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Gli ISO e l’immagine astronomica

Il mondo dell’astrofotografia è molto diverso da quello della fotografia tradizionale. Una delle caratteristiche peculiari è che, nel primo caso, focale e diaframma dell’ottica sono fissati. Quindi l’unica libertà che rimane all’astrofotografo è quella di variare tempo di esposizione e gli ISO della propria fotocamera digitale.
Come abbiamo letto nel post “il significato degli ISO nelle fotocamere digitali” maggiori sono gli ISO e maggiore sarà la sensibilità del sensore nel raccogliere la luce. Questo a scapito di un aumento del rumore. Questo rumore è principalmente di tipo casuale e quindi può essere limitato combinando più scatti del medesimo soggetto come riportato nei post “somma di immagini astronomiche” e “guida all’astrofotografia digitale”. Alla luce di queste argomentazioni nasce una delle questioni più dibattute: meglio riprendere poche pose a bassi ISO oppure molte pose ad alti ISO?
Dal punto di vista teorico utilizzare bassi ISO significa utilizzare bassi valori di amplificazione. Questo oltre a ridurre il rumore elettronico associato al processo di amplificazione migliora le performance dell’amplificatore stesso. Purtroppo però minori ISO significa minore sensibilità e quindi per ottenere un’immagine analoga a quella ottenuta ad alti ISO è necessario aumentare il tempo di esposizione. Aumentare il tempo di esposizione significa purtroppo riscaldare il sensore aumentandone così il rumore.
A basse temperature o in condizione di oggetti molto luminosi l’utilizzo di bassi ISO è vivamente consigliato. Per la Luna si consiglia 100 ISO, mentre per gli oggetti deepsky un valore tra 200 e 400 ISO è l’ideale. Sotto i 200 ISO infatti l’aumento in termini di performance dell’amplificatore è trascurabile e il rumore associato non diminuisce sensibilmente.
Cosa succede quando però la temperatura è elevata e/o l’oggetto ripreso è molto debole? In questo caso dobbiamo comprendere quale componente del rumore (dovuto al riscaldamento od elettronico) è dominante.
Come detto in precedenza, gran parte del rumore, sia esso termico o elettronico, può essere ridotto sommando più immagini riprese nelle medesime condizioni di scatto. A parità di tempo disponibile per la ripresa, ad alti ISO è possibile riprendere un maggior numero di scatti dato il ridotto tempo di esposizione.
Esiste poi una seconda componente di rumore termico che produce un pattern di pixel “stranamente caldi” che può essere solo limitatamente ridotto con la tecnica del dark (si vedano i post “la calibrazione delle immagini astronomiche” e “guida all’astrofotografia digitale”). Questi pixel diventano sempre via via maggiori all’aumentare del tempo di esposizione. Quindi utilizzare poche pose con tempi di esposizione lunghi, necessario per pose a bassi ISO, comporta un aumento globale del rumore.
Una buona performance dell’amplificatore si ottiene stando a metà o meglio un quarto dei massimi ISO messi a disposizione della fotocamera digitale. Per la Canon EOS 40D ad esempio, questo valore è pari a 800 – 1600 ISO. Riassumendo quindi: Ad alte temperature o in condizione di oggetti deboli l’utilizzo di alti ISO è vivamente consigliato.
Infine l’utilizzo di ISO elevati e quindi brevi tempi di esposizione può essere importante nel caso di montature non particolarmente preciso o in condizioni di forti raffiche di vento.
Un confronto sperimentale è stato ottenuto con Canon EOS 40D, riprendendo un’immagine di IC1396 stampata su un libro di astronomia. Con un tempo di ripresa equivalente pari a 34 minuti sono state ottenute queste due immagini somma rispettivamente di 4 immagini da 8 minuti a 200 ISO e 30 immagini da 1 minuto a 1600 ISO. Le prime intervallate da pause da 30 secondi, le seconde da 10. Il test ha mostrato come l’immagine a 1600 ISO sia decisamente meno rumorosa.

Confronto tra la somma rispettivamente di 4 immagini da 8 minuti a 200 ISO e 30 immagini da 1 minuto a 1600 ISO.




Il significato degli ISO nelle fotocamere digitali

Molti concetti come il tempo di esposizione o il diaframma hanno resistito al passaggio dal mondo analogico a quello digitale. Uno però ha dovuto radicalmente cambiare il proprio significato: la velocità della pellicola. Infatti nell’universo analogico le pellicole fotografiche si differenziavano a seconda della loro sensibilità alla radiazione luminosa. Pellicole sensibili venivano dette “veloci” altrimenti si parlava di pellicole “lente”. Questa definizione dipendeva dal fatto che a parità di luce raccolta le pellicole sensibili avevano bisogno di un minore tempo di esposizione e quindi erano per l’appunto più “veloci”. Lo standard ISO 5800:1987 definì due scale per misurare la velocità delle pellicole. Una lineare detta ASA o ISO mentre una seconda logaritmica detta scala DIN (oggi non più in uso).
È possibile trovare oggi un analogo digitale? Purtroppo la sensibilità di un fotoelemento nel raccogliere fotoni (radiazione luminosa) è costante. Quindi, se volessimo utilizzare la definizione analogica di ISO, dovremmo dire che questi non cambiano dato un determinato sensore CCD o CMOS.
Però un nuovo concetto è stato introdotto nel mondo digitale: l’amplificazione. Un segnale generato da un fotoelemento può (deve) venire amplificato ed il numero di ADU finali associato al pixel sarà proporzionale al numero di fotoni realmente incidenti sul fotoelemento. La costante di proporzionalità è appunto il fattore di amplificazione del segnale. Come il volume per una radio, amplificando maggiormente il segnale di un fotoelemento sarà possibile raccogliere le sfumature più deboli e “vedere” quei pochi fotoni che hanno raggiunto il nostro sensore. A parità di tempo di esposizione, aumentando l’amplificazione il sensore diventerà pertanto più sensibile alla radiazione luminosa. Ecco quindi trovato un analogo al concetto di ISO, noto oggi come ISO equivalente o semplicemente ISO.
Per aumentare la sensibilità delle pellicole fotografiche si aumentava fisicamente la grandezza degli agglomerati di nitrato di Argento presenti sulla pellicola (noti come grani) che fornivano pertanto delle immagini meno continue. Si diceva così che pellicole ad alti ISO presentavano una “grana” maggiore.
Con la nascita della fotografia digitale il concetto di grana era destinato a sparire ma un nuovo fenomeno mostrava caratteristiche analoghe: il rumore elettronico. Infatti un amplificatore non è in grado di distinguere un segnale da un rumore (per esempio termico) e quindi amplificando il primo amplifica inevitabilmente il secondo. A differenza della grana che rendeva comunque l’immagine “morbida”, il rumore elettronico è random e genera un disturbo di fondo molto fastidioso dal punto di vista estetico.

