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Via Lattea – 11/05/2013

Telescopio o obiettivo di acquisizione (Imaging telescope or lens): Samyang FishEye 8mm f/3.5

Camera di acquisizione (Imaging camera): Canon EOS 40D [5.7 μm]

Montatura (Mount): iOpron StarTracker

Telescopio o obiettivo di guida (Guiding telescope or lens): non presente (not present)

Camera di guida (Guiding camera): non presente (not present)

Riduttore di focale (Focal reducer): non presente (not present)

Software (Software): IRIS + Adobe Photoshop CS3/CS6

Accessori (Accessories): non presente (not present)

Filtri (Filter):  non presente (not present)

Risoluzione (Resolution): 3888 x 2592 (originale/original), 3467 x 2240 (finale/final)

Data (Date): 11/05/2013

Luogo (Location): Saint-Barthélemy – AO, Italia (Italy)

Pose (Frames): 28 x 120 sec at/a 800 ISO

Calibrazione (Calibration): non presente (not present)

Fase lunare media (Average Moon phase): 2.8%

Campionamento (Pixel scale):  circa/about 80325 arcsec / 594 pixel = 135.23 arcsec/pixel

Focale equivalente (Equivalent focal lenght): 9 mm

Note (note): L’immagine dell’Osservatorio è stata ripresa all’alba e successivamente sovrapposta. / The picture of the observatory has been taken during the sunrise and over-layered to the night ones.

Via Lattea - 11/05/2013

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Nube di Rho Ophiuchi – 11/05/2013

Telescopio o obiettivo di acquisizione (Imaging telescope or lens): Canon EF 100-400mm f/5.6 L IS USM a/at 170 mm

Camera di acquisizione (Imaging camera): Canon EOS 500D (Rebel T1i) [4.7 μm]

Montatura (Mount): SkyWatcher NEQ6

Telescopio o obiettivo di guida (Guiding telescope or lens): Rifrattore (reftactor) SkyWatcher 70mm f/7

Camera di guida (Guiding camera): Magzero MZ-5m B/W [5.2 μm]

Riduttore di focale (Focal reducer): non presente (not present)

Software (Software): IRIS + Adobe Photoshop CS3/CS6

Accessori (Accessories): non presente (not present)

Filtri (Filter):  non presente (not present)

Risoluzione (Resolution): 4752 x 3168 (originale/original), 4698 x 3104 (finale/final)

Data (Date): 11/05/2013

Luogo (Location): Saint-Barthélemy – AO, Italia (Italy)

Pose (Frames): 20 x 300 sec at/a 800 ISO

Calibrazione (Calibration): 10 x 300 sec dark, 100 bias, 100 flat.

Fase lunare media (Average Moon phase): 2.8%

Campionamento (Pixel scale): 7290.56 arcsec / 1276.41 pixel = 5.7118 arcsec/pixel

Focale equivalente (Equivalent focal lenght): 170 mm

Note (note):

Nube di Rho Ophiuchi - 11/05/2013

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Come ridurre i diametri stellari

Quando si muovono i primi passi nel mondo dell’astrofotografia, si viene colti dall’ossessione di riprendere il numero maggiore di stelle. Questo perché i primi risultati, spesso deludenti, mostrano qualche stella spesso mossa o sfuocata circondata da un immenso cielo nero.

Con il passare del tempo però la tecnica migliora e grazie ad astroinseguitori e montature più o meno computerizzate il problema del numero di stelle diventa secondario. Infatti i tempi di esposizione si allungano così tanto da raggiungere il livello in cui è l’inquinamento luminoso a determinare il numero di stelle presenti in una ripresa astronomica.

La qualità di un’immagine astronomica non dipende però solo dal numero di stelle riprese ma dalla loro qualità. In che senso? Supponiamo di dover riprendere una nebulosa debole immersa in un campo di stelle luminose. Dopo pochi secondi di posa i pixel colpiti dalla luce delle stelle andranno subito in saturazione raggiungendo il loro massimo livello di luminosità. Della nebulosa invece nessuna traccia, essendo molto debole. Cosa si fa quindi? Si aumenta il tempo di posa. In questo modo la nebulosa comincia ad apparire e i pixel già saturi cominciano a trasbordare passando della carica ai pixel vicini. Il risultato netto è quello che le stelle si espandono aumentando il loro diametro. Ecco quindi che aumentando la posa avremo una bella nebulosa con sovrapposto dei “palloni” bianchi (le stelle sature ed espanse).

In questo articolo descriveremo alcune tecniche da effettuare in post produzione (ovvero dopo aver applicato le opportune tecniche di calibrazioni delle immagini e somma) al fine di ridurre i diametri stellari (vedi Figura 1).

Fig. 1: Immagine della nebulosa Cono con e senza la riduzione dei diametri stellari.

In particolare abbiamo analizzato quattro tra le più note tecniche di riduzione dei diametri stellari con Photoshop nel mondo dell’astrofotografia digitale: Astronomy Tool, Traslazione, Filtro Minimo, Peter Shah.

Astronomy Tool e Peter Shah

Queste due tecniche per la riduzione dei diametri stellari sono una serie di operazioni da effettuare con Photoshop raggruppate in un’unica azione scaricabile da internet. In particolare queste azioni sono state testate su Photoshop CS2 al fine di evitare problemi di incompatibilità con le versioni più recenti del programma.

Astronomy Tool è un’insieme di azioni a pagamento acquistabili per 21.95 $ (aggiornato a Maggio 2013) dal sito http://www.prodigitalsoftware.com/Astronomy_Tools_For_Full_Version.html . Una volta scaricate le azioni in un unico file .ATN è necessario copiarlo ed incollarlo in una cartella (ad esempio create ed incollate il file nella directory C:\Programmi\Adobe\Adobe Photoshop CS2\Azioni). A questo punto aprite Photoshop CS, cliccate su Finestra → Azioni e quindi cliccando sull’icona mostrata in Figura 2 andate su Carica Azioni e selezionate il file .ATN relativo a Astronomy Tool.

Fig. 2: come caricare le azioni di Photoshop CS

A questo punto aprite l’immagine con le stelle da ridurre e cliccando sull’azione “Make Stars Smaller”, Photoshop CS farà tutto il lavoro per voi riducendo i diametri stellari. Applicate pure l’azione più volte finché l’immagine finale risulterà di vostro gradimento. L’azione Peter Shah scaricabile all’indirizzo http://stargazerslounge.com/index.php?app=core&module=attach&section=attach&attach_id=11811 , è gratuita e progettata per Photoshop CS. La procedura di installazione è la stessa appena descritta per Astronomy Tool ma in questo caso l’azione si chiama “StarRemoving”. Purtroppo questa funziona solo su versioni di Photoshop CS in lingua inglese. Se volete farla funzionare su versioni di Photoshop CS in lingua italiana scrivete a davide@astrotrezzi.it .

Traslazione

Il metodo della traslazione dei dischi stellari consiste in una serie di operazioni questa volta non automatizzate in un’azione dedicata ma da eseguire una dopo l’altra nell’ordine qui indicato:

  • Aprite l’immagine con le stelle da ridurre con Photoshop CS
  • Cliccare su Selezione → Intervallo Colori. Impostate il menù seleziona su luci e quindi cliccate su OK. In questo modo verranno selezionati tutti i dischi stellari ed alcune regioni estremamente luminose del profondo cielo (non importa, lasciatele o deselezionatele).
  • Cliccate su Selezione → Modifica → Arrotonda. Inserite il valore 1 e cliccate su OK.
  • Cliccate su Selezione → Modifica → Espandi. Inserite il valore 1 e cliccate su OK.
  • Cliccate su Selezione → Modifica → Bordo. Inserite il valore 4 e cliccate su OK. A questo punto la selezione dovrebbe essere rappresentata da un cerchio intorno a ciascuna stella dell’immagine. In caso contrario provate a impostare valori più altri.
  • Cliccate su Modifica → Copia
  • Cliccate su Modifica → Incolla creando così un nuovo livello.
  • Nella finestra dei livelli (se non l’avete cliccate su Finestra → Livelli) andate sul nuovo livello e impostate come metodo di fusione Scurisci.
  • Cliccate su Livello → Duplica Livello. Cliccate OK
  • Ripetete il punto precedente altre due volte in modo da generare quattro livelli con le stelle oltre all’immagine di partenza (Sfondo).
  • A questo punto andate su ognuno di questi quattro livelli e spostateli utilizzando le frecce della tastiera rispettivamente su, giù, destra e sinistra di una stessa quantità (l’ideale è fare un pixel alla volta).
  • Visualmente dovreste vedere una sensibile riduzione dei dischi stellari. Cliccate infine su Livello → Unico Livello. Questo appiattirà tutti i livelli sull’immagine di sfondo.
  • Salvate l’immagine così ottenuta. Se necessario ripetete tutta la procedura più volte.

Filtro Minimo

La tecnica della riduzione dei dischi stellari utilizzando il filtro Minimo è una delle più diffuse tra gli astrofotografi professionisti. Come per il metodo della traslazione, anche in questo caso non abbiamo un’azione di Photoshop CS e pertanto bisognerà compiere manualmente la serie di operazioni riportate qui sotto:

  • Aprite l’immagine con le stelle da ridurre con Photoshop CS
  • Cliccate su Selezione → Intervallo Colori. Selezionate il colore con lo strumento contagocce e impostate la tolleranza su 200. In questo modo verranno selezionate tutte le stelle e le regioni deepsky particolarmente intense (non importata, lasciatele o deselezionatele). Cliccate quindi su OK.
  • Cliccate su Selezione → Modifica → Espandi, inserite il valore 4 e cliccate su OK.
  • Cliccate su Selezione → Modifica → Sfuma, inserite il valore 2 e cliccate su OK. In questo modo dovremmo avere una selezione circolare intorno ad ogni stella dell’immagine.
  • Cliccate su Filtro → Altro → Minimo. Ponete raggio pari a 1 pixel e cliccate su OK. A questo punto dovreste vedere già una diminuzione del diametro stellare. A questo punto però dobbiamo ridurre leggermente l’effetto del filtro. Per fare questo,
  • Cliccate su Modifica → Dissolvi Minimo. Portiamo il cursore su 50% e cliccate su OK.
  • Salvate l’immagine così ottenuta. Ripetete più volte tutta la procedura finché il diametro stellare non sarà di vostro piacimento.

CONFRONTO TRA I VARI METODI

Abbiamo considerato l’immagine della nebulosa Cono scattata da ASTROtrezzi ( https://www.astrotrezzi.it/?p=666 ) applicando i quattro metodi di riduzione dei diametri stellari appena illustrati al fine di valutarne l’efficacia e la qualità. In Figura 3 è illustrato il risultato di questo test.

Fig. 3: Confronto tra l'applicazione dei quattro metodi illustrati in questo articolo per la riduzione dei diametri stellari.

La prima immagine rappresenta una regione di 400 x 400 pixel dello scatto originale. Si può osservare come la nebulosa sia ben visibile ma le stelle risultato sature e abbastanza dilatate. La seconda immagine è stata invece ottenuta applicando 3 volte l’azione Astronomy Tool. La nebulosa mantiene una certa morbidezza mentre la riduzione dei dischi stellari si nota anche se in modo non del tutto evidente. Nella terza immagine si è utilizzato invece il metodo della traslazione. La riduzione è più efficace di quella ottenuta con Astronomy Tool a patto di aumentare il rumore dell’immagine nonché modificare la forma degli spikes che presentano ora una leggera interruzione. La quarta immagine è stata ottenuta applicando il metodo del filtro minimo tre volte. In questo caso il rumore dell’immagine è migliore rispetto a quello ottenuto con il metodo della traslazione e la riduzione dei dischi stellari è più efficace di quella ottenuta con Astronomy Tool. Purtroppo questo metodo sembra però presentare degli artefatti, simili ad aloni poco luminosi, nelle vicinanze dei dischi stellari. Infine la quinta immagine è stata ottenuta con l’azione di Peter Shah applicata tre volte. In questo caso il rumore è ancora contenuto e la riduzione stellare è ottima e priva di artefatti.

