV che infrarosso, allora è necessario rimuovere anche il filtro LPF#1. Questo tipo di modifica si chiama modifica Full Spectrum. Anche in questo caso il filtro LPF#1 può essere rimosso o sostituito con un filtro trasparente al fine di proteggere il sensore dalla polvere.

Figura 2 mostra come la rimozione del filtro LPF#2 o la sostituzione con un filtro Baader siano praticamente equivalenti se il filtro LPF#1 viene mantenuto in sede. La soluzione ideale in termini astrofotografici si ottiene rimovendo il filtro LPF#1 e sostituendo il LPF#2 con un filtro Baader o alternativamente uno di luminanza (vedi articolo Filtri IR/UV-cut e luminanza). Ovviamente in questo caso perderemmo completamente la funzione di auto-focus e pulizia del sensore.

Figura 2: risposta spettrale per vari filtri. In particolare LPF1 corrisponde alla rimozione completa del filtro LPF#2. Si riportano come esempio i filtri IR/UV cut quali il filtro Baader e la luminanza L prodotta dalla ditta Astronomik. In nero è indicato anche la risposta spettrale (indicativa) di un sensore Canon generico privato dei filtri LPF#1 e LPF#2. In verde infine è indicata la linea Hα.

Modificando la risposta spettrale di una reflex digitale, si va ovviamente anche a modificare il bilanciamento del bianco. Nel caso in cui la vostra fotocamera sia stata modificata Baader o avete rimosso il filtro LPF#2, esiste la possibilità di montare il filtro OWB (original white balance) in grado di rigenerare la risposta spettrale originale con annesso bilanciamento del bianco.

Purtroppo in molti casi la modifica delle reflex digitali comporta la perdita dell’auto-focus. Informatevi bene quindi prima di modificare la vostra fotocamera.

Prima di concludere vogliamo far notare come una reflex modificata Baader o con rimozione del filtro (LPF#2) non richiede l’utilizzo di filtri IR/UV cut o luminanza aggiuntivi. Nel primo caso addirittura tali filtri porterebbero ad una riduzione della capacità della fotocamera di raccogliere la luce nel rosso / vicino infrarosso. L’utilizzo di filtri IR/UV cut è invece fondamentale quando si utilizzano webcam astronomiche per riprese planetarie (controllate che non siano già montati dalla ditta madre). Riportiamo a titolo d’esempio la risposta spettrale della camera a colori Imaging Source DBK 21AU618.AS (figura 3). Come si vede i filtri RGB che vanno a costituire la matrice di Bayer del sensore lasciano passare parte della radiazione infrarossa. Questa, come detto in precedenza, va ad inficiare la qualità ottica delle nostre immagini.

Figura 3: risposta spettrale dei vari elementi fotosensibili (RGB) per la camera Imaging Source DBK 21AU618.AS

Misure spettroscopiche relative a reflex Canon EOS originali, modificate Baader, rimozione filtro LPF#2 e Full Spectrum saranno realizzate prossimamente da ASTROtrezzi con reticolo di diffrazione. Chi fosse interessato a partecipare alla campagna di misura/analisi può scrivere a ricerca@astrotrezzi.it . Si ringrazia Marco Gargano per il supporto tecnico (Figura 1 – curve relative alla fotocamera digitale Nikon D700; tutti i diritti sono riservati – vietata la pubblicazione/distribuzione).




Filtri IR/UV cut e luminanza

Alla parola “filtro”, spesso si associa un colore. Questo perché la maggior parte dei filtri seleziona solo determinate lunghezze d’onda riflettendo le altre che quindi andranno ad assegnare uno specifico colore a ciascun filtro. Eppure esistono filtri trasparenti ovvero in grado di far passare tutta la radiazione visibile. Se a passare è però tutta la radiazione visibile, quale utilità hanno allora questi filtri?

Per comprenderlo dobbiamo ricordare che la luce visibile è solo una piccola parte di quella che prende il nome di radiazione elettromagnetica. In particolare un sensore a semiconduttore, come CCD e CMOS sono sensibili a radiazioni di lunghezza d’onda compresa tra circa 350 e 1100 nm. Ricordando che la luce visibile ai nostri occhi ha lunghezza d’onda compresa tra circa 390 e 700 nm, vuol dire che i sensori a semiconduttori osservano ben “oltre il visibile” ed in particolare nelle frequenze del vicino ultravioletto (UV, tra 350 e 390 nm) e del vicino infrarosso (IR, tra 700 e 1100 nm).

Se quindi ora vogliamo che un sensore a semiconduttore “veda” solo la radiazione visibile allora è necessario applicare a questo un filtro in grado di bloccare la radiazione UV e IR. Questo filtro è noto con il nome di luminanza (L), la cui curva di trasmissione la versione prodotta dalla ditta Astronomik è riportata in figura 1. Il filtro di luminanza può essere utilizzato o per aumentare la qualità ottica dell’immagine (nei rifrattori la radiazione IR e UV non viene focalizzata correttamente andando quindi ad inficiare la qualità ottica dello strumento) oppure nella composizione LRGB (per maggiori informazioni si legga l’articolo La tecnica LRGB).