Esempio di "grana" digitale (a sinistra) e analogica (a destra)

 Come avrete quindi imparato dalla lettura di questo articolo, ISO e grana hanno oggi definizioni completamente diverse da quelle utilizzate in passato. Il massimo valore di ISO di una DSLR sta aumentando sempre più anche se una piccola nota è ancora necessaria. Infatti a parità di ISO due fotocamere digitali possono comportarsi in modo completamente differente. Infatti il rumore elettronico non dipende solo dal fattore di amplificazione ma anche dalla qualità del fotoelemento, dell’ADC e dell’amplificatore stesso. Ecco quindi come una posa a 400 ISO effettuata con una Canon EOS 40D può avere qualità maggiore di una stessa effettuata con una Canon EOS 500D. Inoltre ricordiamo che amplificatori di buona qualità permettono la regolazione fine del fattore di amplificatore che si traduce in una maggiore disponibilità di valori di ISO.
Essendo il rumore elettronico legato anche al rumore termico del fotoelemento, ovvero al suo surriscaldamento, tempi di esposizione lunghi possono portare ad una diminuzione della qualità dell’immagine. Per una buona ripresa è quindi necessario utilizzare ISO bassi, tempi di esposizione corti e componenti elettronici di ottima qualità. Ovviamente questo non è sempre possibile e sarà l’oggetto ad esempio dell’articolo “gli ISO e l’immagine astronomica”. Test per verificare la qualità dell’elettronica di fotocamere digitali sono riportati nella sezione ASTROtecnica. Se volete testare la vostra DSLR scrivete a davide@astrotrezzi.it .




L’astrofotografia di tutti i giorni

Quando si osservano immagini di galassie o ammassi stellari ripresi da osservatori astronomici o astrofotografi professionisti si rimane spesso a bocca aperta pensando che quel mondo sia anni luce da quello che possiamo “raggiungere” noi comuni mortali con le nostre fotocamere digitali. In parte è vero in quanto per fare delle riprese in dettaglio di oggetti astronomici sono necessarie strumentazioni sofisticate e molto spesso costose ma non dobbiamo abbandonare le nostre speranze. Infatti è possibile essere astrofotografi anche con della semplice strumentazione economica. Vediamo in questo post cosa può fare un neofita di astrofotografia con la propria strumentazione.

TRAMONTI ED ALBE
Astronomia non è solo cielo stellato. Albe e tramonti sono gli oggetti più semplici da riprendere, data la richiesta minima di strumentazione, e danno la possibilità all’astrofotografo di esprimere tutta la sua personalità. Quando guardate le immagini di un ammasso di stelle, una galassia o una nebulosa cosa vi comunica l’autore? Nulla. Potete dire che una ripresa è più bella perché mostra maggiori dettagli o perché si è usata una focale corretta ma della personalità dell’autore praticamente non c’è traccia. Nel caso di tramonti e albe invece il discorso è completamente opposto. La tecnica è banale.

La posizione del tramonto al variare delle stagioni (Varenna - LC): inverno, autunno e estate.

Prendete la vostra macchina fotografica (sia essa una compatta o una reflex), inquadrate il Sole al tramonto (alba) o le luci del crepuscolo e scattate. Il gioco è fatto! Quali suggerimenti possiamo dare a questi tipi di astrofotografi?

 

  • Se riprendete con il settaggio della vostra fotocamera “automatico” (questo è sempre vero per le compatte), allora puntate il cielo, premete il tasto di scatto finché la camera non mette a fuoco; dopodiché sempre con il tasto premuto abbassate lo sguardo riprendendo anche l’orizzonte. In questo caso la fotografia rimarrà leggermente sottoesposta garantendo un bel colore del cielo a scapito di un orizzonte nero (silhouette). Potete anche fare il contrario mettendo a fuoco l’orizzonte e alzando poi la camera. In questo caso il cielo sarà sovraesposto dando un coloro azzurrino chiaro e colori smorti, mentre il paesaggio sarà correttamente esposto.
  • Se riprendete con il settaggio della vostra fotocamera “manuale” allora potete giocare con i tempi di esposizione e se necessario applicare la tecnica HDR. Se il Sole è ancora presente e molto luminoso, allora chiudete il diaframma dando luogo all’effetto stella.
  • Dopo alcuni minuti dal tramonto (o alcuni minuti prima dell’alba) le luci del crepuscolo si fanno sempre più deboli (intense) cedendo il passo alla notte (giorno). Se volete comunque riprendere il colore blu del cielo allora munitevi di cavalletto e se avete una compatta impostate l’autoscatto (in modo da evitare il mosso) se invece avete una reflex utilizzate un telecomandino per lo scatto remoto… quello che una volta si chiama flessibile.
  • Il cavalletto, utile per le riprese a tramonto (alba) avanzato (anticipata) non deve essere necessariamente di alta qualità. Basta anche un prodotto scadente da supermercato.
  • Ricordatevi che le luci del tramonto danno un colore rosato al paesaggio mentre l’alba è spesso di colore azzurro-verde.
  • Riprendete il tramonto (o l’alba) dallo stesso luogo in periodi dell’anno differenti (ad esempio in prossimità di solstizi ed equinozi) e vedrete il movimento del punto di tramonto (alba) durante l’anno. E chi ha detto che il Sole sorge sempre ad est e tramonta ad ovest? 🙂

Ovviamente ambientate il vostro tramonto (alba)! Se mettete un soggetto in primo piano ricordatevi (oltre alla regola dei terzi) di dare un colpo di flash o di illuminarlo con luce artificiale dato che altrimenti ne otterrete solo la silhouette. Per i più esperti: utilizzate ISO bassi e diaframmi chiusi al fine di ottenere la massima profondità di campo… in questo caso ovviamente dovrete utilizzare il cavalletto. Non vi resta che dare luogo alla vostra fantasia!!!

INQUINAMENTO LUMINOSO E FENOMENI ATMOSFERICI
L’inquinamento luminoso è una di quelle parole che fanno rabbrividire qualsiasi astrofotografo (che non usa filtri interferenziali). Eppure per il neofita può essere spunto per realizzare i primi lavori “notturni”. Infatti montate la vostra fotocamera digitale (compatta o reflex) su un cavalletto (anche economico) e impostate la posa autoscatto. Puntate un paesaggio cittadino visto da un punto panoramico e scattate.

La Brianza, di notte, offre il peggio di se trasformandosi in una fornace ardente di luci le quali, invece di illuminare le strade, gettano i loro raggi verso il cielo impedendoci la visione dell'Universo.

Il risultato ottenuto sarà davvero spettacolare! Alcuni suggerimenti:

  • Per chi ha una reflex valgono le regole del tramonto. Quindi dotatevi di telecomando per controllo remoto, chiudete il diaframma e utilizzate ISO bassi.
  • Usate lampioni o luci parassite per illuminare un soggetto da anteporre al paesaggio “inquinato” oppure
  • Lasciate al buio il soggetto al fine di creare l’effetto silhouette.

Quindi sfogate pure la vostra fantasia, magari mettendo la vostra silhouette o quella del vostro telescopio in primo piano.

Un altro nemico dell’astrofotografo sono le nubi. Sfruttatele comunque al meglio e in maniera analoga alle riprese dell’inquinamento luminoso riprendete nubi e velature (illuminate dalle luci cittadini), fulmini e temporali o aloni lunari. Un suggerimento? Prima di tutto portatevi l’ombrello!!! Non si sa mai. Secondo i più esperti (dotati di reflex) possono decidere se alzare gli ISO e aprire il diaframma al fine di avere nubi ferme oppure abbassare ISO e chiudere il diaframma per avere l’effetto mosso. Come nel paragrafo precedente: date sfogo alla vostra fantasia!!!

I PIANETI
Cosa sono i pianeti visti ad occhio nudo? Degli enormi stelloni!!! Quindi perché non riprenderli con le nostre fotocamere digitali (compatte o reflex)? Per i detentori di compatte la vita comincia a farsi difficile e la tecnica è quella dell’inquinamento luminoso… finché possibile. Infatti se Venere e Giove saranno di facile ripresa, per gli altri pianeti iniziano i problemi.