Quale è il miglior metodo per ridurre i dischi stellari? Il più efficiente è sicuramente l’azione sviluppata da Peter Shah per Photoshop CS. Questa permette di ridurre il diametro stellare senza introdurre artefatti come invece fanno (seppur molto marginalmente) i metodi della traslazione e del filtro Minimo. L’azione Astronomy Tool è meno efficiente di quella di Peter Shah anche se l’immagine finale risulta in generale più morbida. La morbidezza può comunque essere ottenuta tramite tecniche di riduzione del rumore da applicare dopo la riduzione del diametro stellare. Per ridurre gli artefatti nell’utilizzo del metodo filtro Minimo consigliamo di espandere l’immagine di un fattore due o tre. Al termine del lavoro si procederà con la riduzione della stessa riportandola alle dimensioni originali.

Il confronto tra i metodi discussi in questo articolo non può però fermarsi qui. Infatti un altro fattore importante nella scelta di un metodo di riduzione dei diametri stellari è quello relativo all’elasticità del metodo utilizzato. Infatti il diametro ottimale delle stelle non esiste ed è a discrezione dell’autore. In questo senso un metodo che permette di ridurre i diametri stellari in modo progressivo risulta favorito. Alla luce di ciò il metodo della traslazione è molto limitante dato che applicato due volte fornisce un’immagine ricca di artefatti e di scarsa qualità. Abbiamo quindi spinto al limite i metodi discussi al fine di testare quando il metodo utilizzato comincia a creare degli artefatti che vanno ad inficiare la qualità dell’immagine. In Figura 4 è illustrato il risultato del test.

Fig. 4: Confronto tra l'applicazione limite dei quattro metodi illustrati in questo articolo per la riduzione dei diametri stellari.

È possibile notare ancora una volta come quello in grado di fornire l’immagine migliore è l’azione di Peter Shah anche se meno elastico del metodo filtro Minimo e dell’Astronomy Tool.

Riassumendo quindi, l’azione sviluppata da Peter Shah offre il migliore strumento per la riduzione dei diametri stellari. Peccato che questa funzioni correttamente solo su versioni di Photoshop CS in lingua inglese. Una modifica per farlo funzionare anche sulla versione di Photoshop CS in italiano non è complicata e per maggiori informazioni scrivete a davide@astrotrezzi.it . Appena possibile svilupperemo un nostro metodo di riduzione dei diametri stellari per Photoshop CS basato sull’azione di Peter Shah. Al secondo posto, praticamente a pari merito, abbiamo l’azione Astronomy Tool e il metodo del filtro Minimo. Ognuno dei due metodi ha dei pregi e dei difetti. Comunque risultano entrambi molto flessibili e offrono un risultato generalmente molto buono. Purtroppo l’azione Astronomy Tool è a pagamento. Ultimo della lista è il metodo della traslazione che, oltre ad essere poco flessibile, introduce artefatti e rumore all’immagine.

Chiunque voglia partecipare attivamente nello sviluppo di plug-in e azioni per Photoshop CS può mandare un mail all’indirizzo davide@astrotrezzi.it .




Il Flat Frame

Negli articoli “Il bias frame” ed “Il dark frame” abbiamo visto come correggere il valore di luminosità assunto da ciascun pixel del nostro sensore a semiconduttore al fine di ottenere una risposta omogenea all’assenza di luce. In questo modo, in assenza di luce, il nostro elemento fotosensibile assumerà livello di luminosità pari a 0 ADU. Ma cosa succede ora se cominciamo a mandare dei fotoni sul sensore (si veda “Un Universo di fotoni”)? Quello che ci aspettiamo, una volta corretta la nostra immagine con il master dark ed il master bias, è che:

Livello di Luminosità = valore teorico + rumore elettronico casuale

Questo sarebbe vero se tutti i pixel rispondessero allo stesso modo alla radiazione luminosa. Purtroppo la situazione è più complicata e ogni pixel produce un numero di elettroni diverso dall’altro quando inondato da una sorgente luminosa uniforme. Perché?

I motivi possono essere molti. Prima di tutto ciascun elemento fotosensibile, a causa principalmente delle piccole dimensioni e quindi della difficoltà tecnologica nella realizzazione dello stesso, è diverso l’uno dall’altro. Così se inondiamo due pixel del nostro sensore a semiconduttore con una sorgente uniforme, questi forniranno due livelli di luminosità leggermente (si spera) diversi.

Inoltre non tutte le regioni del sensore sono sensibili allo stesso modo per motivi di costruzione ed infine la luce che ci giunge da una sorgente uniforme deve passare da un sistema ottico che per definizione non ha un campo perfettamente piano, ovvero ai bordi del campo si ha un maggiore assorbimento della radiazione luminosa (vignettatura). Se mettiamo tutti in formule, ciascun pixel avrà quindi livello di luminosità dato da:

Livello di Luminosità = (valore teorico x flat) + rumore elettronico casuale

dove con flat abbiamo indicato un coefficiente di proporzionalità diverso da pixel a pixel. Come ottenere questo coefficiente? La risposta è quantomai semplice. Basta inondare il sensore con una sorgente di luce uniforme. Questa dovrebbe generare un livello di luminosità uguale in ogni elemento fotosensibile. Ovviamente per quanto detto prima questo non succederà ed il valore di luminosità di ciascun pixel sarà pari a quello teorico per il flat. Ecco fatto quindi! Riprendere un’immagine di una sorgente luminosa coincide con il determinare per ciascun pixel il valore del coefficiente flat. Tale scatto è definito flat frame.

Sorgenti luminose uniformi ne esistono varie in commercio. Alcuni strumenti note come flat field generator o flat box sono in grado di fornire sorgenti di luce uniformi e con uno spettro praticamente bianco. Questo permette di avere in una sola esposizione un buon flat in tutti i canali RGB (vedi Costruire un’immagine a colori), fatto importante per sensori a colori come i CMOS delle DSLR. Altre sorgenti di luce approssimativamente uniformi sono i monitor dei computer, il cielo diurno, una maglietta bianca sull’ottica illuminata con una torcia, un muro o un foglio bianco. Lasciamo a voi la fantasia di trovare delle buone sorgenti di luce uniforme. In questi casi bisogna prestare attenzione a non riprendere le frequenze delle lampade (appaiono come bande chiare e scure nello scatto) o campi non perfettamente uniformi.

Trovata la sorgente di luce uniforme è necessario scattare con gli stessi ISO (bin) della ripresa dell’oggetto astronomico e soprattutto con la stessa messa a fuoco. Infatti un pixel potrebbe non assumere il valore di luminosità di un altro a seguito della presenza di polvere o macchie sul sensore. Tali macchie cambiano forma e intensità di assorbimento della luce al variare della messa a fuoco. Questo spiega il perché la messa a fuoco del flat frame deve essere la stessa dello scatto di ripresa dell’oggetto astronomico.

Cosa dire invece del tempo di esposizione? Questo va determinato in modo che il picco di luminosità del flat frame, che rappresenta il valore teorico in ADU fornito dalla sorgente di luce uniforme, risulti al centro dell’istogramma. Per fare questo è possibile utilizzare l’utility INFO presente sulle DSLR al fine di visualizzare sullo schermo della fotocamera l’istogramma relativo allo scatto oppure utilizzando software di elaborazioni delle immagini. Se usate IRIS per elaborare immagini CCD ricordatevi di sottoesporre il flat data la compressione in bit necessaria per elaborare l’immagine. Anche il flat frame ovviamente non è privo di errori ed il suo livello di luminosità è dato da:

Livello di Luminosità = valore teorico + rumore elettronico non casuale + offset + rumore termico + rumore elettronico casuale

 I bias frame utilizzati per la correzione del dark e della ripresa dell’oggetto astronomico possono essere utilizzati anche per correggere il flat ovviando così al rumore elettronico non casuale ed all’offset. Per ovviare al rumore termico è necessario riprendere i dark frame ma utilizzando come tempo di ripresa il tempo di esposizione del flat e non quello di ripresa dell’oggetto astronomico. Il rumore elettronico casuale invece può essere ridotto sommando (mediando) più flat frame. Una volta corretto il flat frame e mediati i flat frame corretti (master flat frame) abbiamo:

Livello di Luminosità [mediato su N scatti] = valore teorico = flat

ottenendo così il coefficiente flat per ciascun elemento fotosensibile del nostro sensore a semiconduttore. I master flat presentano la stessa struttura sia nel caso di CCD che CMOS. Riportiamo pertanto un esempio di flat frame ripreso con una Canon EOS 500D modificata Baader (vedi La “modifica Baader” per DSLR) ed il relativo istogramma RGB. Come si vede dalle immagini, la sorgente luminosa generata dal flat field generator utilizzato non è perfettamente bianca. Ricordiamo infine che seppur in minima parte, la temperatura e l’umidità possono modificare le condizioni di ripresa dei flat frame. Pertanto consigliamo di riprendere tali scatti direttamente sul campo al termine della sessione astrofotografica.

Figura 1: esempio di flat frame acquisito con una DSLR modello Canon EOS 400D modificata Baader.

Figura 2: istogramma per i canali RGB relativo al flat frame riportato in Figura 1.

 




Il Dark Frame

Nell’articolo “Il Bias Frame” abbiamo visto come un sensore a semiconduttore (CCD e CMOS) risponde al buio, ovvero alla totale assenza di fotoni. Abbiamo così imparato che in questo caso, il livello di luminosità di un pixel è dato dai seguenti contributi:

Livello di luminosità = valore teorico + offset + rumore termico + rumore elettronico casuale + rumore elettronico non casuale

Il Bias Frame è definito come “scatto veloce” con tempo di esposizione paragonabile a zero e pertanto con rumore termico nullo. Cosa succede se ora invece di effettuare uno “scatto veloce” al buio ne effettuiamo uno lento? In questo caso gli elettroni di origine termica, emessi in modo continuo dall’elemento a semiconduttore, andrebbero a sommarsi durante il tempo di esposizione producendo un rumore in un certo senso “proporzionale” al tempo di esposizione. Dal punto di vista teorico questo andrà a costituire una coda ad alti valori di livelli di luminosità. Per sensori di tipo CCD il gioco finisce qui, mentre la faccenda si complica nel caso di CMOS dove la temperatura del sensore non è generalmente controllata (se non nei casi delle DSLR CentralDS). Infatti, con l’aumentare del tempo di esposizione, e posa dopo posa, la temperatura del sensore CMOS varia così come l’emissione di elettroni termici in ciascun elemento fotosensibile. Il risultato complessivo è che ciascuna posa di buio risulta lievemente diversa. A questa variazione della temperatura dell’elemento a semiconduttore bisogna aggiungere anche la possibilità che la temperatura ambiente cambi durante la notte.

Indichiamo quindi con il termine rumore termico l’aumento del livello di luminosità associato all’emissione di elettroni termici, sia questa costante nel caso di sensori a temperatura controllata o variabile nel caso di DSLR tradizionali o raffreddate esternamente.

IL DARK FRAME

Il discorso fatto per in precedenza è riferito ad un solo elemento a semiconduttore: può essere esteso a tutta la matrice di fotoelementi che costituiscono il sensore? In linea generale si, ma dato che l’emissione termica (così come il bias) è diversa per ogni elemento a semiconduttore, il valore di luminosità di buio sarà differente da pixel a pixel. Data un’immagine di buio è quindi necessario sapere quale è il valore dell’offset, l’eventuale rumore elettronico non casuale ed il rumore termico di ciascun pixel, in modo che se sottratto all’immagine “lenta di buio” si otterrà una matrice di pixel con livello di luminosità pari a 0 ADU. Solo in questo modo se durante la ripresa di un oggetto celeste non arriveranno fotoni sull’elemento fotosensibile corrisponderà ad una luminosità pari a 0 ADU.