Figura 1: (A) curva di trasmissione le filtro L Astronomik. Si può osservare come questo filtro copra tutto il range spaziato dai filtri RG e B della medesima marca (vedi articolo “Filtri colorati ed RGB”). (B) come appare il filtro L Astronomik da due pollici per telescopi astronomici.

Sul mercato esistono inoltre una notevole varietà di filtri del tutto simili a quelli di luminanza che prendono il nome di filtri IR-cut ovvero taglia infrarosso. In realtà, come per il filtro L, quasi gli IR-cut tagliano in realtà anche la componente ultravioletta della luce rilevabile da un sensore a semi-conduttore (talvolta infatti vengono riportati come filtri IR/UV cut). Esempi di curve di trasmissione per filtri IR-UV cut sono riportati in figura 2.

Figura 2: Curva di trasmissione per filtri IR/UV cut prodotti o venduti dalle aziende Astronomik, Baader Planetarium e Tecnosky. La regione dello spettro colorata in grigio rappresenta la regione del visibile. In nero tratteggiato è riportata la curva di trasmissione per il filtro L Astronomik. Si può osservare come tutti questi filtri coprano completamente lo spettro del visibile con code residue, più o meno lunghe, nel vicinissimo infrarosso e ultravioletto.

Quanto detto in questo articolo vale unicamente per camere CCD astronomiche monocromatiche. Reflex digitali e camere CCD a colori sono provviste ovviamente di un set di microfiltri RGB (matrice di Bayer) oltre che, talvolta, di uno o più filtri UV/IR cut montati di fronte al sensore. In questi casi l’utilizzo del filtro IR-cut o di Luminanza può risultare superfluo se non addirittura controproducente. Per maggiori dettagli si legga l’articolo “Filtri per camere a colori e OWB”.




Filtri colorati ed RGB

I filtri colorati sono utilizzati in astrofotografia sia per evidenziare zone specifiche dell’atmosfera o della superficie dei pianeti sia per ricostruire immagini a colori con camere monocromatiche attraverso la tecnica di composizione RGB (vedi post “Costruire un’immagine a colori). In particolare, nel secondo caso, sono stati sviluppati filtri specifici a banda passante, centrati rispettivamente nelle lunghezze d’onda del rosso (R), verde (G) e blu (B). Tali filtri possono essere montati di fronte ai sensori monocromatici delle camere CCD astronomiche oppure andare a formare, a gruppi di quattro, l’elemento fondamentale della matrice di Bayer di camere CCD a colori o reflex digitali. Esempio di curve di trasmissione per filtri R,G e B prodotti della ditta Astronomik sono riportati in figura 1.

Figura 1: (A) curva di trasmissione dei filtri RGB Astronomik. Si può osservare come l’unione dei tre filtri copra completamente lo spettro della luce visibile. (B) come appaiono i filtri RGB Astronomik da due pollici per telescopi astronomici.

Esistono poi numerosi filtri colorati per le osservazioni planetarie, generalmente identificati dal numero di Wratten (W). Quest’ultimo, derivando dalla fotografia tradizionale, non ha un riscontro scientifico vero e proprio assumendo per lo più un significato puramente estetico (colori caldi, colori freddi,…). Tra i principali filtri colorati utilizzati in astronomia ricordiamo: i filtri di colore rosso (W23A-W25) utili per l’osservazione diurna di Mercurio e Venere oltre ad enfatizzare dettagli superficiali di Marte o le bande di Giove.

Per la superficie di Saturno, nonché per ridurre il seeing nelle osservazioni lunari, consigliamo invece l’utilizzo del filtro arancio (W21) o dei filtri di colore giallo (W8-W12). Questi ultimi possono anche essere utilizzati per evidenziare i particolari delle atmosfere di Giove, Urano e Nettuno oltre alle tempeste su Marte. Sempre grazie a questi filtri è possibile migliorare l’osservazione della granulosità solare (in questo caso è necessario utilizzare contemporaneamente un filtro solare dedicato). Per la grande macchia rossa, i poli marziani e le nubi di Venere si consiglia invece un filtro verde (W56-W58). Particolari della superficie di Mercurio oltre a dettagli atmosferici di Venere, Marte, Giove e Saturno possono essere osservati invece grazie all’ausilio di filtri blu (W38A-W80A).  Analoghi a questi sono i filtri viola (in particolare il W47) che però permettono anche un aumento della qualità dell’osservazione degli anelli di Saturno.

Tutti i filtri colorati qui descritti possono essere utilizzati sia per l’osservazione visuale che per l’astrofotografia. Nel secondo caso, se ne consiglia l’utilizzo per riprese in bianco e nero dato che quelle a colori presenterebbero una forte dominante data dal filtro. A titolo d’esempio riportiamo in figura 2 le curve di trasmissione dei filtri colorati W15 (giallo), W25 (rosso), W58 (verde) e W80A (blu) venduti ad esempio in kit dalla ditta Orion.

Figura 2: (A) curva di trasmissione dei filtri colorati W15,W25,W58 e W80A. Per confronto, in tratteggiato, riportiamo la curva di trasmissione per i filtri RGB Astronomik. (B) come appare un filtro colorato W80A Meade da 1.25 pollici per telescopi astronomici.