Venere (qui dall'isola di Madeira) è un valore aggiunto all'immagine di un fantastico tramonto. Giocate con i pianeti e ambientateli il più possibile in paesaggi indimenticabili!

Per i fotografi più esperti dotati di reflex allora il gioco si fa semplice potendo esporre ipoteticamente fino all’infinito grazie al telecomandino per il controllo remoto. Alcuni suggerimenti:
Ricordatevi di regolare ISO e diaframmi in modo che il pianeta (o lo stellone) non risulti mosso. Il cielo si muove durante la notte ed il fenomeno sarà molto più evidente a mano a mano che aumentare la lunghezza focale.
I pianeti a volte si trovano vicini (si parla di congiunzione). Non perdetevi queste occasioni per riprendere più pianeti, magari ambientati con chiese gotiche, statue o strane silhouette. Liberate pure la vostra fantasia.

  • Ricordatevi sempre di ambientare la ripresa. La foto di un pianeta con un obiettivo (persino con un 1200 mm) non ha senso. Sono necessari parecchi metri di focale per ottenere qualche dettaglio interessante.
  • Scattate una foto del pianeta dalla stessa posizione ogni giorno e sovrapponete le pose. Vedrete il movimento del pianeta con il passare dei giorni.
  • I pianeti possono andare in congiunzione anche con la Luna… non perdetevi questi momenti per realizzare dei quadretti indimenticabili.
  • I pianeti non si muovo, rispetto alle stelle fisse, con la stessa velocità della Luna. Può capitare quindi che in una stessa notte la Luna passi davanti ad un pianeta (si parla di occultazione). Non perdetevi queste opportunità per riprendere, magari con una posa ogni 5 minuti, l’intero transito.

Buon lavoro quindi e se volete sapere quando un pianeta è visibile da una determinata zona della Terra, utilizzate il software gratuito stellarium (vedi ASTROlink) o chiede ad un vostro amico o ad un gruppo di astrofili.

SOLE E LUNA
Ogni fotografo (anche professionista) che vuole iniziare il percorso dell’astrofotografia commette il solito errore: fotografare la Luna. Purtroppo, il fatto che il nostro cervello tende a far diventare più grandi gli oggetti bassi sull’orizzonte ci spinge a pensare che la Luna sia un oggetto grande e quindi facilmente fotografabile con una reflex o addirittura con una compatta. Purtroppo la Luna è piccola e se non avete un obiettivo con almeno 400-500 mm di focale abbandonate ogni speranza di riprende il nostro satellite naturale.
Non possiamo quindi fare nulla? Ovviamente no. E’ sempre possibile riprendere la Luna ambientata in un paesaggio seguendo le stesse regole del pianeta. Subito però si pone un problema. Se esponete correttamente un paesaggio o un soggetto la Luna apparirà sovraesposta (bianca). Purtroppo non ne potete uscire se non utilizzando la doppia esposizione o l’HDR. Di notte, per esporre correttamente un paesaggio avete bisogno di alcuni secondi di posa mentre per la luna bastano frazioni di secondi.
Se avete un obiettivo con focale pari a 400-500 mm allora mettete l’ottica su cavalletto (questa volta stabile, non economico) e grazie al telecomando remoto scattate. A seconda di ISO e diaframmi scegliete il corretto tempo di esposizione.

L'indimenticabile eclisse totale di Sole dell'11 Agosto 1999, ripresa in questo caso da Dachau a 420 mm di focale (full frame).

Le stesse argomentazioni utilizzate per la Luna valgono anche per il Sole. In questo caso ricordatevi di porre di fronte all’obiettivo un apposito filtro solare (chiedete ad un gruppo di astrofili) altrimenti rischiate di perdere la vista guardando nel mirino o il sensore o peggior cosa entrambi.
Un’altra ripresa interessante è l’analemma che si ottiene fotografando (con un grandangolo e senza filtri… suggerisco di non guardare nel mirino della reflex) la posizione del Sole nel cielo, vicino al punto di tramonto o alba nella stessa ora in vari periodi dell’anno. Il risultato finale è quello di un grosso 8 disegnato sul paesaggio scelto per l’ambientazione. Cercate foto dell’analemma su internet: sono veramente uno spettacolo!
Sempre con focali superiori a 400 mm potete riprende il Sole durante un’eclissi totale (senza filtro nel momento della totalità) o parziale (con filtro). Molto bello è riprendere il primo raggio di luce abbagliante dopo una totalità. Lo stesso può essere fatto per l’eclissi totali (e parziali) di Luna. Purtroppo in questo caso i tempi di posa superano il secondo e se non avete obiettivi luminosi o ISO sufficientemente elevati non riuscirete a riprendere la “Luna rossa” a meno di avere la presenza di mosso.
Interessante è la ripresa della Luna quando manca poco o quando è passata da poco la totalità. In questo caso se fate una lunga esposizione (nei limiti del mosso) potete vedere la parte “scura” (ombra) della Luna, mentre con le corte esposizione vedrete la parte “chiara” (penombra). Le due possono poi essere combinate con la tecnica della doppia esposizione o HDR.
È possibile infine anche giocare con la Luna come ha fatto il signor Lauren Laveder anteponendo al nostro satellite naturale un soggetto “bizzarro”.

LE COSTELLAZIONI E LA VIA LATTEA
Passiamo ora alla parte difficile, dove purtroppo gli amici delle fotocamere compatte devono abbandonarci. Si cominciano a riprendere le stelle! Ecco alcuni consigli per gli utilizzatori di reflex:

  • Messa a fuoco: partiamo dalla cosa più semplice! Come mettere a fuoco le stelle? Stando all’infinito basta mettere l’obbiettivo sul simbolo ∞. Errore mai più grave. Per motivi di produzione, il simbolo ∞ posto sugli obiettivi NON corrisponde alla messa a fuoco per punti posti all’infinito. È necessario correggere la messa a fuoco spostandosi di poco da questo punto. Si può osservare la stella (ma va bene anche un lampione molto lontano) nel mirino della reflex o farsi aiutare con la funzione liveview oggi diffusa su quasi tutte le fotocamere digitali.
  • Diaframma: la logica suggerirebbe chiuso per avere maggiore profondità di campo. Purtroppo la luce delle stelle è poca e come vedremo poi voi non potete esporre per lunghi tempi e quindi… aprite il più possibile.
  • ISO: anche in questo caso la logica direbbe ISO bassi… però per gli stessi motivi illustrati nel punto precedente abbiamo bisogno di luce e quindi su con gli ISO!
  • Focale: fisheye o grandangoli. Scordatevi di fare foto al cielo con focali superiori ai 50 mm. Per capire il perché passate al prossimo punto.
  • Tempi di esposizione: dovete regolarvi voi. La sfera celeste ruota e quindi le stelle durante la notte si muovono. Questo produce un effetto mosso sulle vostre pose. Tale effetto sarà maggiore aumentando la focale e/o il tempo di posa. Focali piccole e tempi di posa corti sono l’ideale per avere delle immagini stellari ferme. In ogni caso (indipendentemente dal tempo di esposizione) vi serve un cavalletto stabile e il telecomando per il controllo remoto.
  • Riprendere la Via Lattea? È possibile, almeno quella estiva… le regole sono quelle riportate precedentemente. Dato che la Via Lattea “cade” sull’orizzonte, potete ambientarla mettendo soggetti illuminati (o no per avere l’effetto silhouette) di fronte oppure farla cadere sul mare, monti o laghi. Per avere Via Lattea e paesaggio correttamente esposti si consiglia la tecnica HDR o della doppia esposizione.
  • Se volete avere l’effetto stella sulle stelle più luminose, non potendo chiudere il diaframma potete utilizzare la tecnica del cavo. Prendete una corda molto spessa e formate una croce di fronte al vostro obiettivo fotografico. Riprendete in queste condizioni e vedrete come magicamente i puntini luminosi diventano stelle!