Prendiamo pertanto la nostra macchina fotografica digitale (DSLR) o la nostra camera CCD astronomica e poniamo il tappo di fronte all’ottica al fine di non far arrivare fotoni sul sensore ricreando pertanto la condizione di buio. Settiamo il tempo di esposizione della nostra DSLR o camera CCD astronomica pari a quello che verrà utilizzato per la ripresa dell’oggetto celeste (vedi il post “Il Light Frame”). Ricordiamo che per le reflex dobbiamo impostare anche gli stessi ISO utilizzati per riprendere la nostra immagine astronomica al fine di porsi nelle stesse condizioni di scatto (la catena elettronica funziona in modo diverso a seconda degli ISO impostati). Per lo stesso motivo anche il binning della nostra camera CCD non dovrà essere modificato. Con questi settaggi si riprendano un certo numero di immagini noti come dark frame.

Per calibrare un’immagine astronomica in modo che un pixel assuma un livello di luminosità pari a 0 ADU è necessario sottrarre all’immagine stessa l’offset, i rumori elettronici non casuali e il rumore termico. Questo può essere effettuato facilmente dato che tutte queste informazioni sono contenute nel dark frame. In particolare definito master dark frame la media dei singoli dark frame, il livello di luminosità di ciascun pixel dell’immagine astronomica calibrata sarà:

Livello di Luminosità = valore assunto dal pixel – master dark frame

Ecco quindi che se effettuiamo una ripresa della galassia di Andromeda e abbiamo un pixel che non viene raggiunto da nessun fotone (ad esempio un pixel del fondo cielo), allora questo assumerà un livello di luminosità pari, per quanto detto prima:

Livello di luminosità = valore teorico + rumore elettronico casuale + master dark

Ecco quindi che se all’immagine della galassia di Andromeda sottraiamo il master dark frame, otteniamo che il pixel privo di fotoni avrà un livello di luminosità pari a:

Livello di luminosità = valore teorico + rumore elettronico casuale

Dove il rumore elettronico casuale diviene prossimo a zero mediando un certo numero N di immagini riprese nelle stesse condizioni di scatto ovvero

Livello di luminosità [mediato su N scatti] = valore teorico

Scattare un dark frame però richiede molto tempo ed ottenere una statistica molto elevata può risultare complicata. Infatti ricordiamo che i dark frame vanno ripresi nelle stesse condizioni di scatto dell’immagine astronomica. Durante la nostra sessione astrofotografica dobbiamo quindi, in caso di fotocamere digitale prive di controllo della temperatura del sensore, prevedere di lasciare del tempo per acquisire un certo numero minimo di dark frame. Purtroppo nel tempo impiegato per riprendere un dark frame otteniamo più di 100 bias frame. Quindi malgrado non contenga informazioni sul rumore termico, il (master) bias frame è in grado di stimare con precisione statistica superiore il valore dell’offset e di eventuali rumori elettronici non casuali presenti nella ripresa rispetto al (master) dark frame. Diviene pertanto conveniente separare i due contributi e quindi creare un master dark che contiene il solo rumore termico medio ed un master bias che contiene informazioni sull’offset e sul rumore elettronico non casuale. Quindi ricordando che nel dark, il valore di luminosità di ciascun pixel è pari a

Livello di luminosità = master bias + rumore termico + rumore elettronico casuale = dark

Allora possiamo identificare la sola componente di rumore termico medio come:

rumore termico + rumore elettronico casuale = dark – master bias

e quindi successivamente mediando su un numero N  di scatti è possibile ridurre a zero il rumore elettronico casuale ottenendo il rumore termico medio.

Riassumendo, per calibrare correttamente le nostre immagini astronomiche sfruttando al meglio le informazioni che possiamo ricavare dal master bias frame, descritto nel post “Il Bias Frame”, e dai dark frame dobbiamo calcolare il rumore termico medio che con abuso di notazione viene anche chiamato master dark frame (creando ovviamente confusione):

rumore termico medio = MEDIA (dark frame – master bias frame) = master dark frame

e questo contiene tutte le informazioni sull’emissione termica di elettroni da parte di ciascun fotoelemento del sensore a semiconduttore. Il master bias frame conterrà invece tutte le informazioni relative all’offset e ai rumori elettronici di natura non casuale. Ecco quindi che in un’immagine di buio, ciascun pixel assumerà il seguente livello di luminosità:

Livello di luminosità [mediato su N scatti] = master bias frame + master dark frame

PIXEL CALDI E PIXEL FREDDI

Sino ad ora abbiamo parlato del rumore intrinseco che ciascun elemento a semiconduttore possiede. Esiste però la possibilità che alcuni pixel funzionino in maniera del tutto anomala rispetto agli altri. In particolare la maggior parte di questi posseggono un comportamento quantizzato, ovvero o rimangono sempre ad un livello di saturazione o rimangono completamente spenti. Nel primo caso si parla di pixel caldi mentre nel secondo caso di pixel freddi. Pixel caldi e freddi vanno “sottratti” da ciascuna immagine astronomica dato che introducono un segnale “fittizio”. In questo caso più che sottrazione si dovrebbe parlare di sostituzione. Infatti il livello di luminosità dei pixel caldi e freddi viene sostituito con il valore 0 ADU che è quello che dovrebbe assumere, dopo la calibrazione, un pixel che non riceve radiazione luminosa. Dato che i pixel freddi hanno livello di luminosità pari a 0 ADU, è praticamente inutile una loro identificazione, visto che la sostituzione non avrebbe nessun effetto. Ecco pertanto che la maggior parte dei software astronomici specializzati nell’elaborazione delle immagini prevedono una funzione di ricerca e quindi sostituzione, dei soli pixel caldi.

Esistono ora dei pixel che funzionano in modo anomalo ma non sono pixel caldi e freddi? Purtroppo si. Generalmente non sono molti e vengono identificati (e quindi eliminati) dai software astronomici come pixel caldi. Questi pixel noti come “pixel riscaldati” (warm pixel) sono pixel che generano un rumore termico con un tasso superiore rispetto a quelli tradizionali portandoli, in tempi di esposizione sufficientemente lunghi o a seguito di un aumento della temperatura del sensore, a saturazione.

Uno studio dei pixel riscaldati è progetto di ricerca per ASTROtrezzi.it. Chi fosse interessato è pregato di inviare un e-mail all’indirizzo ricerca@astrotrezzi.it   

Riportiamo di seguito lo studio del dark frame per una ATIK 314L+ B/W (sensore CCD) e per una Canon EOS 40D (sensore CMOS).

ATIK 314L+ B/W

Cominciamo con il dire che la CCD ATIK 314L+ B/W è una camera astronomica raffreddata da cella di Peltier a temperatura controllata. Questo significa che durante gli scatti la temperatura del sensore viene mantenuta costante da un sistema di controllo elettronico. Questo fatto è dimostrato riprendendo un certo numero di dark frame e confrontati. Il confronto è illustrato in Figura 1 e mostra come la distribuzione dei livelli di luminosità non vari da una posa ad un’altra.

Figura 1: Confronto tra quattro dark frame ripresi in successione uno dopo l’altro. Come si vede le distribuzioni sono identiche indice di una temperatura costante del sensore durante la ripresa

Data l’ampia dinamica e la ridotta corrente di lettura, una CCD è maggiormente sensibile alla corrente di buio o meglio al rumore termico. In particolare dato che la quantità di ADU indotti dal rumore termico aumenta all’aumentare del tempi di esposizione, quello che succede è una traslazione netta dell’offset all’aumentare del tempo di esposizione. Ecco quindi che in maniera più marcata rispetto ai sensori CMOS abbiamo uno spostamento dell’offset a causa dell’aumento del rumore termico integrato. Questo è visibile in Figura 2 dove si vede la differenza tra il bias frame ed un dark frame da 1000 secondi (quindi un periodo di integrazione, tempo di esposizione, un milione di volte più lungo).

Figura 2: Confronto tra bias e dark frame. Lo spostamento dell’offset è dovuto sostanzialmente al tempo di integrazione del rumore termico.

La sensibilità dei CCD al rumore termico o se vogliamo l’aumento della dinamica di questi tipi di sensori rispetto ai CMOS si riflette in una “non ottimale” sottrazione del master bias frame dai dark. In particolare dato che l’offset del bias è diverso da quello del dark, La sottrazione produce una curva che non risulta centrata a zero ADU come dovrebbe ma ha un massimo leggermente spostato (vedi Figura 8). In ogni caso, un eventuale stretching dell’istogramma permetterebbe di sistemare il tutto ottenendo quanto atteso teoricamente. Un esempio di rumore termico (master dark frame) effettuata su una singola posa è visibile in Figura 3.

Figura 3: esempio di master dark frame acquisito con una CCD astronomica modello ATIK 314L+ B/W. Si noti la distribuzione uniforme del segnale termico.

CANON EOS 40D

In questo post ci concentreremo principalmente sui sensori CMOS, dato che escludendo i modelli CentralDS, in tutti gli altri casi risultano privi di sistemi di controllo della temperatura (tra cui la Canon EOS 40D in esame). Questo rende complessa la descrizione del dark frame nel caso di reflex digitali. In primo luogo un rivelatore a semiconduttore, se non raffreddato, varia la sua temperatura durante la fase di funzionamento. Dato che gli scatti, siano essi immagini astronomiche o dark frame, avvengono in successione, quello che succede è che la temperatura dell’elemento fotosensibile va via via aumentando così come il rumore termico da essa indotto. L’effetto globale è quello della formazioni di code ad alti (e bassi) valori di ADU come visibile in Figura 4. Malgrado questo, gran parte dei pixel si comportano correttamente mantenendo costante la quantità di rumore termico ed aumentandone soltanto le fluttuazioni statistiche. Questo è visibile in Figura 5.

Figura 4: variazione della distribuzione dei livelli di luminosità del dark frame in funzione del numero di scatti successivi ossia della temperatura del sensore

Figura 5: malgrado l’aumento della larghezza dell’offset, la maggior parte dei singoli pixel si comportano correttamente mantenendo costante il suo valore.

Se però ora calcoliamo la quantità di ADU complessivi dell’immagine e la dividiamo per il numero di pixel del sensore, otteniamo quello che potremmo chiamare livello di luminosità media per pixel. In altre parole quello che andiamo a misurare è la quantità di ADU che mediamente possiede ciascun pixel, ovvero un’approssimazione dell’offset. Se il rumore indotto dai singoli fotoelementi fosse costante, allora il livello di luminosità medio per pixel non dovrebbe variare da scatto a scatto. L’aumento di temperatura invece provoca un aumento del rumore termico che si traduce quindi in un aumento del livello di luminosità medio per pixel. L’andamento per una successione di 8 dark frame da 7 minuti a 800 ISO, ripresi in successione uno dopo l’altro, è illustrato in figura 6. Come si vede, dopo un gradiente iniziale dovuto al riscaldamento “veloce” del sensore, successivamente l’aumento del livello di luminosità media in funzione della temperatura è lineare (con coefficiente di correlazione pari a 0.97) pari a 2.6821 ADU/°C.

Figura 6: aumento del livello di luminosità media per pixel in funzione della temperatura del sensore per dark frame da 7 minuti a 800 ISO acquisiti in rapida successione.

La figura 6 dovrebbe farci riflettere sul fatto che quando riprendiamo delle immagini astronomiche con una reflex digitale, il rumore termico ad essa associato non è costante e varia da posa a posa. Cosa possiamo fare? Purtroppo poco. L’unica possibilità è lasciare un periodo di tempo tra una posa e la seguente in modo da permettere al sensore di raffreddarsi. Ricordiamo comunque che il livello di luminosità media per pixel è variata in 8 dark da 7 minuti di “soli” 43 ADU su un valore medio inziale pari a 1044 ADU. L’errore che quindi commettiamo nel non considerare il riscaldamento del sensore a seguito del suo funzionamento è esiguo e mediamente inferiore al 5%. Gran parte del “rumore termico” è poi contenuto in quelli che abbiamo chiamati pixel caldi e riscaldati. Una sottrazione e correzione di questi pixel porterebbe ad un significativo miglioramento della qualità del master dark frame.