I filtri colorati possono essere utilizzati anche per effettuare composizioni RGB anche se si consiglia vivamente l’utilizzo di filtri dedicati. Le curve di trasmissione di tutti i filtri colorati che obbediscono allo standard Wratten sono riportati nel documento “Transmission of Wratten filters” redatto da Allie C. Peed Jr. della Eastman Kodak Company. Alcune ditte come la Baader produce filtri colorati con standard differenti. In tal caso si rimanda al sito del produttore.

 




I filtri astronomici

L’utilizzo dei filtri in astrofotografia è fondamentale, specialmente se si utilizzano CCD astronomiche e/o si riprende da zone soggette ad elevato inquinamento luminoso. Lo scopo dei filtri ottici è quello di selezionare regioni più o meno ristrette dello spettro elettromagnetico di un determinato tipo di polarizzazione oppure semplicemente diminuire l’intensità della sorgente luminosa. Nel primo caso si possono utilizzare materiali in grado di assorbire (filtri ad assorbimento) o riflettere (filtri a riflessione tra cui i filtri interferenziali o dicroici) determinate lunghezze d’onda. Nel secondo caso invece vengono sfruttate le proprietà di determinati materiali in grado di selezionare una determinata polarizzazione della luce (polarizzatori) ed infine nel terzo caso si utilizzano materiali in grado di riflettere parzialmente tutte le lunghezze d’onda del visibile (filtri neutri). I filtri ad assorbimento e riflessione sono caratterizzati da una quantità detta curva di trasmissione che rappresenta la capacità del filtro di far passare una determinata lunghezza d’onda della radiazione luminosa. Queste curve possono o non possono essere normalizzate ad uno (o 100%). I filtri neutri invece sono identificati dalla capacità o meno del filtro di far passare la luce visibile noto come coefficiente di trasmissione. Coefficiente di trasmissione e curva di trasmissione sono concetti differenti anche se ovviamente legati tra loro. Il primo dice quanta luce passa dal filtro, la seconda invece indica quale è la probabilità per tale luce di possedere una determinata lunghezza d’onda una volta passata attraverso filtro. Il valore assoluto del logaritmo in base dieci del coefficiente di trasmissione è detta densità ottica, grandezza fondamentale per la scelta dei filtri neutri. I polarizzatori invece hanno densità ottica variabile a seconda dell’angolo tra la polarizzazione della luce incidente e quella del polarizzatore, detta legge di Malus.

In questo post e nei seguenti analizzeremo in dettaglio quasi tutti i filtri utilizzati in astrofotografia, ed in particolare:

Purtroppo non verranno presi in esame i filtri Hα per osservazioni solari a  cui sarà dedicata una sezione apposita.




Newbie (versione 1) – 14/02/2014

INTRODUZIONE

Newbie è un’applicazione JAVA sviluppata nell’ambito del progetto “Constellation” e del corso di astrofotografia digitale on-line di ASTROtrezzi.it . Scopo del programma è studiare come cambia la terna tempo di esposizione, diaframma e sensibilità. Quante volte infatti ci siamo posti il problema di voler conoscere il nuovo valore del tempo di esposizione al variare dell’apertura del diaframma o della sensibilità o di entrambi? Dal punto di vista matematico, data la terna di valori iniziali tempo di esposizione t1, diaframma f1 e sensibilità ISO1, questi sono legati alla terna finale (t2,f2,ISO2) dalla relazione:

(t1:t2) x (f2:f1) x (f2:f1) x (ISO1/ISO2) = 1

da cui fissati due dei tre parametri finali è possibile determinarne il terzo. Tempi, diaframmi ed ISO possono essere espressi in una qualsiasi unità di misura. Unico vincolo è che il tempo di esposizione deve essere espresso in forma decimale e non sessagesimale. Quindi 2 minuti e 30 secondi devono essere espressi come 2.5 minuti. Il programma ha finalità didattiche ma può essere utilizzato come comodo tool per sessioni astrofotografiche.

INSTALLAZIONE

Il programma Newbie v.1 è compatibile con MacOSX, Linux e Windows. Newbie richiede solo l’installazione di JAVA 7 (http://www.java.com/it/download/manual.jsp). Per verificare se JAVA è già presente sul vostro computer andate alla pagina di test http://www.java.com/it/download/testjava.jsp . Scaricate quindi il file Newbie_v1.jar dal link che trovate di seguito, copiatelo in una cartella qualsiasi del vostro computer (consigliamo la cartella Documenti) e quindi cliccateci sopra due volte per lanciarlo.

GUIDA ALL’UTILIZZO

Newbie v. 1 è stato sviluppato unicamente in lingua italiana. Cliccate due volte sul file Newbie_v1.jar per lanciarlo. Si aprirà la schermata di Newbie come mostrato qui sotto:

Schermata di Newbie (su Windows8).

A questo punto inserite partendo dall’alto i valori iniziali di Tempo di esposizione in secondi, Diaframma utilizzato espresso in f/ e Sensibilità utilizzata in ISO. Dopodiché decidete cosa volete calcolare cliccando su una delle tre opzioni messe a disposizione dal programma. Di default è selezionato il Tempo di esposizione. La voce selezionata dovrà essere lasciata invariata e quindi nel relativo campo dovrà apparire il valore zero. Riempite gli altri due campi con i valori finali (che possono, in uno dei due casi coincidere anche con quelli iniziali). Cliccate quindi su Calcola per eseguire il calcolo della voce selezionata. Per ritornare alle condizioni iniziali premete il tasto Reset altrimenti Esci per chiudere il programma. Se erroneamente si calcolano i parametri finali (t2,f2,ISO2) per valori di t1, f1 e/o ISO1 nulli, potrebbe apparire la scritta NaN. Premete Reset e inserite i valori corretti. Newbie v.1 è pensato per tempi di esposizione superiori al secondo. Per valori inferiori al secondo consigliamo la consultazione della Tabella sottostante.