La costellazione di Orione fa capolino dietro l'osservatorio di Sormano, tra velature nuvolose illuminate dall'inquinamento luminoso.

Costellazioni e Via Lattea possono essere o meno ambientate. Decidete voi che taglio dare alla vostra fotografia utilizzando al meglio la vostra fantasia.

LA ROTAZIONE CELESTE

Avete imparato a riprendere stelle e costellazioni? Dimenticatevi tutto quello che avete letto in precedenza. Chiudete il diaframma a piacere, abbassate gli ISO (comunque non sotto i 200-400) ed esponete a piacere fino a qualche minuto di posa. Le stelle daranno il famoso “mosso”? E chi se ne frega! Non muovete la fotocamera e continuate a scattare. Alla fine della nottata otterrete tanti trattini sconnessi. Dateli in pasto al programma StraTrails e come per magia si trasformeranno in rotazioni celesti! Se poi puntate la stella polare vedrete come le strisciate (trail) diventeranno dei perfetti cerchi.

Il polo celeste nord ripreso da Sormano - CO.

 

 

 

 

Suggerimenti:

  • Non fate passare molto tempo tra una posa e l’altra, questo lascerebbe degli spazi neri tra le strisciate.
  • Utilizzate un battery grip se possibile al fine svincolarvi dalle batterie (altrimenti saranno loro a decidere quando finirete la rotazione!).
  • Sommate anche le foto con aerei o satelliti. Potrete sempre toglierli in post produzione con Photoshop!

Anche la rotazione ha bisogno di un’ambientazione e quindi via con la fantasia!!! Per maggiori informazioni si legga l’articolo “La tecnica dello star trail“.

TIME-LAPSE ASTRONOMICI
I Time-lapse sono semplicemente sequenze di immagini montate al fine di creare un video. Se le immagini sono riprese separate da intervalli di tempo superiori a 1/20 secondo allora l’effetto globale è quello di far scorrere il tempo più velocemente. In questo modo potete accelerare il tempo di tramonto o alba o il moto della sfera celeste.

LE COMETE
Anche per le comete valgono le leggi delle stelle. Se una cometa è molto luminosa (raggiungendo una luminosità confrontabile con quella dei pianeti) è possibile ambientarla con un paesaggio al fine di ottenere una bella immagine “natalizia”.

DISEGNARE CON LA LUCE

Ipotetiche strade luminose vi porteranno fino alle stelle...

Avete mai pensato di disegnare con la luce? Quando il tempo di esposizione supera la decina di secondi allora è possibile utilizzare una torcia (meglio se con luce colorata e focalizzata) per disegnare. Questa tecnica, divenuta famosa con Picasso, permette di dar sfogo alla vostra fantasia disegnando cuori, stradine immaginarie o personaggi sul fondo di un paesaggio notturno, magari persino stellato. Ricordatevi che la luce è il vostro inchiostro e quindi spegnete la luce quando non volete disegnare!

IL MONDO DEEP SKY
E cosa dire di nebulose, galassie ed ammassi di stelle? Poco. Purtroppo per riprendere le nebulose (tranne M42) è necessario modificare la fotocamera digitale sostituendo il filtro originale taglia infrarosso con uno a banda più larga. Per le galassie invece è la lunghezza focale a dominare e (tranne M31) sono necessari almeno 800 mm di focale per ottenere qualche dettaglio. Gli ammassi di stelle, così come M42 ed M31 possono essere riprese con la tecnica illustrata nel paragrafo “Le costellazioni e la Via Lattea”.

Come avrete letto non serve una strumentazione molto costosa per muovere i primi passi nel mondo dell’astrofotografia. Molto di quanto scritto lo si impara direttamente sul campo spesso sperimentando anche nuove tecniche, magari “rubati” da ambiti fotografici completamente differenti da quello astronomico. Pensiamo ad esempio alle tecniche Time-lapse e HDR appena entrate nel mondo dell’astrofotografia.
Una volta che avrete sperimentato queste prime tecniche astrofografiche illustrate in questo articolo potrete fare il prossimo step aumentando la vostra focale fino a 300 mm. Per far questo serve una montatura equatoriale motorizzata del costo approssimativo pari a circa 500 euro (anno 2012). Come vedete non ho parlato di telescopi. I telescopi sono due step più avanti… ma diamo tempo al tempo!




Istogramma e stretching dinamico: come ottenere il massimo dalla dinamica del nostro sensore

In ADC: dal mondo analogico a quello digitale abbiamo approfondito il concetto di dinamica, ovvero il numero di livelli tonali a disposizione di un’immagine digitale.

Le DSLR sono in grado oggi di fornire immagini a 14 bit mentre le camere CCD 16. Dato che l’occhio riesce a distinguere solo un range tonale ad 8 bit, perché avere immagini con un numero così elevato di livelli?

Per capirlo dobbiamo introdurre il concetto di istogramma. Ogni fotoelemento del sensore può generare un segnale digitale (proporzionale al numero di fotoni incidenti) che costituisce il tono del pixel. In effetti alcuni astrofotografi tendono a distinguere tra fotoelemento, elemento fisico del sensore ed pixel, ovvero la parte più piccola di un’immagine digitale.

Supponiamo ora di avere un’immagine ad 8 bit, allora ci saranno un certo numero di pixel N0 che avranno tono 0, un certo numero N1 che avranno tono 1, un certo numero N2 che avranno un tono 2 e così via. Se ora rappresentiamo in un grafico i valori N0, N1, N2, … in funzione del tono 0, 1, 2, … otterremo quello che prende il nome di istogramma.

L’istogramma sarà quindi una funzione continua che varia da 0 al massimo numero di toni possibile (255 nel caso di immagini ad 8 bit) come mostrato in figura.

Istogramma dell'immagine di NGC 7000 in Adobe Photoshop CS3

 Supponiamo ora di avere una DSLR in grado di produrre immagini a 14 bit. L’istogramma associato sarà una funzione continua tra 0 e 16383 toni (misurati in ADU). Purtroppo Adobe Photoshop collassa tutto il range tonale in soli 8 bit, quindi utilizzeremo per questo tipo di analisi il software astronomico IRIS. In figura è mostrato un esempio di istogramma a 14 bit.

Istogramma di un'immagine a 14 bit in IRIS

Come si vede dall’immagine il range tonale varia tra 0 e 16383 ADU mentre il segnale (ovvero l’immagine) occupa solo i primi 3000 ADU circa. È possibile pertanto tagliare l’istogramma in modo da limitare il range tonale al solo segnale. In figura è mostrato ad esempio il taglio dell’istogramma ai primi 3000 toni.

Riduzione del range tonale nei dintorni del segnale

Il taglio dell’istogramma può essere ottimizzato ricordando di ottenere un range tonale comunque superiore o uguale a 8 bit. Infatti se limitiamo il range tonale ad un valore inferiore a 8 bit, quello che succede è che l’occhio umano non vede più come continuo il passaggio da un tono di grigio a quello successivo. L’immagine subisce pertanto una specie di discretizzazione tonale che prende il nome di posterizzazione.