Un altro effetto è la dipendenza del rumore termico dal tempo di esposizione. Infatti all’aumentare del tempo di posta aumenta la quantità di rumore termico integrato. Il processo è lineare per tempi di esposizione sufficientemente lunghi come mostrato in figura 7. In particolare in grande è riportata la variazione del livello di luminosità medio per pixel in funzione del tempo di esposizione, mentre nel riquadro piccolo il livello di luminosità medio per pixel sempre in funzione del tempo di esposizione.

A 800 ISO, abbiamo dopo 150 secondi di posa, un incremento di rumore termico lineare (coefficiente di correlazione lineare 0.99) pari a 0.1421 ADU/secondo.

Figura 7: variazione del livello di luminosità media per pixel in funzione del tempo di esposizione. Nel riquadro a lato livello di luminosità media per pixel in funzione del tempo di esposizione. Tutti i dark frame sono stati ripresi a 800 ISO.

La quantità di rumore termico che introduciamo aumenta quindi linearmente con il tempo di esposizione andando a deteriorare l’informazione contenuta nell’elemento fotosensibile. Ma quanto contribuisce questo rumore rispetto all’offset? Abbiamo visto in precedenza come un aumento della temperatura del sensore introduce una variazione del livello di luminosità media per pixel inferiore al 5%. In questo caso per tempi di esposizione pari a 7 minuti a 800 ISO abbiamo che la variazione di ADU rispetto al bias frame è pari a 42 ADU e quindi inferiore persino a quello che si ottiene a seguito del riscaldamento del sensore.

In ogni caso questo valore rimane costante da posa a posa se la temperatura del sensore rimanesse costante (cosa che invece abbiamo visto non accadere). 42 ADU è quindi il vero contributo di rumore medio contenuto in ciascun pixel alimentato per 7 minuti a 800 ISO in condizioni di buio ad una determinata temperatura T. Quindi se i 43 ADU dovuti alla variazione di temperatura del sensore erano una sorgente di errore nel processo di “costruzione” del master dark frame, questi 42 ADU costituiscono il rumore termico medio costante intrinseco della fotocamera e quindi facilmente correggibile attraverso il processo di sottrazione del master dark frame (rumore termico medio).

La variazione dell’offset del dark frame rispetto all’offset bias frame nel caso di CMOS varia quindi dal 5% nel caso di fotocamera “fredda” al 10% nel caso di fotocamera riscaldata. Tale discrepanza è comunque trascurabile e fa si che i due offset siano praticamente coincidenti traducendosi in un valore di livello di luminosità del master dark frame o del rumore termico medio pari a 0 ADU come correttamente atteso. Quindi nei sensori CMOS non siamo di fronte a quel offset fittizio descritto in precedenza nei sensori CCD e visibile in Figura 8.

Figura 8: distribuzione dei livelli di luminosità del master dark frame (rumore termico medio) nel caso di sensori CCD e CMOS. Si vede come nel caso dei sensori CMOS il segnale sia soltanto di natura termica (coda esponenziale) mentre nei sensori CCD si osserva la presenza di un finto offset a seguito della maggiore dinamica e quindi sensibilità allo spostamento dell’offset a seguito dell’integrazione del rumore termico.

Ricordiamo ancora una volta come la maggior parte del rumore termico venga immagazzinato nei pixel riscaldati che quindi giocano un ruolo importante nei sensori a semiconduttori. Riportiamo infine un’immagine del master dark frame nel caso di un sensore CMOS Canon EOS 40D.

Figura 9: esempio di master dark frame acquisito con una DSLR modello Canon EOS 40D (sensore CMOS). E’ possibile osservare i gradienti termici dovuti alle regioni del sensore più vicine a “punti caldi” dell’elettronica.

CONDIZIONI DI DARK FRAME

Ovviamente, dato che i dark frame contengono l’informazione termica del sensore a semiconduttore è strettamente necessario che questi vengano ripresi nelle medesime condizioni ambientali delle immagini astronomiche. Tale vincolo si traduce nel prevedere un tempo di ripresa dei dark a seguito di una notte astrofotografica oppure nel memorizzare la temperatura di utilizzo della camera CCD astronomica o DSLR nel caso di sensori dotati di sistemi di raffreddamento con controllo della temperatura. Nel caso delle reflex digitali persino l’umidità o la luce ambiente potrebbe influire la ripresa del dark frame e quindi è vivamente sconsigliato la ripresa di questi scatti durante l’alba o il tramonto o in notte successive a quella di ripresa.

Ricordiamo inoltre che alcuni pixel possono diventare caldi o freddi a seguito di una rottura per invecchiamento. Pertanto, nel caso di CCD o DSLR raffreddati è necessario ogni tanto aggiornare le proprie librerie di dark.

 MEDIA O MEDIANA

Sino ad ora abbiamo parlato di rumori, ovvero fenomeni fisici sempre presenti in ogni singolo dark frame. Esistono però altri fenomeni che possono verificarsi solo in alcuni dark frame e non in tutti. Questi fenomeni sporadici rischiano però di introdurre un segnale nella media spurio che al netto andrà a peggiorare la qualità dell’immagine astronomica finale. Un segnale sporadico è ad esempio quello generato dai raggi cosmici (per maggiori informazioni si legga l’articolo “I raggi cosmici e l’astrofotografia digitale”) i quali possono rilasciare parte della loro energia in uno o più pixel liberando un gran numero di elettroni.

Un modo per non considerare in una media i pixel che subiscono solo sporadicamente una grossa variazione del loro Livello di Luminosità è utilizzare invece della classica media aritmetica delle immagini, la mediana. Per maggiore informazioni sui vari algoritmi di media di immagini o più precisamente stacking delle immagini si legga l’articolo “Metodi di Stacking”.

IRIS E IL DARK FRAME

IRIS permette di creare il master dark (inteso come rumore termico medio), partendo dai singoli dark frame e dal master bias frame. Il metodo consigliato per combinare le singole immagini è il metodo della mediana. Per quanto riguarda la procedura operativa da seguire si rimanda alla Guida per l’elaborazione delle immagini astronomiche con IRIS. Chi fosse interessato allo studio metodico del dark frame o semplicemente vuole integrare questo articolo con ulteriori considerazioni e schede tecniche, è pregato di inviare una e-mail a ricerca@astrotrezzi.it .

 




Il Bias Frame

Negli articoli precedenti abbiamo visto come sia possibile creare per ogni elemento fotosensibile di un sensore a semiconduttore un segnale digitale in un certo senso proporzionale al flusso di radiazione incidente. Tale segnale rappresenterà, al termine del processo di formazione dell’immagine, il livello di luminosità di ciascun pixel di cui il sensore è costituito.

Sino ad ora abbiamo però considerato il caso in cui il sensore venga inondato da fotoni. Cosa succede se però scattiamo una fotografia al buio? Con buio intendiamo la totale assenza di luce ovvero la condizione di avere su ogni elemento fotosensibile zero fotoni. Zero fotoni significa che non abbiamo nessuna fonte di energia in grado di liberare elettroni in banda di conduzione e quindi di generare un segnale di carica. Nessun segnale si traduce infine in un segnale di ampiezza zero in uscita dell’ADC e quindi un livello di luminosità pari a 0 ADU. Riassumendo, una fotografia del buio è una matrice di pixel ciascuno con livello di luminosità pari a 0 ADU. Questo ovviamente in linea del tutto teorica. Vediamo ora cosa succede nella realtà.

DENTRO IL FOTOELEMENTO

In assenza di luce la possibilità di avere elettroni in banda di conduzione dovrebbe essere praticamente zero. Eppure l’agitazione termica degli elettroni associata al fatto che l’elemento fotosensibile a semiconduttore ha una determinata temperatura diversa da zero, permette ad alcuni di essi di “saltare” naturalmente dalla banda di valenza a quella di conduzione. Elettroni liberi si traducono al termine della catena elettronica in segnali luminosi. Ecco quindi che alcuni pixel che dovrebbero avere livello di luminosità pari a 0 ADU possono assumere valori differenti. Tale effetto aumenta all’aumentare della temperatura dell’elemento a semiconduttore la quale dipende dalla temperatura ambiente e dal riscaldamento dello stesso durante il funzionamento (effetto Joule). Ricordiamo inoltre che l’emissione di elettroni per agitazione termica è un processo continuo e quindi il numero di “cariche termiche” accumulate aumenta con il tempo di esposizione. Ridurre al minimo il tempo di esposizione significa quindi diminuire il numero di elettroni di natura termica. Inoltre, come detto prima, la temperatura del sensore dipende anche dalla temperatura ambiente. Questo significa che sistemi di raffreddamento come ventole o celle di Peltier, possono ridurre di molto il fenomeno di emissione di elettroni termici. In assenza di sistemi di raffreddamento vedremo quindi una notevole differenza tra le riprese effettuate in inverno e quelle estive. L’emissione di elettroni termici trasforma il vero segnale di buio pari a 0 ADU in un segnale con un livello di luminosità diverso da zero. Questo disturbo prende il nome di rumore termico. Nell’articolo “Il Dark Frame” vedremo come trattare questo tipo di rumore.

Se però ora effettuiamo uno scatto molto veloce al buio, allora il sensore funzionerà per un tempo così limitato da non permetterne il riscaldamento. Inoltre tempi d’esposizione brevi significano capacità nulla di accumulo delle “cariche termiche” ovvero riduzione quasi completa del rumore termico. Ecco quindi che scatti “veloci” al buio dovranno fornire in uscita dal sensore a semiconduttore segnali elettrici nulli come atteso teoricamente.

LA CATENA ELETTRONICA

Un segnale nullo in uscita dell’elemento fotosensibile corrisponde necessariamente ad un Livello di Luminosità del pixel associato pari a 0 ADU? Ovviamente no. La strada che il nostro segnale deve percorrere è lunga e piena di ostacoli. Il processo di amplificazione, conversione analogico – digitale e molti altri di natura elettronica introducono rumori. Se un sensore è progettato bene, allora tutti i rumori introdotti nel processo di formazione dell’immagine devono essere non correlati e di natura prettamente casuale. A questi possono però aggiungersi rumori non casuali come ad esempio interferenze elettroniche.

Nel caso di uno scatto “veloce” al buio quindi ogni pixel assumerà un livello di luminosità diverso da zero. La distribuzione di livelli di luminosità (istogramma) dei pixel di un sensore sarà quindi descritta da una gaussiana per i rumori di natura casuale con distorsioni più o meno consistenti nel caso in cui vi fossero rumori non casuali. Per motivi di natura tecnologica inoltre, il livello di luminosità corrispondente al buio (0 ADU) è traslato ad un valore noto come offset.

Se volessimo riassumere l’effetto dei rumori fin qui analizzati su un pixel per uno scatto “veloce”, ovvero con tempi di esposizioni prossimi a zero secondi, effettuato al buio potremmo dire:

Livello di Luminosità = valore teorico + offset + rumore termico + rumore elettronico casuale + rumore elettronico non casuale.

Per quanto detto in precedenza, facendo tendere il tempo di esposizione a zero si ha una riduzione drastica del rumore termico che diventa quindi trascurabile. Inoltre il valore in ADU teorico è 0, dato che non ci aspettiamo elettroni. Quindi la nostra espressione diventa.

Livello di Luminosità = offset + rumore elettronico casuale + rumore elettronico non casuale.

Cosa succede ora se effettuiamo N scatti “veloci” al buio e facciamo la media pixel per pixel del Livello di Luminosità associato? In questo caso ci viene in aiuto la statistica. La media dei valori assunti da una variabile casuale effettuata su un numero di campioni N che tende all’infinito tende al valore vero. Dato che nel nostro caso il rumore elettronico casuale fluttua intorno al valore zero, allora mediando su N scatti con N sufficientemente grande avremo che il rumore elettronico casuale diviene nullo. Pertanto:

Livello di Luminosità [mediato su N scatti] = offset + rumore elettronico non casuale.

Se l’elettronica così come il sensore utilizzato è stata progettata bene e la camera risulta isolata dal punto di vista elettromagnetico, allora il rumore elettronico non casuale dovrebbe essere nullo e il Livello di Luminosità mediato dovrebbe tendere al valore dell’offset del pixel. In caso contrario tale rumore elettronico non casuale, noto come rumore di lettura, sarà presente e non eliminabile dalle nostre immagini astronomiche. Questo può essere ottenuto sottraendo al Livello di Luminosità di un pixel il Livello di Luminosità mediato.