In blu i tempi di esposizione indicati nei menù delle fotocamere digitali più comuni, in rosso il valore degli stessi espressi in secondi. Alcuni modelli di fotocamere potrebbero non avere tutti i valori riportati in tabella.

DISTRIBUZIONE E SVILUPPO

Newbie è un programma open source completamente gratuito. Malgrado questo è vietata la distribuzione se non autorizzata dall’autore. Tale autorizzazione può essere richiesta inviando un e-mail all’indirizzo davide@astrotrezzi.it . E’ possibile scaricare il sorgente direttamente da questo sito (vedi sezione DOWNLOAD). Per partecipare allo sviluppo di Newbie e degli altri applicativi di Constellation inviate un mail a ricerca@astrotrezzi.it .

DOWNLOAD

Di seguito riportiamo il link per scaricare il programma Newbie v.1 ed il sorgente per sviluppatori:

  • Newbie versione 1 : programma (JAR) , sorgente per sviluppatori (ZIP)




Auriga – 29/12/2013

Telescopio o obiettivo di acquisizione (Imaging telescope or lens): Canon EF-S 18-55mm f/3.5 utilizzato a (used at) 42mm f/5.6

Camera di acquisizione (Imaging camera): Canon EOS 500D (Rebel T1i) [4.7 μm]

Montatura (Mount): iOpron StarTracker

Telescopio o obiettivo di guida (Guiding telescope or lens): non presente (not present)

Camera di guida (Guiding camera): non presente (not present)

Riduttore di focale (Focal reducer): non presente (not present)

Software (Software): IRIS + PixInsight + Adobe Photoshop CS3/CS6

Accessori (Accessories): non presente (not present)

Filtri (Filter):  non presente (not present)

Risoluzione (Resolution): 3888 x 2592 (originale/original), 4725 x 3115 (finale/final)

Data (Date): 29/12/2013

Luogo (Location): Sormano – CO, Italia (Italy)

Pose (Frames): 28 x 240 sec at/a 800 ISO

Calibrazione (Calibration): 6 x 240 sec dark, 30 bias, 30 flat.

Fase lunare media (Average Moon phase): 9.0%

Campionamento (Pixel scale):  circa/about 23.47 arcsec/pixel

Focale equivalente (Equivalent focal lenght): 42 mm

Note (note):

Auriga - 29/12/2013

con i riferimenti / with labels:

Auriga - 29/12/2013




M37 (NGC 2099) – 06/12/2013

Telescopio o obiettivo di acquisizione (Imaging telescope or lens): Rifrattore ED (ED reftactor) Tecnosky Carbon Fiber 80mm f/7

Camera di acquisizione (Imaging camera): CCD Atik 383L+ B/W [5.4 μm]

Montatura (Mount): SkyWatcher NEQ6

Telescopio o obiettivo di guida (Guiding telescope or lens): Newton SkyWatcher BlackDiamond 150 mm f/5

Camera di guida (Guiding camera): Magzero MZ-5m B/W [5.2 μm]

Riduttore di focale (Focal reducer): riduttore/spianatore 0.8x (0.8x reducer/field flattener)

Software (Software): PixInsight + Adobe Photoshop CS3

Accessori (Accessories): non presenti (not present)

Filtri (Filter): Astronomik LRGB

Risoluzione (Resolution): 3362 x 2537 (originale/original), 3280 x 2472 (finale/final)

Data (Date): 06/12/2013

Luogo (Location): Briosco – MB, Italia (Italy)

Pose (Frames): 24 x 180 sec bin 1×1 L, 6 x 300 sec bin 1×1 R, 5 x 300 sec bin 1×1 G, 6 x 300 sec bin 1×1 B

Calibrazione (Calibration): 10 x 180 sec bin 1×1 dark L, 10 x 300 sec bin 1×1 dark RGB, 41 bias, 30 flat L, 30 flat R, 30 flat G, 30 flat B

Fase lunare media (Average Moon phase): 20.9%

Note (note): LRGB

M37 (NGC 2099) - 06/12/2013




Il Master Bias Frame

Nel post Il bias frame, abbiamo analizzato la natura di questo particolare tipo di scatto utile per la calibrazione delle nostre immagini astronomiche. In particolare abbiamo visto come esso contenga informazioni sull’offset associato alla nostra camera di ripresa oltre che sulla struttura del rumore elettronico non casuale. Ovviamente il tutto condito da rumore elettronico casuale a media nulla.

Proprio quest’ultimo abbiamo imparato a ridurlo mediando numerosi bias frame. Infatti, essendo per definizione il rumore casuale a media nulla, è facilmente eliminabile mediando il valore del livello di luminosità di ciascun pixel su un certo numero di frame. La questione aperta, oggetto di questo post è: “Quanti scatti mediare?”. La risposta è sempre la solita che si trova su libri e siti di astrofotografia ovvero più scatti vengono mediati e migliore è il risultato ottenuto. Inoltre si trova erroneamente riportato che il rumore del bias frame mediato o master bias frame è inversamente proporzionale alla radice del numero di frame utilizzati nella media. Questo non è vero in generale e scopriremo il perché dal punto di vista statistico.