Nell’immagine in figura si nota che ci sono un certo numero di pixel con valore intorno ai 300 ADU mentre la maggior parte di essi è compreso tra 700 e 2500 ADU. Il valore 700 ADU rappresenta i pixel del fondo cielo, che a seguito dell’esposizione, dell’inquinamento luminoso, nonché del colore naturale del cielo assumono un valore diverso da 0 ADU (in realtà diverso dal valore dell’offset). I pixel a 300 ADU sono molto probabilmente pixel non funzionanti che quindi sono rimasti spenti dando un valore simile a quello dell’offset. Se limitiamo inferiormente l’istogramma in modo che 0 ADU coincida con 700 ADU otterremmo un fondo cielo nero ed i pixel non funzionanti assumerebbero lo stesso valore in ADU degli altri pixel del fondo cielo.

In figura potete osservare l’istogramma opportunamente tagliato, trasformando quella che era l’immagine a 14 bit sottoesposta in una a 12 bit correttamente esposta.

Istogramma di NGC7000 opportunamente tagliato

Abbiamo parliamo di immagine a 14 bit sottoesposta perché dei 16384 toni possibili, l’immagine effettiva ne utilizzava soltanto 3000. Quindi, se 16383 ADU corrispondono al bianco, l’oggetto più luminoso dell’immagine prima del taglio era un grigio scuro. La nuova immagine invece è correttamente esposta perché il massimo valore assunto in ADU (3000) è molto vicino al colore bianco di un’immagine a 12 bit (4095 ADU) e allo stesso tempo nessun pixel assume un valore tonale superiore a 4095 ADU.

Cosa succede se un pixel ha un valore tonale superiore al range tagliato? Il suo valore tonale viene posto uguale al massimo valore della dinamica. Questo porta ad un accumulo di pixel nella parte destra dell’istogramma che corrisponde ad un’immagine con stelle (o addirittura parti di nebulosa) “bruciate”.

Una volta tagliato l’istogramma è necessario scalarlo in modo che 3001 ADU vengano compressi in soli 256. Ridotta così ad 8 bit, l’immagine può essere elaborata con programmi di fotoritocco come Adobe Photoshop.

Esiste un secondo metodo utile per ottimizzare il range tonale di un’immagine che è noto come stretching dinamico. Questo consiste nello stirare il segnale in modo che questo occupi tutto il range tonale. Un esempio di stretching è mostrato in figura.

Immagine (eccessivamente) stretchata. Il segnale dopo il processo di stretching occupa praticamente tutto il range tonale.

 Come nel caso del taglio di un istogramma con numero di bit superiore ad 8, anche in questo caso l’istogramma stretchato dovrà essere scalato.

La disponibilità di un numero sempre maggiore di livelli permette di ridurre l’effetto dell’inquinamento luminoso sul risultato finale dell’immagine deep sky. Infatti se il range tonale è limitato, dopo pochi secondi o minuti di posa il fondo cielo (ed il soggetto della ripresa) risulteranno essere all’estremo destro dell’istogramma fornendo un’immagine priva di contrasto e dettaglio. Nel caso di sensori ad alta dinamica, sarà possibile ritagliare senza perdere informazioni parti dell’istogramma, fornendo immagini dettagliate e contrastate anche dai cieli inquinati. Questo lo si osserva già oggi confrontando riprese effettuate con DSLR e CCD da centri cittadini.




Collegare una fotocamera ad una montatura con attacco Vixen

Abbiamo visto in Collegare una fotocamera in parallelo con Geoptik GK2” come sia possibile collegare una fotocamera digitale in parallelo ad un telescopio guida attraverso la testa Geoptik GK2. Purtroppo il sistema, indipendentemente dal telescopio guida applicato, risulta pesante e piuttosto costoso. Se siete interessati ad un sistema più semplice, leggero ed economico questo articolo fa per voi. Purtroppo tutto questo andrà a scapito della capacità di guida che permetterà di effettuare immagini solo con obiettivi grandangolari o FishEye.

I pezzi da acquistare sono due: una piccola testa per treppiedi (disponibili anche nel mercato dell’usato, nell’esempio una Velbon) e una barra di tipo Vixen, meglio se piuttosto lunga. Come mostrato in figura la testa deve essere avvitata a metà barra al fine di poterla muovere ottenendo un bilanciamento corretto dell’asse di declinazione. Come adattare la testa al piano della sbarra dipende dalla vostra fantasia. Lasciatevi quindi andare con trapani e saldatori: buon lavoro!

Il sistema testa fotografica + barra tipo Vixen + montatura equatoriale SkyWatcher EQ3.2 permette di guidare facilmente una Canon EOS 40D con obiettivo FishEye 8 mm T.L.K.

Per visualizzare le immagini astronomiche riprese in questa configurazione fate riferimento alla sezione ASTROfotografia.




Collegare una fotocamera in parallelo con Geoptik GK2

La fotografia in parallelo, dopo la ripresa a camera fissa, è una delle tecniche più semplici utilizzate dal neofita per ottenere immagini gradevoli di costellazioni e nebulose a grande campo.

Questa consiste nel collegare la fotocamera digitale con relativo obiettivo in parallelo al telescopio di guida (per maggiori informazioni si veda la sezione ASTROfotografia). Ed è proprio il collegamento fotocamera – telescopio la parte che infine si dimostra essere la più critica.

Infatti quello che uno vorrebbe è una testa mobile in grado di sopportare qualche chilogrammo collegata solidamente agli anelli del telescopio di guida.

Alcuni telescopi come gli Schmidt Cassegrain (come ad esempio il Celestron C8) o Ritchey-Chrétien (GSO RC8) prevedono il collegamento della fotocamera tramite piggy-back.

Questo sistema economico NON prevede però nessuna regolazione della fotocamera e quindi non è sempre detto che telescopio e obiettivo risultano perfettamente allineate. Inoltre questo sistema non funziona su rifrattori, newton e tutti gli altri schemi ottici.

Infatti, coloro che posseggono questi tipi di telescopi spesso fanno riferimento alla testa micrometrica tipo Witty 1 della Baader Planetarium collegata o al posto del cercatore o agli anelli del telescopio di guida tramite opportune connessioni artigianali.

Questo tipo di testa (testata da ASTROtrezzi) risulta però instabile se si utilizzano obiettivi molto pesanti, cedendo in altezza sotto il peso della strumentazione.

Le comuni teste “fotografiche” invece allontanano troppo la fotocamera dal telescopio aumentandone il braccio (e quindi il peso necessario per contrappesare il sistema) creando problemi di inseguimento (il telescopio guida deve essere il più vicino possibile all’obiettivo di ripresa).

L’alternativa migliore è quella di utilizzare la testa astronomica Geoptik GK2. Questa consiste praticamente in una testa altazimutale con collegamento a coda di rondine tipo Vixen pensata per sostenere piccoli telescopi di guida (fino a 4 kg). Con una piccola modifica vedremo come la Geoptik GK2 può essere facilmente adattata per riprese astrofotografiche in parallelo.

Acquistate da un fotografo oppure on-line (per esempio www.fotocolombo.it) l’aggancio rapido Manfrotto modello 394.

A questo punto, svitate il collegamento della Geoptik GK2 a coda di rondine tipo Vixen ed avvitate l’aggancio rapido Manfrotto (basetta) al piano della testa come mostrato in figura.

Il collegamento tra l’aggancio rapido Manfrotto 394 e la testa Geoptik GK2

La testa Geoptik deve essere a sua volta avvitata ad una barra metallica, preferibilmente in Alluminio per non appesantire troppo la struttura. Il sistema barra più testa dovrà essere fissata agli anelli del telescopio guida. Nel caso in cui questo sia uno SkyWatcher o simili, è possibile far passare la vite attraverso i fori con filettatura fotografica presenti sugli anelli bucando se necessario la foderatura interna. Il collegamento testa – asta – anelli del telescopio è mostrata in figura.