IL BIAS FRAME

Ciascun pixel di un sensore, sia esso CCD o CMOS, possiede quindi un offset. Siamo sicuri che tale offset sia lo stesso per tutti i pixel? Ovviamente no. Ogni pixel (dall’elemento fotosensibile alla catena elettronica) è diverso l’uno dall’altro e pertanto presenta un proprio offset, che mediamente è quello riportato nelle schede tecniche dei sensori. Come fare quindi a normalizzare i nostri pixel, in modo che se fotografiamo il buio otteniamo 0 ADU in ogni pixel? Per fare questo dobbiamo conoscere il valore dell’offset per ogni pixel e sottrarlo ai rispettivi pixel dell’immagine astronomica ripresa. Come fare?

Prendiamo la nostra macchina fotografica digitale (DSLR) o la nostra camera CCD astronomica e poniamo il tappo di fronte all’ottica al fine di non far arrivare fotoni sul sensore ricreando pertanto la condizione di buio. Settiamo come tempo di esposizione il minimo imposto dalle specifiche tecniche della nostra DSLR o camera CCD astronomica (ad esempio 1/8000 secondo per una Canon EOS 40D o 1/1000 di secondo per una ATIK 314L+ B/W). Ricordiamo che per le reflex dobbiamo impostare gli stessi ISO utilizzati per riprendere la nostra immagine astronomica al fine di porsi nelle stesse condizioni di scatto (la catena elettronica funziona in modo diverso a seconda degli ISO impostati). Per lo stesso motivo anche il binning della nostra camera CCD non dovrà essere modificato. Con questi settaggi si riprendano un certo numero di immagini che verranno successivamente mediati al fine di ottenere il Livello di Luminosità medio e quindi l’offset per ciascun pixel del sensore. Tali scatti prendono il nome di bias frame. Quindi, maggiore sarà il numero di bias frame acquisiti, minore sarà l’entità del rumore casuale presente nell’immagine e quindi migliore sarà la determinazione dell’offset. Ricordiamo infatti che, dal punto di vista statistico, la precisione con cui determiniamo l’offset aumenta come la radice quadrata del numero di bias frame acquisiti.

La presenza di rumori non casuali purtroppo va ad aumentare aumentando il numero di bias frame acquisiti e pertanto un basso rumore di lettura è una richiesta importante per un astrofotografo esigente.

Riportiamo di seguito lo studio di un bias frame e della media di 50 bias frame, nota con il nome di master bias frame, per una ATIK 314L+ B/W (sensore CCD) e per una Canon EOS 40D (sensore CMOS).

ATIK 314L+ B/W

L’ATIK 314L+ monocromatica monta un sensore CCD da 1392 x 1040 pixel. Abbiamo ripreso 50 bias frame con binning 1 x 1 e tempo di esposizione pari a 1/1000 secondo. In figura 1 è mostrato il livello di luminosità di un pixel del sensore CCD. Come si vede questo fluttua intorno al valore medio pari a 262.9 ADU con una varianza pari a 15.4 ADU. Lo stesso comportamento è stato mostrato da tutti gli altri pixel che costituisce la matrice del sensore.

Figura 1: Il Livello di Luminosità al variare del bias frame. Come descritto in precedenza questo fluttua intorno al valore “vero” dell’offset pari a circa 262 ADU.

In Figura 2 mostriamo invece la distribuzione dei Livelli di Luminosità (istogramma) dei pixel che costituiscono il sensore per un dato bias frame. La distribuzione è dominata da un rumore di tipo casuale, come dimostra il buon accordo con un fit di tipo gaussiano. Il valore medio della distribuzione è 265.999 ± 0.015 ADU con larghezza pari a 17.774 ± 0.012  ADU. Come atteso, mediando su 50 si ottiene una riduzione della larghezza pari a circa 5.77. Questo non è esattamente quanto previsto teoricamente (7.07) a causa della presenza nel picco gaussiano di contributi non gaussiani (rumori non casuali).

Figura 2: in azzurro la distribuzione dei Livelli di Luminosità di un sensore CCD in un bias frame. In rosso il risultato di un fit gaussiano della distribuzione. Ricordiamo che la larghezza della distribuzione del bias frame è spesso detta readout noise.

Al fine di comprendere l’entità di tali rumori non gaussiani si riporta in figura 3 la distribuzione dei Livelli di Luminosità del master bias frame in scala semi-logaritmica. Come si può notare esistono delle piccole code non gaussiane sicuramente imputabili a del rumore di tipo non casuale. Al fine di determinare se tale rumore è dovuto a fenomeni di interferenza elettronica, abbiamo deciso di sottrarre al bias frame il bias frame mediato (su 50 immagini) e di effettuare su tale differenza l’analisi di Fourier FFT. Il risultato, riportato sempre in figura 3 è uno spettro bianco, sintomo di totale assenza di rumore a frequenza spaziale.

Figura 3: a sinistra la distribuzione dei Livelli di Luminosità del master bias frame in scala semi-logaritmica. A destra lo spettro di Fourier ottenuto con il software ImageJ

 Interessante è l’analisi del master bias. In particolare (Figura 4) è possibile vedere un gradiente tra la zona alta e bassa del sensore. Questo perché durante il seppur breve periodo di trasporto delle cariche, queste stazionano con tempi diversi a seconda della loro posizione sul sensore. I pixel più vicini all’HCCD risultano quindi meno soggetti al rumore termico rispetto a quelli più lontani che integrano tale rumore su un tempo effettivamente maggiore. Questo effetto è invece invisibile nel caso di bias frame acquisiti con sensori di tipo CMOS dove i pixel vengono “svuotati” tutti nello stesso istante. Per maggiori informazioni si legga l’articolo “La Generazione del Segnale: CCD e CMOS”.

Figura 4: master bias. Si osservi come la regione più bassa e vicina al HCCD sia più buia (minor rumore di tipo termico) della regione più alta. A destra inoltre è visibile ad un pattern legato al supporto del sensore.

Concludendo la camera ATIK 314L+ monocromatica risulta tecnologicamente ben realizzata sia dal punto di vista fisico che elettronico. In particolare il rumore è sostanzialmente di natura casuale mentre la componente dovuta al rumore di lettura risulta praticamente trascurabile.

CANON EOS 40D

Anche nel caso della DSLR Canon EOS 40D, dotata di sensore CMOS da 3888 x 2592 pixel, il Livello di Luminosità dei singoli pixel fluttuano intorno al valor medio dell’offset. La distribuzione di tali valori all’interno di un singolo bias frame è mostrato in figura 5. Il valore medio della distribuzione è 1025.66 ± 0.002 ADU con larghezza pari a 7.631 ± 0.002  ADU (il valore più basso di quello ottenuto per la camera astronomica ATIK314L+ è dovuto alla minor dinamica della Canon EOS 40D). Come atteso, mediando su 50 frame si ottiene una riduzione della larghezza pari a circa 7.86. Questo è paragonabile a quanto previsto teoricamente (7.07) dovuto molto probabilmente al maggior numero di pixel presenti rispetto al CCD precedentemente preso in esame.

Figura 5: a sinistra in azzurro la distribuzione dei Livelli di Luminosità di un sensore CMOS in un bias frame. In rosso il risultato di un fit gaussiano della distribuzione. A destra lo stesso grafico in scala semi-logaritmica.

In questo caso la distorsione dello spettro è più evidente rispetto alla CCD ATIK sintomo della presenza non trascurabile di rumori non casuali. Questo è evidenziato dal medesimo plot in scala semi-logaritmica dove si nota la presenza di code a bassi e alti valori di ADU. Per un’analisi dettagliata del rumore di lettura si è proceduto come in precedenza attraverso la sottrazione degli spettri e l’analisi di Fourier. In questo caso si osserva però un rumore a frequenza spaziale fissata di tipo sinusoidale (Figura 6).

Figura 6: spettro di Fourier ottenuto con il software ImageJ. In questo caso l’immagine non è uniforme e si vede un rumore di tipo sinusoidale con frequenza spaziale fissata.

Riassumendo quindi, sia la ATIK 314L+ che la Canon EOS 40D mostrano un bias frame dominato sostanzialmente dal rumore casuale, quindi riducibile mediando molti frame. Per quanto riguarda la componente non casuale (rumore di lettura) nel caso dell’ATIK non presenta pattern spaziali, mentre per la Canon è stata verificata la presenza di un rumore spaziale di tipo sinusoidale.

CONDIZIONI DI BIAS FRAME

Sino ad ora abbiamo considerato completamente trascurabile il rumore termico presente in ciascun bias frame. Tale assunzione è corretta dato che la variazione della larghezza della distribuzione dei Livelli di Luminosità nel bias frame in funzione della temperatura del sensore è praticamente trascurabile e stimabile intorno allo 0.52%/°C . Purtroppo però spesso non si considera un altro fattore molto importante. Al variare della temperatura del sensore anche l’elettronica ad esso connesso risponde in modo differente ed in particolare abbiamo una variazione del valore assoluto dell’offset in funzione della temperatura. Tale confronto è ben visibile in Figura 7 dove si riporta la distribuzione dei Livelli di Luminosità per bias frame effettuati a diverse temperature del sensore.

Figura 7: Distribuzione dei Livelli di Luminosità in bias frame effettuate a diverse temperature del sensore CCD ATIK 314L+ B/W.

In particolare si osserva una variazione della posizione dell’offset pari al 3.47% in soli 5°C di escursione da +10°C a +5°C. Tale variazione è stata osservata anche per lunghe esposizioni (con conseguente aumento della temperatura del sensore) come riportato nell’articolo Canon EOS 40D”.

Ulteriori test saranno effettuati per verificare nuovamente ed in modo più dettagliato questo tipo di fenomeno. Per il momento possiamo comunque affermare che, data la dipendenza dalla temperatura del valore dell’offset, è sempre consigliabile acquisire i bias frame nelle stesse condizioni ambientali presenti al momento della ripresa astronomica.

MEDIA O MEDIANA?

Sino ad ora abbiamo parlato di rumori, ovvero fenomeni fisici sempre presenti in ogni singolo bias frame. Esistono però altri fenomeni che possono verificarsi solo in alcuni bias frame e non in tutti. Questi fenomeni sporadici rischiano però di introdurre un segnale nella media spurio che al netto andrà a peggiorare la qualità dell’immagine astronomica finale. Un segnale sporadico è ad esempio quello generato dai raggi cosmici (per maggiori informazioni si legga l’articolo “I raggi cosmici e l’astrofotografia digitale”) i quali possono rilasciare parte della loro energia in uno o più pixel liberando un gran numero di elettroni.

Un modo per non considerare in una media i pixel che subiscono solo sporadicamente una grossa variazione del loro Livello di Luminosità è utilizzare invece della classica media aritmetica delle immagini, la mediana. Per maggiore informazioni sui vari algoritmi di media di immagini o più precisamente stacking delle immagini si legga l’articolo “Metodi di Stacking.

IRIS ED IL BIAS FRAME

IRIS permette di creare il master bias, partendo dai singoli bias frame. Il metodo utilizzato per combinare le singole immagini è il metodo della mediana. Per quanto riguarda la procedura operativa da seguire si rimanda alla Guida per l’elaborazione delle immagini astronomiche con IRIS. Chi fosse interessato allo studio metodico del bias frame o semplicemente vuole integrare questo articolo con ulteriori considerazioni e schede teniche, è pregato di invare una e-mail a ricerca@astrotrezzi.it




Notturno a Sormano – 28/12/2012

Riportiamo alcune immagini riprese da Sormano (CO) il 28/12/2012 in condizione di Luna Piena. La camera di ripresa è una Canon EOS 40D + Obiettivo Samyang FishEye 8mm su cavalletto. I dati tecnici sono riportati sotto ciascuna immagine.

We post some pictures taken in Sormano (CO) the 28th of December 2012 with full moon. Camera was a Canon EOS 40D  + Samyang FishEye 8mm lens on tripod. Technical data are reported under each picture.