Innanzitutto supponiamo di considera un singolo pixel soggetto da solo rumore elettronico casuale. Questo significa che se consideriamo i valori di luminosità BL(x,y,i) assunti dal singolo pixel di coordinate (x,y) in un certo numero di frame N, questi saranno distribuiti secondo una distribuzione gaussiana centrata in un certo valore medio BL(x,y). Lo stesso ovviamente si può dire per ogni pixel del sensore e quindi per ogni valore della coordinata (x,y). Se ora quindi effettuiamo la media aritmetica dei vari bias frame, otterremo per ogni pixel il valore medio di luminosità BL(x,y). Se ora costruiamo la distribuzione dei livelli di luminosità BL(x,y) allora otterremo ancora una distribuzione gaussiana con valore medio BL che, se tutto è stato effettuato correttamente, corrisponde all’offset della nostra camera di ripresa. La distribuzione dei BL(x,y) è gaussiana e rappresenta la distribuzione dei valori medi di luminosità assunta da un certo numero N di bias frame. Essendo la distribuzione della media, questa ha larghezza σ pari al readout noise diviso per la radice di N. Il rumore elettronico casuale quindi scala come la radice quadrata del numero di bias frame utilizzati.

Purtroppo però il nostro bias frame non contiene solo rumore elettronico casuale associato all’elettronica ed al processo di conversione analogico/digitale (ADC) ma anche del rumore elettronico non casuale come rumori a pattern fisso o transienti. Questi andranno così a modificare la nostra distribuzione BL(x,y) che non scalerà quindi più con la radice quadrata del numero di frame. Trascurando i rumori transienti, di secondaria importanza ed eliminabili utilizzando ad esempio la mediana dei frame invece della media, i rumori a pattern fisso (righe, bande, …) non sono a media nulla e pertanto non vengono eliminati nel processo di media dei singoli bias frame. Praticamente più che di rumore dovremmo parlare di segnale.

Rumori casuali e non casuali vanno così a sommarsi in quadratura dando luogo alla larghezza σ complessiva della distribuzione dei valori di BL(x,y). Quando effettuiamo la somma di più bias frame avremo che la componente “casuale” di σ andrà a scalare con la radice quadrata del numero di bias frame, mentre la componente “non casuale” rimarrà fissa ad un determinato valore σ0. Nel caso ipotetico di avere un numero infinito di bias frame allora  σ coinciderà esattamente con σ0.

Al fine di dimostrare quanto appena detto, abbiamo effettuato la mediana di un certo numero di bias frame N calcolando di volta in volta la larghezza della distribuzione dei livelli di luminosità del master bias frame (ovvero ricordiamo ancora una volta, del frame ottenuto come media/mediana di N bias frame). La camera utilizzata è una ATIK 383L+ monocromatica in bin 1×1 raffreddata a -16.9°C ed una Canon EOS 500D. Il risultato ottenuto è mostrato in Figura 1.

Figura 1: quadrato della larghezza (RMS) della distribuzione dei livelli di luminosità BL(x,y) del master bias frame in funzione dell'inverso del numero di frame utilizzati, per camera CCD ATIK383L+ monocromatica e CMOS Canon EOS 500D

Dal fit effettuato sui punti di Figura 1 possiamo subito notare come il quadrato di σ sia funzione di 1/N (ovvero σ scala come la radice del numero di conteggi) e presenti un asintoto che corrispondente quindi al quadrato di σ0. Se mediamo quindi un numero di frame sufficientemente elevato (diciamo > 10, anche se > 50 è decisamente consigliato) allora il contributo a σ dovuto al rumore casuale diviene praticamente trascurabile.

Ricordiamo inoltre che, nel caso delle DSLR, σ è funzione del numero di ISO utilizzato dato che le condizioni di funzionamento dell’elettronica cambiano al variare della sensibilità utilizzata. Figura 2 mostra ad esempio la variazione di σ  in funzione degli ISO per una fotocamera Canon EOS 40D. Si può facilmente notare come questa incrementi in modo praticamente lineare all’aumentare della sensibilità.

Figura 2: larghezza della distribuzione dei livelli di luminosità BL(x,y) del bias frame in funzione degli ISO di una DSLR Canon EOS 40D

Concludendo quindi possiamo affermare che per ottenere un buon master bias frame è necessario acquisire un numero di frame N sufficientemente elevato da ridurre la componente di rumore casuale presente nell’immagine. Sono i rumori elettronici non casuali a determinare la larghezza minima della nostra distribuzione e pertanto un N eccessivamente grande non comporta nessun miglioramento della qualità del master bias frame. Purtroppo molto spesso i rumori non casuali sono intrinsechi dell’elettronica e pertanto difficilmente riducibili. Ricordiamo infine che bassi valori di sensibilità (ISO) sono consigliabili dato che posseggono un valore di σ inferiore. Questo non coincide con il readout noise dato che per ottenere tale valore dobbiamo sottrarre al bias frame la componente non casuale del rumore (ottenibile mediando un numero elevato di bias frame escluso quello in esame). Per maggiori informazioni sul readout noise consigliamo la lettura del post Il bias frame.