Il collegamento della testa Geoptik GK2 agli anelli del telescopio di guida

Un telescopio di modeste qualità ottiche, economico e ideale per la ripresa in parallelo è il rifrattore acromatico SkyWatcher 70mm f/7.1. Il sistema Geoptik GK2 – rifrattore guida – fotocamera digitale Canon EOS 40D – obiettivo fotografico è supportato perfettamente da una montatura economica come la SkyWatcher EQ3.2 (vedi figura).

Sistema per fotografia in parallelo: telescopio rifrattore acromatico SkyWatcher 70 mm f/7.1 + testa Geoptik GK2 + fotocamera Canon EOS 40D + obiettivo FishEye T.K.L. 8 mm, il tutto su montatura SkyWatcher EQ3.2 motorizzata.

 I risultati ottenuti con questa strumentazione sono riportati nella sezione ASTROfotografia.




ADC: dal mondo analogico a quello digitale

Il segnale di carica, eventualmente trasportato lungo il sensore come nel caso dei CCD, viene convertito in un segnale analogico di tensione e quindi amplificato (si veda l’articolo La generazione del segnale: CCD e CMOS). Tale segnale avrà un’ampiezza proporzionale al numero di elettroni prodotti in ciascun fotoelemento e quindi al numero di fotoni “cosmici” che hanno raggiunto lo stesso durante il tempo di esposizione. Dato che il fenomeno di conversione fotone/elettrone è di tipo statistico quello che succede è che il valore dell’ampiezza del segnale può assumere infiniti valori nell’intorno di quello che è il valore atteso. Un segnale del genere non può essere analizzato da un computer. Si rende pertanto necessaria una traduzione dal “linguaggio” analogico ad uno di tipo “digitale”. Il computer o più precisamente il calcolatore, è in grado di compiere operazioni su numeri interi espressi in sistema binario (ovvero sequenze di uni e zeri). Questo perché gli operatori logici di un calcolatore si basano su interruttori che possono assumere unicamente due condizioni: circuito aperto (1) e circuito chiuso (0).

Lo strumento in grado di convertire un segnale analogico in un segnale digitale, ovvero trasformare un numero con infinite cifre in uno intero è detto Analog to Digital Converter (ADC).

Nel caso dei sensori CCD abbiamo un solo ADC posto dopo l’output amplifer, mentre nel caso di sensori CMOS abbiamo un ADC per ogni amplificatore presente.

A questo punto maggiore sarà il numero di cifre che l’ADC riuscirà a generare, maggiore sarà la qualità del segnale digitalizzato e quindi dell’immagine finale. Ovviamente a parità di capacità da parte del fotoelemento di accumulare carica elettrica

Questo è vero a parità di capacità da parte del fotoelemento di accumulare la carica elettrica. Il rapporto tra il massimo ed il minimo valore di carica accumulabile in ciascun fotoelemento prende il nome di range dinamico. Un ADC deve essere in grado di produrre un segnale digitale sensibile a tutti i possibili valori del range dinamico. Il valore discreto assunto da quest’ultimo sarà espresso in Analog to Digital Unit (ADU) e spazia da 256 a 65535.

Ma cosa determina questi numeri?

Abbiamo discusso prima di come il segnale in uscita dall’ADC dovrà presentarsi in una forma adatta ad essere processata da un calcolatore ovvero in codice binario. A questo punto supponiamo di avere a disposizione una sequenza formata da 8 segnali acceso/spento (ovvero 1 o 0) per ogni ampiezza digitalizzata. Questo significa che per valore pari a 0 Volt dell’ampiezza analogica avremo un segnale digitale della forma 00000000, mentre per il valore massimo di tensione assunto dall’ampiezza avremo 11111111. Se traduciamo questi due numeri in decimale avremo che 00000000 corrisponderà a 0 (ovviamente) mentre 11111111 corrisponderà a 255. Ecco perché si è detto che gli ADU possono assumere 256 valori (ovvero numeri interi compresi tra 0 e 255).

Se ora usiamo 9 segnali acceso/spento avremo un segnale digitale compreso tra 000000000 e 111111111 che in decimale è 511 ovvero una range in ADU pari a 512 valori.

Il numero di segnali acceso/spento ovvero il numero massimo di cifre del numero binario digitalizzato definisce il bit di conversione dell’ADC. Quindi nel primo esempio avevamo un ADC a 8 bit, mentre nel secondo caso a 9 bit. C’è un legame tra il numero di bit ed i possibili valori generati dall’ADC N:

N = 2bit

quindi:

  • ADC ad 8 bit – 256 valori (0 – 255 ADU)
  • ADC a 10 bit – 1024 valori (0 – 1023 ADU)
  • ADC a 14 bit – 16384 valori (0 – 16383 ADU)
  • ADC a 16 bit – 65536 valori (0 – 65535 ADU)

La capacità di un fotoelemento di raccogliere elettroni è noto come gamma dinamica. In particolare la gamma dinamica è definita come il rapporto tra il massimo ed il minimo numero di elettroni accumulabile in un fotoelemento. Ad esempio se la massima capacità di accumulo delle cariche di un fotoelemento è 5000 elettroni e la minima è 5 elettroni, la gamma dinamica è 1’000:1.

La gamma dinamica determina così il numero di bit che l’ADC deve avere per digitalizzare correttamente il segnale. Se abbiamo un sensore con gamma dinamica 1000:1 avremo bisogno di un ADC ad almeno 10 bit. Bisogna a questo punto fare attenzione che non è l’ADC a determinare la dinamica di un sensore ma viceversa. A ciascun valore discreto della gamma dinamica, correttamente digitalizzato dall’ADC è associabile un tono di grigio. Si parla quindi di gamma tonale come del numero di possibili toni necessari per descrivere la gamma dinamica del sensore.

Riassumendo quindi un sensore può essere sensibile ad una maggiore differenza luce-ombre a seconda della propria gamma dinamica. A parità di gamma dinamica però il segnale può venire digitalizzato correttamente o con un ADC in grado di fornire valori (livelli) inferiori alla gamma dinamica. Nel primo caso si parla di gamma tonale adeguata, nel secondo caso invece si ha una scarsa gamma tonale.

Assunta una scelta dell’ADC proporzionata alla gamma dinamica del sensore, il numero di bit di un ADC, e quindi il range di valori o livelli di luminosità possibili a seguito della digitalizzazione del segnale, definisce il range tonale di un sensore. Un’immagine ad 8 bit è in grado pertanto di distinguere 256 toni di grigio, una a 16 bit 65536 e così via.

Ma quanti toni vede l’occhio umano? Non abbiamo un numero preciso ma si stima che un occhio umano sia in grado di distinguere circa 10’000’000 di colori. Pertanto sarebbe necessario un ADC a 24 bit (16’777’216 livelli) per digitalizzare correttamente il segnale.

In “Costruire un’immagine a colori” vedremo come un’immagine a colori da 24 bit può essere “scomposta” a partire da tre immagini in scala di grigio da 8 bit. In termini pratici quindi un occhio umano può distinguere al massimo 256 toni di grigio.

Perché quindi le camere CCD in bianco e nero producono immagini a 16 bit? La soluzione sta nella possibilità, tramite tecniche di elaborazione delle immagini astronomiche di “comprimere” una dinamica molto ampia fornita dai sensori CCD in un’immagine a 8 bit. Questo permetterebbe ad esempio di avere nella stessa immagine dettagli di luminosità estremamente diversa. Per maggiori dettagli si faccia riferimento all’articolo Istogramma e stretching dinamico: come ottenere il massimo dalla dinamica del nostro sensore.