 

218 sec, 400 ISO, f/22

270 sec., 400 ISO, f/22

300 sec, 400 ISO, f/22

Per scaricare i file originali in formato CR2 clicca qui (password richiesta) / Click here in order to download the original files in CR2 format (password request)




La “modifica Baader” per DSLR

L’avvento della fotografia digitale ha aperto un nuovo mondo all’astrofotografo che da pellicole ipersensibilizzate, tiraggi e rullini in frigorifero si è ritrovato catapultato nel pianeta del rumore elettronico, somme e flat field.

Se però in passato per riprendere il cielo era necessaria tanta esperienza sul campo e una reflex, oggi non è più cosi. Infatti gran parte dell’esperienza la si fa davanti al computer sfogliando i numerosi articoli presenti sul web mentre una reflex digitale offre si la possibilità di riprendere il cielo ma con molte limitazioni. Infatti al fine di migliorare le immagini fornite dai sensori digitali, che altrimenti risulterebbero poco definite, si è deciso di montare di fronte al sensore CMOS un filtro IR-cut. Questo è importantissimo per le riprese diurne ma è un peso insostenibile per l’astrofotografo notturno. Tale filtro è vero che taglia l’IR ma, allo stesso tempo, diminuisce notevolmente la sensibilità del sensore nella regione rossa dello spettro elettromagnetico ed in particolare in prossimità della lunghezza d’onda a 6561.1 Å nota come linea Hα dell’Idrogeno. Gran parte delle nebulose purtroppo emettono in questa frequenza e una riduzione di efficienza quantica in tale zona risulta pertanto dannosa in termini astrofotografici.

Ecco quindi che l’azienda Baader ha messo in produzione alcuni filtri che, se sostituiti a quelli ufficiali posti di fronte al sensore delle DSLR, permettono di recuperare completamente l’efficienza quantica in quella regione dello spettro. I filtri Baader rimangono dei filtri IR-cut, dato che la radiazione IR deve comunque essere bloccata al fine di salvaguardare la qualità dell’immagine, ma allo stesso tempo risultano trasparenti alla linea Hα dell’Idrogeno. Ovviamente la Baader non è l’unica azienda che produce filtri del genere ma ad oggi la sostituzione del filtro originale con uno astronomico prende generalmente il nome di “modifica Baader”. Anche Canon ha prodotto due modelli di reflex digitali con filtri modificati per l’astronomica ed esattamente la Canon EOS 20Da e la moderna Canon EOS 60Da.

Figura 1: L'efficienza quantica dei pixel rossi di una Canon EOS 40D originale (linea tratteggiata) e modificata Baader (linea continua). La banda nera rappresenta la posizione della linea Hα dell'Idrogeno, lunghezza d'onda dove emettono gran parte delle nebulose.

Escludendo questi modelli “commerciali”, la sostituzione dei filtri Baader è a carico del consumatore che può comunque fare affidamento su persone specializzate nel settore che sostituiscono il filtro ad un prezzo contenuto.

Ma quanto si guadagna in termini astrofotografici con la sostituzione del filtro? La risposta è semplice: molto. Se si considera ad esempio una Canon EOS 40D; l’efficienza quantica dei pixel rossi passa dal 8.09% originali al 24.61% del modello modificato Baader (vedi Figura 1). Un fattore 3 in efficienza quantica svolge un ruolo fondamentale nella buona riuscita di una ripresa astronomica. Un confronto tra due riprese effettuate con una Canon EOS 500D originale e modifica è riportato in Figura 2.

Cosa possiamo dire riguardo i pixel verdi e blu? Come influisce la modifica su questi tipi di pixel? La risposta è semplice e la trovate nella figura 1 dell’articolo “Efficienza Quantica”. La modifica Baader sostanzialmente non modifica l’efficienza quantica dei pixel verdi e blu. Questo si traduce nel non avere nessun tipo di guadagno in luminosità per oggetti di quel colore. Pertanto, riprendere nebulose come quella che circondano le Pleiadi o galassie come la Grande Galassia di Andromeda, con filtro originale o Baader, non comporta nessuna differenza.

Figura 2: Un confronto tra due immagini della nebulosa M8 ed M20 nel Sagittario riprese con una Canon EOS 500D originale (immagine di sinistra) e modificata (immagine di destra).




Archiviazione delle informazioni

Abbiamo visto in ADC dal mondo analogico a quello digitale” come il risultato finale della nostra ripresa astrofotografica, effettuata con sensori CCD o CMOS, sia una sequenza di segnali digitali in grado di fornire informazioni sul numero di fotoni che hanno inciso durante l’esposizione su ogni singolo fotoelemento a semiconduttore. Questi segnali digitali dovranno quindi essere ora memorizzati in maniera opportuna su un supporto informatico come una scheda di memoria (ce ne sono di diversi tipi tra cui le più diffuse sono le SD e CF) o il disco fisso di un computer (nel caso di scatto remoto). Come sappiamo il risultato di questa memorizzazione sarà un file.

In astrofotografia digitale abbiamo molteplici formati in grado di memorizzare i file contenenti le informazioni della ripresa. In questo post analizzeremo i file più diffusi.

RAW

Con la parola RAW (grezzo) si indicano i file memorizzati dalle fotocamere digitali in grado di contenere tutte le informazioni in uscita dall’ADC. Dato che ogni casa produttrice ha un sistema diverso di acquisizione e conversione del segnale analogico in digitale, esistono molteplici file RAW, ciascuno con la sua estensione proprietaria. Ad esempio Canon utilizza il formato CRW (Canon RaW) con estensione CR2 mentre Nikon utilizza il formato NEF (Nikon Electronic Format) con estensione omonima.

I file RAW sono importantissimi per l’astrofotografia, dato che contengono le informazioni “originali” del sensore, prima che il processore della camera demosaicizzi l’immagine come descritto in “Costruire un’immagine a colori”. Il processo di demosaicizzazione include un peggioramento della qualità dell’immagine e dovrebbe venire applicato solo una volta che tutti i parametri di ripresa (bilanciamento del bianco, contrasto, …) sono stati opportunamente corretti. Questi parametri vengono corretti automaticamente dal processore. Ma se volessimo correggerli noi? In questo caso solo il file RAW ci permette di accedere alle informazioni necessari.

Ovviamente utilizzando i file RAW si rende necessario una “demosaicizzazione” a mano, oggi automatizzata da software di post produzione come Adobe Camera Raw (plug-in di Photoshop) o IRIS. Questi software sono in grado di leggere gran parte dei formati RAW proprietari oggi presenti sul mercato.

Data l’enorme mole di informazioni contenute nel file RAW, questi occupano molto spazio su disco, aumentando di conseguenza il tempo di salvataggio. Mentre quest’ultimo problema è risolubile solo aumentando la velocità dell’elettronica della camera e dei supporti di archiviazione, la riduzione dello spazio su disco è possibile utilizzando software di compressione.

Come si può ben capire il RAW non è un file immagine ma un file di dati. Una volta modificati opportunamente i parametri di ripresa il software di post produzione procede con la demosaicizzazione generando un’immagine a colore. Questa dovrà essere salvata in un file di tipo immagine. Quindi riassumendo, ad ogni file RAW corrisponde un file immagine. Nelle prossime sezioni vediamo quali sono i file immagini più diffusi in astrofotografia.

TIFF (8 o 16 bit/canale, compresso), PIC e BMP

L’immagine a colori fornita dal file RAW ha un gamma tonale dettata dal numero di bit dell’ADC come illustrato nel post “ADC: dal mondo analogico a quello digitale”. Questa non è ovviamente visualizzabile dato che molto spesso è superiore alla gamma tonale dell’occhio umano pari ad 8bit. Quello che succede è che la gamma tonale viene compressa dal numero di bit dell’ADC a 8bit. Questa “compressione” però è solo visuale, l’immagine che fuoriesce da un file RAW contiene infatti tutta la gamma tonale originale. In questo modo se tagliate parte dell’istogramma dell’immagine ottenuta a partire da un file RAW non perderete in quantità, dato che avrete un numero di toni sovrabbondante rispetto a quelli che può vedere l’occhio umano.

Il formato immagine in grado di memorizzare tutta la gamma tonale originale fornita dal file RAW sono il PIC ed il TIFF a 16 bit/canale. Al momento, dato che il numero di bit (per canale RGGB) fornito dagli ADC di DSLR e CCD è generalmente inferiore o uguale a 16bit, il TIFF a 16 bit/canale ed il PIC risultano essere formati appropriati.

È però possibile salvare l’immagine prodotta dal file RAW in un formato ad 8bit. In questo caso la visualizzazione compressa si trasforma in vera è propria riduzione del numero di bit e quindi della gamma tonale. Esempi sono i formati TIFF a 8bit/canale o BMP.

Perché salvare un’immagine in formato TIFF a 8bit/canale o BMP quando esistono formati come il TIFF a 16bit/canale o PIC? La ragione è ovviamente di natura pratica: diminuire lo spazio occupato dai file su disco.

In astrofotografia digitale, la pratica più utilizzata è quella di salvare l’immagine generata dal file RAW in TIFF a 16bit/canale o PIC ed effettuare la cosmetica su questi tipi di file. In questo modo sfrutteremo al meglio il segnale fornito dall’ADC della nostra fotocamera digitale. Una volta applicate tutte le modifiche sarà possibile salvare l’immagine in formato TIFF a 8bit/canale o BMP ottenendo un file di dimensioni inferiori e di facile trasportabilità. La riduzione della gamma tonale non comporterà perdite alla qualità dell’immagine. Ovviamente una volta convertita in immagine ad 8bit/canale non sarà possibile apportare altre modifiche di cosmetica all’immagine a meno di non voler perdere dettagli o introdurre artefatti (come la posterizzazione, vedi il post “Istogramma e stretching dinamico: come ottenere il massimo dalla dinamica del nostro sensore”).

È possibile inoltre comprimere i file TIFF in modo che questi occupino meno spazio su disco, senza perdere nessuna informazione. Tale formato si chiama, con molta fantasia, TIFF compresso.

JPEG

Il formato JPEG è sicuramente il formato immagine più diffuso, principalmente grazie alle ridotte dimensioni che questo occupa su disco. La gamma tonale che questo file riesce a memorizzare è di soli 8bit/canale, quindi del tutto simile ad un TIFF 8bit/canale o ad un BMP. Perché allora il formato JPEG occupa meno spazio addirittura di un TIFF compresso?

Anche le immagini JPEG sono compresse, ma utilizzano metodi lossy ovvero che durante la compressione perdono informazioni. Questo processo distruttivo per l’immagine permette al JPEG di occupare dimensioni anche molto ridotte. La perdita di qualità dell’immagine a seguito della compressione viene caratterizzata da una grandezza nota come fattore di compressione.

L’utilizzo di immagini JPEG è vivamente sconsigliato in astrofotografia. È comunque possibile salvare una compia dell’immagine finale ad 8bit o 16bit non compressa in JPEG al fine di una sua distribuzione sul web. In tal caso, per mantenerne la qualità si consiglia di utilizzare un fattore di compressione minimo.

Alcune DSLR permettono il salvataggio RAW + JPEG, utile per visualizzare velocemente le informazioni contenute nel file RAW

Ricordiamo infine che le fotocamere digitali, se non indicato diversamente, salvano le immagini su scheda (o disco nel caso di controllo remoto) in formato JPEG. Lo sviluppo RAW in JPEG ovvero la demosaicizzazione, bilanciamento del bianco e compressione, vengono effettuati dal microprocessore della DSLR (DIGIC per fotocamere Canon). Questo perché il tempo di processo sommato a quello di memorizzazione del formato JPEG su scheda è decisamente più veloce del solo salvataggio del file RAW. Ovviamente scattando in JPEG il file RAW (sempre prodotto) rimane in memoria e viene subito cancellato dopo il processo di “sviluppo” in JPEG.

FITS

Il formato FITS è molto diffusi in Astronomia e recentemente è divenuto uno standard per CCD astronomici amatoriali. Come il file RAW, questo formato contiene tutte le informazioni relative al sensore CCD precedenti al processo di demosaicizzazione.