Il potere risolutivo

Sovente gli astrofili visualisti fanno a gara nel risolvere stelle doppie molto strette. Ovvero cercare di separare due stelline, preferibilmente di uguale luminosità, a distanza apparente (o reale) reciproca molto ridotta. Così come in passato si utilizzavano le stelle doppie per testare la bontà della propria vista, oggi gli astrofili utilizzando stelle doppie strette per testare la qualità dei propri telescopi. La separazione minima θ tra due stelle, misurata in secondi d’arco, osservabile al vostro telescopio è detto potere risolutivo raggiunta dal vostro telescopio. Questo significa che voi riuscirete ad osservare al telescopio particolari ed oggetti di dimensioni angolari superiori a θ. E’ possibile conoscere a priori il valore del potere risolutivo? Purtroppo no dato che dipende dalla turbolenza atmosferica (seeing), dalla qualità ottica del vostro telescopio e dal limite di diffrazione. Il primo parametro infatti è difficilmente quantificabile a priori e dipende dal giorno e dal luogo di osservazione. Anche il secondo spesso non è quantificabile dato che ormai i telescopi sono prodotti industriali spesso diversi l’uno dall’altro. L’unico parametro quantificabile poiché dipende unicamente dalla natura stessa della luce è il limite di diffrazione. Se quindi ipotiziamo di avere ottiche perfette ed un cielo privo di turbolenza atmosferica, allora il potere risolutivo sarà determinato unicamente dal limite di diffrazione. Questo è quello che spesso prende il nome di potere risolutivo teorico o con abuso di notazione potere risolutivo.

Prima di determinare matematicamente θ ricordiamo che la diffrazione è un fenomeno fisico che si manifesta quando un’onda incontra un ostacolo sul proprio cammino. Questo diventa tanto più importante tanto più le dimensioni dell’ostacolo si avvicinano alla lunghezza d’onda λ dell’onda incidente. Nel caso in esame l’onda incidente è rappresentata dall’onda (piana in prima approssimazione) elettromagnetica emessa dalla stella, mentre l’ostacolo è l’ottica. Quello che succede è che l’onda elettromagnetica arrivando a ridosso del nostro telescopio si “spacca”. Un “pezzo” sta fuori dal telescopio ed un “pezzo” entra nel telescopio in perfetta analogia con quanto succede quando le onde del mare entrano in un molo. Sulla base delle teorie dell’elettromagnetismo la componente dell’onda che entra nel telescopio si comporta come una sovrapposizione di numerose onde sferiche che iterferiscono tra loro dando luogo all’immagine di diffrazione. Nel caso dei telescopi caratterizzati tutti dall’avere un’apertura circolare, l’immagine di diffrazione di una sorgente puntiforme posta all’infinito (una stella) è rappresentata da anelli concentrici luminosi detti disco di Airy. L’anello centrale (punto) è solitamente molto più luminoso dei secondari ed è quello che costituisce l’immagine della stella che osserviamo al telescopio (vedi Figura 1).

Figura1: immagine di diffrazione generata da una sorgente puntiforme. Sono ben visibili gli anelli luminosi intorno all'immagine della stella.

Cosa succede se ora abbiamo due stelle identiche molto vicine? Queste, rappresentate ciascuna dal proprio disco di Airy, andranno via via a sovrapporsi al diminuire della separazione angolare. Arriveremo ad un punto in cui le due stelle non sono più “separabili” ovvero non riusciamo più a distinguere separatamente i due dischi di Airy (vedi Figura 2). Tale distanza angolare sarà proprio il potere risolutivo teorico o limite di diffrazione. Si può dimostrare matematicamente che tale punto corrisponde alla distanza dal punto centrale del disco di Airy del primo anello di diffrazione (criterio di Rayleigh). Ecco quindi che abbiamo un modo per quantificare il potere risolutivo (teorico) del nostro telescopio.

Figura 2: immagine di diffrazione generata da due sorgenti puntiformi. A sinistra quando sono lontane tra loro, a destra al limite di diffrazione.

Il limite di diffrazione e quindi il potere risolutivo teorico α dipenderà dalle dimensioni dell’ostacolo, ovvero dall’apertura del telescopio D, e dalla lunghezza d’onda della luce incidente λ. Mettendo tutto in formule:

α(rad) = 1.22 λ(nm)/D(nm)

per la luce visibile λ varia tra 380 e 760 nm. Un valore indicativo di 550nm risulta spesso più che adeguato dato che è la parte dello spettro elettromagnetico dove l’occhio umano e le reflex digitali sono più sensibili. D deve essere espresso in nm e quindi se voi conoscete il diametro del vostro telescopio in mm questo andrà moltiplicato per 1’000’000. Il risultato ottenuto sarà in radianti. Per trasformarlo in secondi d’arco dovrete moltiplicare il risultato ottenuto per 206’265. Come vedete il potere risolutivo teorico aumenta all’aumentare della lunghezza d’onda ed al diminuire del diametro del telescopio.