La generazione del segnale: CCD e CMOS

Nell’articolo “Il Fotoelemento: Fotodiodo e Photogate” abbiamo visto come fotodiodi e photogate vengono naturalmente utilizzati come mezzo di conversione fotone/elettrone nella maggior parte delle camere commerciali, siano esse CCD o semplici DSLR. Il problema della scarsa dimensione della regione di svuotamento dei fotodiodi è stata recentemente risolta applicando delle microlenti. Queste sono in grado di convogliare gran parte della luce verso la regione fotosensibile del fotodiodo. Analogamente anche i photogate sono stati ottimizzati utilizzando elettrodi sempre più sottili oppure facendo incidere i fotoni dal lato opposto (si parla di sensori back-illuminated).

Supponendo di esporre il fotoelemento per un determinato periodo di tempo alla radiazione luminosa, noto come tempo di esposizione, quello che otterremo è una certa quantità di carica accumulata sulle armature del nostro “ipotetico” condensatore costituito dalla distribuzione di carica ai bordi della regione di svuotamento.

In un sensore abbiamo milioni di fotoelementi, ciascuno con la sua carica accumulata durante il tempo di esposizione. Come fare ora a processare tutti queste informazioni fondamentali per ricostruire l’immagine originale? Ci sono due strategie e quindi di sensori che prendono il nome di Charge Coupled Device (CCD) e Complementary Metal Oxide Semiconductor (CMOS).

CHARGE COUPLED DEVICE

Il CCD è un fotoelemento a cui vengono applicati due, tre o quattro elettrodi in polisilicio(si parla di CCD a due, tre o quattro fasi). Tali elettrodi servono per trasportare attraverso opportuni potenziali la carica elettrica depositata da una parte all’altra del fotoelemento, nonché da un fotoelemento all’altro.

L'immagine riassume il trasporto della carica all'interno del singolo fotoelemento. La carica accumulata in prossimità del primo elettrodo (A) viene mano a mano spostata verso l'ultimo elettrodo attraverso una serie di step (B-C-D-E). Con la stessa procedura sarà poi possibile passare la carica al fotoelemento confinante (F), iniziando quello che è il processo di trasporto della carica in un sensore CCD.

E’ così possibile sequenzialmente spostare la carica accumulata da un pixel all’altro permettendo a questa di percorrere lunghe distanze con perdite che si riducono a meno dello 0.00001%. Difetti nel reticolo cristallino dei fotoelementi possono produrre perdite maggiori ed è per questo che i CCD sono molto sensibili ai danni da radiazione nucleare.

Il trasporto avviene seguendo linee verticali di fotoelementi (VCCD). L’ultima linea orizzontale di fotoelementi, grazie ad uno spessore metallico, è schermata dalla luce (HCCD). La carica di tutti i fotoelementi VCCD vicini all’HCCD viene trasferita a quest’ultimo che a sua volta la muoverà orizzontalmente verso l’output amplifer, un amplificatore che amplificherà il segnale di carica trasformandolo in un segnale analogico (tensione).

Attraverso questo schema alla fine i valori di carica di ciascun fotoelemento verrà trasformato in un segnale. Essendo la lettura sequenziale non è possibile leggere il valore di carica di un determinato fotoelemento senza leggere prima tutto il sensore. Abbiamo tre tipi di CCD a seconda di come il segnale venga inviato all’output amplifer:

  • Full frame: è il sistema “classico” in cui i fotoelementi si comportano sia da luoghi di accumulo che da luoghi di trasporto. Proprio per questo motivo i sensori CCD di tipo Full frame devono essere ricoperti da un otturatore meccanico al termine della ripresa. Il vantaggio ottenuto è un aumento della superficie fotosensibile e della capacità di accumulo delle cariche.
  • Interline transfer: in questo caso abbiamo che il fotoelemento non coincide con il luogo di trasporto della carica. In tale tipo di CCD ciascun fotoelemento viene duplicato: uno sarà l’elemento fotosensibile mentre l’altro, posto a lato, verrà opportunamente schermato dalla radiazione luminosa e servirà per il trasporto di carica. Alla fine dello scatto la carica accumulata viene così trasferita dal fotoelemento fotosensibile a quello schermato e quindi via via fino all’output amplifer. Questo permette di ridurre i tempi di attesa tra uno scatto e l’altro nonché la possibilità di fare a meno dell’otturatore meccanico. Il tutto purtroppo a scapito di una diminuzione della superficie fotosensibile.
  • Frame transfer: in questo caso il fotoelemento coincide con il luogo di trasporto, ma il segnale di carica invece di essere inviato all’HCCD e quindi all’output amplifer viene “copiato” su un duplicato dell’intero sensore schermato però dalla radiazione luminosa. Questo al fine di diminuire i tempi di amplificazione, responsabili principali del tempo di elaborazione del segnale di carica dopo uno scatto di ripresa. A differenza dell’interline transfer il frame transfer ha una superficie fotosensibile maggiore a scapito però di un maggiore consumo di spazio e potenza elettrica assorbita.

Schema di trasporto dei diversi tipi di CCD

Infine l’output amplifer trasformerà il segnale di carica in segnale di tensione amplificato. Questo verrà successivamente digitalizzato tramite un opportuno ADC. Per maggiori dettagli si faccia riferimento all’articolo ADC: dal mondo analogico a quello digitale.

COMPLEMENTARY METAL OXIDE SEMICONDUCTOR

Nel CMOS ogni elemento fotosensibile in Silicio (fotodiodo o photogate) è affiancato dal sistema di formazione e amplificazione del segnale di tensione con successiva digitalizzazione attraverso un opportuno ADC. Questo comporta la presenza di tre, quattro o cinque transistor oltre ad una seria di microcavi che connettono ciascun fotoelemento. A differenza del CCD, l’accesso è ad indirizzo e non sequenziale. Il vantaggio è la possibilità di accedere ad un determinato fotoelemento senza dover per forza “leggere” l’intero sensore. Esistono due tipi di CMOS legati non tanto al sistema di trasporto del segnale quanto al processo di amplificazione:

  • Passive Pixel Sensor (PPS): è il sistema più semplice costituito da un solo amplificatore per colonna di fotoelementi. Questo permette di ridurre il numero di transistor a uno solo aumentando pertanto la superficie sensibile alla radiazione luminosa a scapito di un aumento del rumore a seguito della presenza di un maggior numero di cavi di collegamento (bus).
  • Active Pixel Sensor (APS): è il tipo di CMOS più diffuso dove ogni fotoelemento è affiancato da un amplificatore. A differenza dei PPS il numero di bus è notevolmente ridotto anche se i transistor nel fotoelemento aumentano da uno fino ad un massimo di cinque.

Grazie alle basse tensioni di funzionamento i CMOS consumano fino a 10 volte meno dei CCD a scapito di un aumento del rumore termico. Per maggiori dettagli si legga l’articolo Guida all’astrofotografia digitale.

Oggi sensori con tecnologia CMOS sono utilizzati principalmente per le DSLR commerciali grazie ai bassi consumi (importanti per la trasportabilità della camera, riducendo il consumo di batterie) e prezzi di produzione. Anche le webcam economiche sfruttano spesso sensori di tipo CMOS generalmente più veloci dei CCD.

Sensori con tecnologia CCD sono invece i più diffusi nel mondo dell’astrofotografia digitale, grazie alla loro maggiore capacità di raccogliere e convertire la radiazione luminosa mantenendo basso il rumore (o se volete alto il rapporto segnale/rumore).