Oltre all’immagine il file FITS può contenere molteplici informazioni e questo ne giustifica l’utilizzo in ambito scientifico professionale. Altro vantaggio che diventerà importante in futuro con le nuove generazioni di ADC, è che il formato FITS permette di salvare immagini a 32bit/canale.

File FITS possono essere interpretati da software come FITS Liberator (Plug-in di Photoshop) o IRIS.

Concludendo quindi abbiamo scoperto come ottenere il massimo dalle nostre immagini digitali ed in particolare è stata illustrata una procedura che a partire dal file RAW ci permette di costruire immagini corrette a 16bit o superiore. Queste possono essere a loro volta modificate grazie ai programmi di post produzione come Photoshop ed infine salvate in formati compressi come il “comodo” JPEG.

Il file RAW, così come l’immagine a 16bit (o superiore) devono venire archiviate, perché contengono tutte le informazioni sullo scatto. I file JPEG invece possono essere utili per un’eventuale pubblicazione sul web o per inviare le fotografie tramite mail.




Realizzare un Mosaico Lunare/Solare con una webcam

Su internet spesso si trovano immagini del disco lunare riprese con reflex digitali e obiettivi costosissimi. In questo articolo vedremo come con un telescopio economico (anche inferiore alle 500 euro) ed una webcam astronomica (da 150 euro circa) sia possibile fare delle riprese lunari con dettagli superficiali impressionanti, ben superiori a quelli ottenibili con una qualsiasi reflex digitale.
Partiamo dallo scoprire quali sono i due concetti che stanno alla base di questa tecnica che d’ora in poi chiameremo del “mosaico lunare/solare”.

RUMORE
Se puntate un 600 mm da 10’000 euro con rispettiva Canon EOS 1D Mark III DS da 6’200 euro (solo corpo) sul disco lunare e scattate, quello che otterrete è un singolo scatto del disco lunare da 21 Mpixel.
Non spaventatevi dei costi o dei fantastici 21 Mpixel, ma focalizzatevi sulla parola singolo scatto. Pensateci bene! Malgrado siamo di fronte ad una Canon EOS 1D Mark III DS, questa presenterà del rumore elettronico che andrà a disturbare la qualità della nostra immagine. La tecnica di riduzione del rumore può essere effettuata riprendendo multipli scatti e calibrando come descritto per l’astrofotografia deep sky nell’articolo “Guida all’astrofotografia digitale”. Ma quanti scatti possiamo effettuare… tanti: 10, 50, 100 … dipende dalla vostra pazienza.
Immaginate però ora di avere un piccolo sensore CCD, molto più sensibile alla luce e con rumore elettronico inferiore ai CMOS presenti nelle reflex digitali. Supponete anche che questo sensore sia in grado di riprendere dei video (AVI, RAW, …) con un numero di frame per secondo (frame rate) molto elevato, tipo 30 fps.

Esempio di webcam astronomica (una Philips SPC900NC modificata) applicata ad un telescopio.

Un video non è che una successione di immagini (frame) montati sequenzialmente uno dopo l’altro. Il programma Registax6, di cui in seguito riportiamo una guida all’utilizzo, permette di “smontare” i video AVI in singoli frame.
Con un frame rate di 30 fps, avrete 300 immagini in soli 10 secondi di video. A questo punto potrete utilizzare questi frame per effettuare somme e calibrazioni riducendo così ulteriormente il rumore elettronico.
Secondo voi quanto ci mettereste a scattare 1800 immagini in RAW con la vostra Canon EOS 1D Mark III DS? Con una webcam astronomica (dotata di CCD) vi basterà un solo minuto! Inoltre l’immagine finale sarà meno rumorosa data l’elevata qualità dei sensori CCD.

DIMENSIONE DELL’IMMAGINE
A questo punto però il fotografo malizioso potrebbe dire: “Ma io ho 24 Mpixel”, mentre tu con la tua CCD astronomica hai una risoluzione 640 x 480 pari a 0.3 Mpixel. Per rispondere alla provocazione possiamo sfruttare la tecnica del mosaico. Infatti il nostro fotografo ha un teleobiettivo da 600 mm. Se noi utilizziamo un sensore piccolo (quindi con fattore di amplificazione dell’immagine grande) con una lente moltiplicatrice e un telescopio di media focale, come quelli economici che trovate in un qualsiasi negozio di ottica, allora potrete riprendere la Luna a “pezzi” con una focale lunghissima e poi unire il tutto con la tecnica del mosaico (vedi guida). Con una webcam, alcuni astrofili sono riusciti ad ottenere un’immagine del disco lunare da 87.4 Mpixel!!! Ricordiamo inoltre che un qualsiasi telescopio, anche i più economici, hanno qualità ottica e diametro ben superiore a qualsiasi teleobiettivo in commercio.
Ovvio che per fare un buon mosaico è necessaria una buona dose di pazienza.

SEEING
Ed ecco infine uno dei problemi che solo una webcam può risolvere: il seeing. La luce che ci arriva dalla Luna, prima di arrivare nella nostra reflex, passa attraverso l’atmosfera terrestre. Oltre ad alterarne i colori, le differenze di temperatura tra gli strati più o meno densi dell’atmosfera terrestre, generano dei moti che si traducono in un effetto tipo “sfocatura” dell’immagine. Questo effetto prende il nome di “turbolenza atmosferica” o “seeing”. Effettuando un singolo scatto al disco lunare, quello che otterrete è un “surgelamento” del seeing, ovvero registrerete l’immagine così come in quello scatto è stata deformata / sfocata dal seeing. Se invece sommate molti frame estratti da un video, come avviene nelle webcam, allora il seeing risulterà “mediato”, ed essendo un fenomeno prevalentemente casuale, diminuirà come per magia all’aumentare del numero di frame utilizzati.

Concludendo, la ripresa del disco lunare e dei suoi particolari con DSLR e teleobiettivi costosi non ha passato, presente e probabilmente neppure futuro. Oggi abbiamo reflex in grado di effettuare video AVI in formato HD ma purtroppo non esiste ancora nessun software in grado di elaborare una mole così eccessiva di dati. Infine l’utilizzo di telescopi è sicuramente consigliato rispetto anche ai più costosi obiettivi dato che sono sistemi otticamente più semplici e spesso di qualità superiore. Una guida su come elaborare un video AVI al fine di ottenere l’immagine media e su come effettuare un mosaico lunare è riportata qui. Il software utilizzato è Registax6. Per scaricarlo basta seguire il link riportato in ASTROlink.




Tecniche di ripresa del cielo notturno

Il neofita spesso crede che l’unico modo per riprendere gli oggetti celesti sia collegare la propria reflex digitale al telescopio tramite “qualche” anello adattatore. In realtà questo è vero solo in parte. Esistono numerose configurazioni del proprio setup astronomico a seconda del campo visivo che l’astrofotografo vuole inquadrare. I metodi che affronteremo in questo post sono: ripresa a fuoco diretto, ripresa in parallelo, ripresa in proiezione di oculare e metodo afocale. Prima di affrontare però una descrizione dettagliata di questi, è corretto ricordare che è possibile riprendere il cielo anche senza l’ausilio di montature, fissando la propria camera ad un normale cavalletto fotografico. Per maggiori informazioni sulle possibilità che questo metodo offre si legga l’articolo “L’Astrofotografia di tutti i giorni”.

Ripresa a fuoco diretto e in proiezione d’oculare

Configurazione per riprese a fuoco diretto

La ripresa a fuoco diretto è la tecnica più “intuitiva” in cui, tramite un anello adattatore noto come anello T2, si collega al fuoco diretto del telescopio la propria fotocamera digitale. Ma cos’è il fuoco diretto?
Tutti i raggi di luce che incidono sul sistema ottico che costituisce il nostro telescopio (lenti e/o specchi) vengono focalizzati in un punto (piano) detto fuoco diretto del telescopio. Se però in prossimità del fuoco mettiamo un ulteriore sistema ottico, come un oculare, in grado di modificare l’ingrandimento fornito dal telescopio, allora questo modificherà il punto (piano) di fuoco che andrà a trovarsi in una posizione differente detta fuoco indiretto.
Se si pone la fotocamera digitale in concomitanza del fuoco indiretto è possibile riprendere l’oggetto celeste sfruttando l’ingrandimento fornito dall’oculare. Questa tecnica è detta ripresa a fuoco indiretto o in proiezione d’oculare.

Configurazione per riprese in proiezione d'oculare

Quando una reflex è collegata al fuoco diretto del telescopio la focale del sistema, così come il suo rapporto, è quella del telescopio. Nel caso invece di ripresa in proiezione d’oculare invece la focale equivalente sarà:
dove F è la focale del telescopio, Dp è la distanza tra l’oculare ed il sensore CMOS/CCD e Fo è la focale dell’oculare utilizzato per la proiezione. Da questa si evince il rapporto focale:
La ripresa a fuoco diretto è quella utilizzata per la ripresa di oggetti deep-sky mentre quella in proiezione d’oculare risulta adatta per la ripresa di stelle doppie e pianeti.

Ripresa in parallelo
Ma è strettamente necessario utilizzare un telescopio per riprendere il cielo notturno? In realtà no. È infatti possibile montare una fotocamera digitale equipaggiata di zoom, teleobiettivo o grandangolo in parallelo al telescopio, come mostrato in figura. Questo permette di aumentare il campo fornendo un ingrandimento adatto per la ripresa di grandi complessi nebulari, ammassi stellari o la Via Lattea stessa.

Configurazione per riprese in parallelo

Questo metodo è il più semplice, spesso alla portata del neofita. Il telescopio su cui è montato l’obiettivo può essere inoltre utilizzato come telescopio di guida, ovvero un sistema in grado di controllare che la montatura insegua bene il cielo mentre la camera è in ripresa.
In questa configurazione la lunghezza focale così come il rapporto, è quella dell’obiettivo montato in parallelo.

Metodo afocale
Questo metodo è quello più intuitivo e consiste nell’appoggiare una fotocamera digitale dotata di zoom direttamente all’oculare del proprio telescopio. In questo caso lo zoom rifocalizza sul sensore quanto verrebbe focalizzato normalmente sulla retina appoggiando l’occhio all’oculare, applicando inoltre un ulteriore fattore di ingrandimento. Dati i lunghi tempi di esposizione è spesso consigliato l’utilizzo di un supporto per la camera come quello mostrato in figura.

Configurazione per riprese con il metodo afocale

Questa tecnica è particolarmente adatta per la ripresa di stelle doppie e pianeti. Inoltre, data la configurazione del setup permette di utilizzare per riprese astrofotografiche anche telescopi dotati di fuoco interno come alcuni Newton o i telescopi solari LUNT PST.
In questo caso la focale equivalente del sistema è data da:dove Fm è la focale dell’obiettivo utilizzato, F la focale del telescopio e Fo la focale dell’obiettivo utilizzato. Il rapporto focale è invece definito come:

N.B.: tutte le focali indicate fanno riferimento ad un sensore FULL FRAME. Per calcolare la focale nel caso di sensori APS-C è necessario moltiplicare per il fattore di correzione (ad esempio 1.6 nel caso di Canon EOS 500D).




Corso di Astronomia alla Riserva Lago di Piano

ASTROtrezzi terrà un corso di Astronomia alla Riserva Lago di Piano. Questo si articolerà in tre lezioni di cui una pratica:

10 Novembre – ASTROfisica [SERATA CONFERMATA]
20.30 – Conferenza dal titolo “l’Universo a portata di mano”
In questa serata sarà possibile viaggiare nel tempo e nello spazio alla scoperta dell’Universo così come lo conosciamo oggi. Scopo della prima lezione è preparare il pubblico all’osservazione “pratica” del cielo notturno, oggetto della seconda serata.