Purtroppo il termine “potere risolutivo” può generare giustamente confusione. Infatti se aumenta il potere risolutivo uno immagina che aumenta la capacità del telescopio di risolvere oggetti di piccole dimensioni. Ebbene è il contrario, un aumento del potere risolutivo significa un aumento dell’angolo minimo risolvibile attraverso il nostro telescopio e quindi un peggioramento della qualità della vostra ottica. Telescopi con bassi valori di potere risolutivo sono quindi migliori di telescopi con alto valore di potere risolutivo. Molto spesso quindi potrete leggere o sentir parlare di aumento del potere risolutivo con il diametro del telescopio ovviamente sbagliato dal punto di vista formale.

A titolo di esempio, un telescopio Newton 150mm avrà un potere risolutivo teorico pari a:

  • Rosso (700 nm): 1.17 arcsec
  • Verde (546.1 nm): 0.92 arcsec
  • Blu (455.8 nm): 0.76 arcsec

Come detto in precenza a questo bisognerà aggiungere il contributo dovuto alla qualità dell’ottica. Questo è difficilmente valutabile ed è inferiore al limite di diffrazione solitamente per ottiche con rapporti focali f/ superiori a 8. Il contributo invece dovuto al seeing è solitamente compreso tra circa 0.4 arcsec (La Palma) ed i 2-3 arcsec o superiori nel caso di forte turbolenza atmosferica. E’ quindi facile notare come il limite di diffrazione possa talvolta non essere dominante nel calcolo del potere risolutivo di un telescopio.




Il fattore di crop

L’avvento della tecnologia digitale ha sicuramente rivoluzionato il mondo dell’astrofotografia agevolando praticamente tutte le fasi di ripresa del cielo stellato. Non tutti però si sono abituati ai nuovi concetti introdotti da questo nuovo tipo di tecnologia. Tra questi quello che sicuramente ha generato maggior confusione nel mondo dell’astrofotografia e della fotografia in generale è sicuramente il fattore di crop. Infatti sovente si sente dire anche da “esperti” fotografi che il loro obiettivo è un 300 mm, ma essendo la loro fotocamera una Canon APS-C allora questo diventa un 480 mm. Questa frase ovviamente è sbagliata ed in questo post cercheremo di capire perché.

Partiamo iniziando con il dire che la lunghezza focale di un obiettivo (fisso o fissata ad un determinato valore nel caso degli zoom) non può cambiare e per un telescopio rifrattore coincide con la distanza tra la lente ed il piano focale, ovvero dove viene focalizzata l’immagine. Quindi un obiettivo 300 mm sarà e rimarrà sempre un 300 mm.

Figura 1: A sinistra il paese di Varenna (LC) ripreso con una full frame (equivalente). A destra lo stesso paesaggio con una APS-C

Se però osserviamo la Figura 1 ci rendiamo subito conto che utilizzando il medesimo obiettivo otterremo risultati diversi nel caso si usasse una Canon EOS con sensore full frame o APS-C. L’immagine ripresa con sensore APS-C appare più ingrandita, come se si fosse utilizzato un obiettivo di lunghezza focale superiore. Prima di comprendere come ciò sia possibile dobbiamo comprendere il significato delle parole full frame e APS-C. Questo si potrebbe facilmente riassumere in: “dimensione del sensore”. Infatti i sensori full frame sono quelli le cui dimensioni del CMOS sono equivalenti a quelli del tradizionale negativo a 35 mm ovvero 24 x 36 mm. I sensori APS-C sono invece più piccoli e nel caso di sensori Canon hanno dimensioni 14.8 x 22 mm.

L’apparente ingrandimento mostrato in Figura 1 è quindi unicamente dovuto alle dimensioni del sensore utilizzato. Perché? Cerchiamo di capirlo insieme. Per fare ciò partiamo da un semplice esempio. Vogliamo riprendere la nebulosa proboscide d’elefante utilizzando due fotocamere, una con sensore full frame ed una con sensore di dimensioni ridotte (non necessariamente APS-C). La luce emessa dalla nebulosa e quindi la sua immagine, dopo aver viaggiato per anni nello spazio interstellare, raggiunge il nostro telescopio o obiettivo fotografico e viene “ricostruita” su quello che abbiamo detto essere il piano focale. Ora se potessimo mettere un foglio di carta all’altezza del piano focale vedremmo l’immagine della nebulosa rappresentata perfettamente all’interno di un riquadro circolare. Perché circolare? Perché le lenti del telescopio sono di forma circolare. A questo punto sostituiamo il nostro foglio di carta con il sensore della fotocamera digitale. Ovviamente questo deve essere più piccolo dell’immagine circolare, altrimenti vedremmo la cornice nella nostra immagine (Figura 2). Tutti i telescopi e gli obiettivi fotografici sono pensati per avere un’immagine al piano focale più grande di un sensore APS-C o full frame.

Figura 2: A sinistra le dimensioni dei due sensori rapportati all'immagine generata dal telescopio / obiettivo sul piano focale. In alto a destra l'immagine ripresa dal sensore full frame, in basso a destra quella ripresa da un sensore APS-C o comunque da un sensore di dimensioni più piccole del full frame.