Sorgenti di luce

Abbiamo visto in “Un Universo di fotoni come la luce può essere descritta in termini di onde elettromagnetiche o fotoni. In questo documento ci occuperemo invece della caratterizzazione delle sorgenti di luce. Se puntiamo un telescopio verso il cielo ci rendiamo subito conto che sono solo due le sorgenti di luce dell’Universo alla portata dei nostri occhi, CCD o reflex digitali: stelle e nebulose (ad esclusioni di quelle oscure). La terza sorgente di luce, le galassie, sono in realtà una elegantissima miscela delle altre due.

Sebbene possano sembrare sorgenti identiche di luce ad occhio nudo, stelle e nebulose sono molto differenti. Le prime presentano uno spettro continuo mentre le seconde uno spettro discreto o di emissione. Questo significa che mentre le stelle emettono onde elettromagnetiche con valori continui di λ, il cui valore più probabile determina il colore della stella, le nebulose emettono solo un insieme discreto di lunghezze d’onda.

Se osservata attraverso un reticolo di diffrazione la nebulosa M42 mostra uno spettro discreto (emissione) dove le linee principali sono la Hα (656 nm) e la OIII (501 nm). Le stelle invece hanno uno spettro continuo come mostrato nel visibile in figura.

Tale differenza ha origine nel modo in cui stelle e nebulose generano la luce come descritto dalle tre leggi di Kirchhoff:

  • Un gas o un solido incandescente ad alta pressione produce uno spettro continuo,
  • Un gas incandescente a bassa pressione produce uno spettro di emissione,
  • Uno spettro continuo osservato attraverso un gas a bassa densità e a bassa temperatura produce uno spettro di assorbimento.

In questa sezione di Astrofotografia Digitale trascureremo la terza legge di Kirchhoff che, malgrado sia fondamentale in ambito spettroscopico, non gioca un ruolo essenziale nella comprensione del funzionamento di sensori a semiconduttori quali CMOS e CCD. Per maggiori dettagli riguardo la caratterizzazione di spettri continui, di emissione ed assorbimento rimandiamo alla sezione Spettroscopia Astronomica di ASTROtrezzi.




Un Universo di fotoni

I successi ottenuti dalle teorie ondulatorie della luce, culminate con la formulazione dell’Elettrodinamica Classica, portarono gli scienziati dell’Ottocento a ritenere praticamente chiuso il secolare problema della natura della luce.

La luce che ci arriva dalle stelle è quindi rappresentata da un insieme di onde dette elettromagnetiche che dopo, aver viaggiato nello spazio interstellare vuoto, vengono raccolte dai nostri telescopi. Ciascuna onda elettromagnetica ha una determinata lunghezza d’onda λ e l’insieme di tutte queste onde costituisce quella che noi chiamiamo luce bianca. In particolare l’intervallo di lunghezze d’onda comprese tra 400 e 700 nm costituisce quella parte di luce visibile con i nostri occhi nota appunto come luce visibile. Ovviamente quest’ultima è solo una piccola parte di tutte le lunghezze d’onda che costituiscono la luce, la cui totalità prende il nome di spettro elettromagnetico.

L’arcobaleno è un fenomeno naturale dove la luce proveniente dal Sole viene scomposta in tutte le sue componenti mostrando ai nostri occhi la parte di luce visibile dello spettro elettromagnetico.

Lo spettro elettromagnetico, ovvero la scomposizione della luce bianca nelle sue componenti “colorate”, è ben visibile in un arcobaleno.

Qui sotto riportiamo la classificazione delle onde in funzione della loro λ:

  • Onde radio: > 1’000’000’000 nm
  • Microonde: 1’000’000 – 1’000’000’000 nm
  • Infrarossi: 700 – 1’000’000 nm
  • Luce visibile: 400 – 700 nm
  • Ultravioletto: 100 – 400 nm
  • Raggi X: 0.001 – 100 nm
  • Raggi γ: < 0.001 nm

In questo e nei futuri articoli considereremo solamente la luce visibile ed il vicino infrarosso/ultravioletto, uniche radiazioni in grado di essere rivelate dai sensori CMOS e CCD commerciali.

Alla luce di quanto detto le stelle sono quindi sorgenti di onde elettromagnetiche. La visione ondulatoria della luce venne però messa in dubbio all’inizio del Novecento quando una teoria appena nata, la Meccanica Quantistica, prevedeva che la luce presentasse sia aspetti di natura ondulatoria così come descritti dall’Elettrodinamica Classica, sia aspetti di natura corpuscolare. Come è possibile che la luce si comporti in modi talmente differenti? Questo non è chiaro e prende il nome di dualismo onda corpuscolo: la luce è sia onda che particella (nota come fotone).

La visione quantomeccanica dei “fenomeni luminosi” pare quindi mettere d’accordo tutti ma nello stesso tempo apre una voragine filosofica sulla natura ultima della luce.

Il dualismo onda corpuscolo si riflette ovviamente anche sulla nostra visione dell’Universo che quindi ora è duplice. Le stelle sono pertanto sia delle sorgenti di onde elettromagnetiche che delle generatrici di fotoni.

Quando la luce di una stella raggiunge lo specchio primario del vostro telescopio può pertanto essere riflessa come un’onda del mare che sbatte sul molo oppure, in chiave corpuscolare, i fotoni che la costituiscono possono rimbalzare sulla superficie del vostro specchio come palline da ping pong.

In questo caso entrambe le descrizioni vengono a coincidere. Non sempre è così. Infatti l’interferenza tra due onde elettromagnetiche è descrivibile solo in termini ondulatori, mentre l’effetto fotoelettrico alla basa della rivelazione della luce da parte di sensori CMOS e CCD è descrivibile solo in termini corpuscolari.

Ma se ciascuna onda elettromagnetica può essere caratterizzata da una lunghezza d’onda λ, come possiamo caratterizzare il fotone? La domanda può essere riformulata nel seguente modo: cosa caratterizza una particella in moto? La risposta è la massa e la velocità, ovvero in una parola: l’energia. Ogni fotone può avere un’energia che i fisici esprimono con un’unità di misura detta elettronvolt (eV). Qui sotto riportiamo la classificazione dei fotoni in funzione delle loro energie E:

  • Onde radio: < 0.00000124 eV
  • Microonde: 0.00000124 eV – 0.00124 eV
  • Infrarossi: 0.00124 – 1.7 eV
  • Luce visibile: 1.7 – 3.1 eV
  • Ultravioletto: 3.1 – 12.4 eV
  • Raggi X: 12.4 – 1’240’000 eV
  • Raggi γ: > 1’240’000 eV

Come potete vedere quindi l’Astrofotografia Digitale si occupa della rivelazione di fotoni con energia dell’ordine di qualche eV.

Nell’anno 1900, un fisico tedesco di nome Max Planck, formulò una legge in grado di associare ad un fotone di energia E la corrispettiva lunghezza d’onda λ ovvero un ponte tra il mondo corpuscolare e quello ondulatorio. La legge di Planck è data da:

E = hc/λ

Dove h è una costante nota come costante di Planck e c è la velocità della luce nel vuoto. In unità di misura “comode” per l’astrofotografia digitale il prodotto hc è uguale a circa 1240 eV nm.

Per un astrofilo a questo punto la pioggia non è solo fenomeno di sventura ma, se si tratta di pioggia di fotoni e non d’acqua, può essere un piacere per occhi, CCD e fotocamere digitali.