A questo punto non ci resta che scattare la nostra foto. Il risultato dello scatto è mostrato in Figura 2 a destra. A parità di dimensioni del pixel avremo nel caso di una full frame (sensore grande) un’immagine grande, mentre con un sensore APS-C (sensore piccolo) un’immagine piccola. Se immaginiamo di avere una fotocamera con sensore full frame (dimensioni 24 x 36 mm) da 3186 x 4779 pixel, allora l’immagine ripresa con il sensore APS-C (dimensioni 14.8 x 22 mm) avrà dimensioni in pixel  1965 x 2920. Questo ipotizzando che le dimensioni dei pixel siano uguali nelle due fotocamere (nel nostro esempio 24 mm / 3186 pixel = 7.5 micron). Cosa succede però se ora le due fotocamere hanno dimensioni dei pixel differenti? Ovvero ad esempio il sensore full frame ha dimensione dei pixel pari al doppio della APS-C? In questo caso le due immagini riprese precedentemente avranno la stessa dimensione in pixel come mostrato in Figura 3.

Figura 3: A sinistra l'immagine della nebulosa proboscide d'elefante ripresa con una camera full frame con pixel da 7.5 micron mentre a destra con una APS-C con pixel da 3.75 micron.

Quindi possiamo riassumere il nostro discorso dicendo che utilizzando un sensore APS-C con pixel piccoli otterremmo un’immagine di dimensioni analoghe a quella realizzata con una full frame dotata di pixel grandi. Figura 3 mostra che, come conclusione delle nostre argomentazioni, l’immagine della nebulosa proboscide d’elefante risulta più ingrandita nel caso di sensori APS-C rispetto a full frame. Questo fattore di ingrandimento si chiama fattore di crop. In realtà però è sbagliato definirlo ingrandimento. La terminologia corretta sarebbe: sensori di piccole dimensioni riprendono un campo più piccolo di sensori full-frame, dove per campo intendiamo la frazione di immagine sul piano focale coperta dal sensore. Un sensore APS-C Canon copre ad esempio un campo (24mm/14.8mm = 1.6 e 36mm/22mm = 1.6)  1.6 volte più piccolo di un sensore full frame e pertanto è come se l’immagine fosse 1.6 volte più grande.

Siamo quindi giunti al punto del grande fraintendimento: avere un’immagine che apparentemente è 1.6 volte più grande non significa aver ingrandito l’immagine sul piano focale di 1.6 volte ovvero aver aumentato la focale del telescopio. Quindi è vero che un’immagine ripresa da un sensore full frame con un obiettivo da 480 mm di focale offre lo stesso ingrandimento di una camera APS-C con un obiettivo da 300 mm ma le due ottiche danno immagini differenti sul piano focale e quindi sono differenti. E come si manifesta questa differenza? Ovviamente nella qualità dell’immagine. Un’immagine ripresa con una full frame e obiettivo 480mm è sicuramente di qualità superiore rispetto ad un’immagine ripresa con sensore APS-C e obiettivo 300mm. Questo perché se la full frame riprende un’immagine effettivamente grande, la APS-C riprende un’immagine solo apparentemente grande.

Riassumendo: l’ingrandimento ottenuto in una ripresa astrofotografica dipende da due fattori, lunghezza focale del telescopio e dimensione del sensore. Quindi uno stesso telescopio può fornire immagini con ingrandimenti differenti!!! Nei vostri scatti ricordatevi pertanto di indicare sempre la lunghezza focale di ripresa e il tipo di sensore utilizzato (dimensione del pixel in micron e del sensore in mm).




Tra Alfa e Gamma Cygni – 08.10/08/2013

Telescopio o obiettivo di acquisizione (Imaging telescope or lens): Canon EF 100 mm f/2.8 L IS USM Macro a/at f/2.8

Camera di acquisizione (Imaging camera): Canon EOS 500D (Rebel T1i) [4.7 μm]

Montatura (Mount): iOpron StarTracker

Telescopio o obiettivo di guida (Guiding telescope or lens): non presente (not present)

Camera di guida (Guiding camera): non presente (not present)

Riduttore di focale (Focal reducer): non presente (not present)

Software (Software): IRIS + Adobe Photoshop CS3/CS6

Accessori (Accessories): non presente (not present)

Filtri (Filter):  non presente (not present)

Risoluzione (Resolution): 3888 x 2592 (originale/original) ciascuna/each, 4639 x 2952 (finale/final)

Data (Date): 08/08/2013 , 10/08/2013

Luogo (Location): Altopiano del Teide – Tenerife, Spagna (Spain)

Pose (Frames): 33 x 100 sec at/a 800 ISO (08/08/2013) , 53 x 110 sec at/a 800 ISO (10/08/2013)

Calibrazione (Calibration): 5 x 100 sec dark (08/08/2013), 30 bias (08/08/2013), 15 x 110 sec dark (10/08/2013), 50 bias (10/08/2013), 110 flat (14/08/2013).

Fase lunare media (Average Moon phase): 4.0% (08/08/2013), 15.3% (10/08/2013)

Campionamento (Pixel scale):  circa/about 9.651 arcsec/pixel

Focale equivalente (Equivalent focal lenght): 100 mm

Note (note): mosaico di due immagini effettuato con Photoshop CS3 / mosaic of two images made with Photoshop CS3

Tra Alpha e Gamma Cygni - 08.10/08/2013

questa è la stessa immagine ma senza stelle al fine di mostrare al meglio la struttura delle nebulose presenti in questa regione della Via Lattea / This is the same picture but without stars :

La nebulosità della regione (elaborazione Photoshop CS3)