DISPENSA DELLA CONFERENZA

Aurora Boreale da Sormano (CO) - Immagine GRUPPO AMICI DEL CIELO, tutti i diritti sono riservati

24 Novembre – ASTROfotografia [SERATA IN SOSTITUZIONE AD ASTRONOMIA]

20.30 – Conferenza dal titolo “Astrofotografia”
Ora che avete imparato ad orientarvi nell’immensità della volta celeste non volete scattare una foto ricordo? In questa conferenza vedremo come sia possibile riprendere il cielo utilizzando strumenti di vario genere: dal cellulare ai moderni CCD astronomici.

UNA SEMPLICE GUIDA ALL’ASTROFOTOGRAFIA DIGITALE LA TROVATE QUI, OPPURE LEGGETE IL LIBRO DI L. COMOLLI LA CUI RECENSIONE E’ RIPORTATA QUI. Ai neofiti suggeriamo anche gli articoli  L’Astrofotografia di tutti i giorni” e “Scegliere la propria strumentazione astrofotografica”.

08 Dicembre – ASTROnomia [SERATA CONFERMATA (EX 01 DICEMBRE 2012)]
20.30 – Osservazione del cielo stellato (vestirsi adeguatamente)
Vi siete mai chiesti come fanno gli astrofili a trovare galassie e nebulose nella vastità del cielo notturno? Con questo corso di Astronomia pratica all’aperto scoprirete come sia semplice orientarsi tra stelle e pianeti. Portate pure le vostre mappe del cielo e ottiche di vario genere (binocoli, cannocchiali o telescopi). Insieme scopriremo come sia semplice utilizzarle!

RIPORTIAMO DI SEGUITO LE FANTASTICHE IMMAGINI ASTRONOMICHE RIPRESE DA MOIRA CAPELLI AL TERMINE DEL CORSO DI ASTRONOMIA (fotocamera Canon EOS 60D a fuoco diretto di un telescopio Newton 150mm f/5)

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LA SERATA ASTRONOMIA SI TERRÀ IL GIORNO SABATO 08 DICEMBRE 2012 INDIPENDENTEMENTE DALLE CONDIZIONI METEO

PER ISCRIVERSI AL CORSO O MAGGIORI INFORMAZIONI: Quota di partecipazione 10.00 € per tutto il corso. Casa della riserva 0344/74961 oppure riservalagopiano@cmalpilepontine.itwww.facebook.com/riservalagodipianowww.facebook.com/volontarilagodipiano .




Scegliere la propria strumentazione astrofotografica

Muoversi nel mercato dell’astronomia ed in particolare in quello dell’astrofotografia può risultare difficile, specialmente per chi si affaccia per la prima volta a queste discipline. In questo post cercheremo di chiarirci le idee e “costruire” insieme la nostra prima strumentazione astronomica.
Il principiante si avvicina al mondo dell’astrofotografia sfogliando riviste e siti internet specializzati oppure come diretta conseguenza dei primi successi ottenuti con reflex digitale e cavalletto fisso utilizzando una di quelle tecniche descritte nell’articolo “L’astrofotografia di tutti i giorni”.
Recandosi nel primo negozio di ottica (e spesso anche di astronomia) quello che verrà proposto è un telescopio super-tecnologico in grado di puntare migliaia di oggetti celesti automaticamente. Il neofita, felice di non dover “studiare” il cielo delegando tutto al software del telescopio, lo acquista entusiasta pensando di aver speso molto per avere una strumentazione astronomica professionale. Inoltre le specifiche tecniche garantiscono ingrandimenti elevati e prestazioni di altissimo livello.
L’entusiasmo si trasforma regolarmente in delusione appena il giovane astrofilo cercherà di puntare il primo oggetto celeste. Questo non si troverà nel campo e richiederà una ricerca manuale, spesso complicata, da effettuare con uno strumento otticamente buio e montato su un cavalletto (in astronomia si parla di montatura) traballino. A questo punto c’è chi si rassegna, rimettendo il tutto nello scatolone e per sempre in cantina, chi insiste spinto dalla passione impazzendo definitivamente e chi vende tutto al fine di comprare un nuovo telescopio. Quanto state leggendo è pensato proprio per queste persone: astrofotografi potenziali uccisi dal mercato. Prima di pensare all’acquisto dello strumento bisogna però comprendere quali sono le parti più importanti di un setup astrofotografico:

M31 – 23/11/2009 ore 23.55 U.T., Canon 40D + Tamron CF 80-210 mm f/4.0 utilizzato a 210 mm, 90 secondi a 3200 ISO su EQ3.2. Filtro Tamron 58 mm Skylight A1.

Digital Single Lens Reflex (DSLR) – Reflex Digitale
Non è vero che per cominciare a riprendere il cielo è strettamente necessario avere una DSLR professionale o una camera CCD da migliaia di euro. È possibile infatti appoggiare una semplice fotocamera compatta all’oculare del telescopio riprendendo così le prime immagini di oggetti deep sky come ammassi stellari e nebulose nonché Luna e pianeti. Questo metodo, noto come metodo afocale, richiede l’acquisto di un apposito sostegno in grado di collegare la compatta al telescopio.
Ovviamente il metodo afocale con fotocamere compatte è solo un primo passo nel mondo dell’astrofotografia ma permette di ottenere velocemente risultati spesso gratificanti, soprattutto nella ripresa del nostro satellite naturale.
Se invece siete convinti di voler intraprendere la strada della fotografia astronomica allora l’acquisto di una reflex diviene necessaria. Quale? Qualsiasi, purché sia dotata di sistema LiveView, fondamentale per la messa a fuoco dello strumento (nel mirino della reflex, di notte, è praticamente impossibile vedere qualcosa).
Le moderne ed economiche Canon EOS 1000D e 1100D soddisfano già tutti i criteri astrofotografici.
Comprare una DSLR professionale per utilizzo prettamente astronomico ha un senso? La risposta è no. Con la stessa spesa è infatti possibile acquistare una camera CCD economica in grado di fornire immagini migliori.
Una volta che avrete cominciato a riprendere il cielo notturno vi accorgerete che le nebulose appariranno sempre di un rosa pallido. Questo è dovuto alla presenza di un filtro montato di fronte al sensore delle DSLR che, se per la fotografia diurna è importante al fine di ottenere immagini nitide, di notte diminuisce la sensibilità della camera alle lunghezze d’onda del rosso e quindi, di conseguenza, alla lunghezza d’onda di emissione delle nebulose (linea Hα). L’unico modo per aumentare la sensibilità della DSLR al rosso è quello di rimuovere il filtro originale e montare un filtro “astronomico”. Questa modifica prende il nome di “modifica Baader” in onore della principale ditta produttrice di filtri astronomici per DSLR.

Montatura
Una volta acquistata una camera digitale, il secondo e più importante step è la scelta della montatura. Il mercato offre molti modelli i cui prezzi variano da poche centinaia di euro a qualche decina di migliaia. Come orientarsi in questo zoo? Dato che questo post è pensato per neofiti, supponiamo che il budget a vostra disposizione sia comunque inferiore ai 1’500 €. In questo range non sono molte le montature a disposizione e ASTROtrezzi vi consiglia quelle prodotte dall’azienda SkyWatcher. Queste sono classificate utilizzando il nome EQ che sta per montatura equatoriale (si veda l’articolo “Le montature astronomiche”) associato ad un numero che cresce all’aumentare delle prestazioni. Queste ultime si possono riassumere nella qualità dell’inseguimento degli astri e nella capacità di sostenere una strumentazione pesante. Il modello più economico presente sul mercato è la EQ2. Questa, a mio avviso, NON è adatta per sostenere telescopi se non di piccole dimensioni, risultando infatti molto ballerina. Se proprio si vuole montare un telescopio si consiglia o un corto rifrattore o un Newton con diametro massimo pari a 130 mm.
Malgrado tutto, la EQ2 può comunque essere utilizzata per l’astrofotografia a patto che sia motorizzata (almeno in A.R.). Una montatura motorizzata non punta gli oggetti automaticamente ma si limita ad inseguire gli astri. Questa è l’unica funzione richiesta in astrofotografia, dato che gli oggetti si possono individuare nel cielo utilizzando le coordinate o, come si è sempre fatto con le mappe celesti.
Ma che immagini si possono ottenere con la EQ2? Purtroppo data l’esile struttura della montatura, l’unica cosa che possiamo utilizzare per riprendere il cielo sono obiettivi grandangolari montati direttamente sulla montatura costruendosi adattatori come quello riportato in “Collegare una fotocamera ad una montatura con attacco Vixen”. A differenza del cavalletto tradizionale, con una EQ2 è possibile riprendere in modo corretto la Via Lattea oltre ad ampie zone di cielo. Soggetti interessanti sono la costellazione di Orione o il Cigno che, in condizioni di cielo buio, possono offrire uno spettacolo unico.
Lo step successivo è l’acquisto di una montatura di tipo EQ3.2. Questa è più robusta della precedente e permette di montare obiettivi anche piuttosto pesanti. In visuale può sorreggere rifrattori e Newton con diametro massimo pari a 150 mm. Se motorizzata in entrambe gli assi e dotata di mirino polare è possibile riprendere immagini utilizzando obiettivi o zoom fino a circa 70 mm di focale.
Perché malgrado la montatura EQ3.2 sorregga obiettivi con focali superiori ai 70 mm bisogna comunque limitarsi a questo valore? Una montatura stazionata correttamente purtroppo non riesce ad inseguire adeguatamente gli astri. Questo perché è impossibile allinearla perfettamente con il polo celeste nord e anche se così fosse non è detto che i motori di inseguimento non commettano errori durante la posa.
Per risolvere questo problema è possibile montare il nostro teleobiettivo in parallelo ad un piccolo telescopio (si veda l’articolo “Tecniche di ripresa del cielo notturno” e “Collegare un fotocamera in parallelo con Geoptik GK2”) e, utilizzando un reticolo illuminato ed una stella, correggere gli eventuali errori di inseguimento della montatura.
Questa tecnica è nota come guida e con una montatura EQ3.2 garantisce un inseguimento discreto fino a focali pari a 100-300 mm. Oltre i 300 mm la risposta dei motorini alla guida risulta troppo imprecisa e le riprese presenteranno stelle non puntiformi. Non pensiamo però che con un teleobiettivo da 200-300 mm non sia possibile riprendere il cielo. Molte nebulose nonché la galassia di Andromeda sono ben inquadrate solo con focali inferiori ai 500 mm, quindi già con un piccolo teleobiettivo ce n’è di lavoro!
Ma se le nebulose più grandi non vi bastano più o volete una ripresa delle stesse in alta definizione effettuata con obiettivi corretti fino ai bordi, allora non vi bastano più gli zoom e i teleobiettivi ma dovrete comprare un piccolo rifrattore apocromatico. A questo punto i telescopi diventano due: uno di ripresa costoso e di ottima qualità ed uno di guida. Il peso della coppia sicuramente supera la massima portata della EQ3.2 e quindi dovrete passare al prossimo modello sul mercato, la HEQ5. Questa supporta in visuale rifrattori di tutte le dimensioni e Newton fino a 200 mm di diametro. In fotografico è possibile invece montare un rifrattore o un piccolo newton con affiancato un leggero telescopio di guida. A differenza della EQ3.2, la HEQ5 possiede la porta autoguida. Questa permette di sostituire all’oculare con reticolo illuminato una camera (di solito con sensore CMOS) dando la possibilità, tramite l’utilizzo di un PC, di controllare automaticamente la montatura in modo da correggere l’errore di inseguimento. Questa tecnica prende il nome di autoguida, da cui il nome della porta che permette di controllare la montatura. Grazie all’autoguida, una volta stazionato correttamente lo strumento, funzionerà automaticamente lasciando a voi il tempo per prendere un buon caffè.
La massima focale consigliata rimane comunque 500 mm, oltre la quale si ottengono inseguimenti non precisi.
Siete ancora insoddisfatti? Volete riprendere le galassie che con un 500 mm di focale appaiono come piccoli batuffoli di cotone? Allora non vi resta che acquistare una NEQ6, ultima montatura della casa SkyWatcher che vi permette di montare telescopi di grandi dimensioni affiancate da leggeri rifrattori di guida. La massima focale utilizzabile rimane comunque inferiore ai 1500 mm oltre i quali il mosso può cominciare a farsi evidente. Ovviamente anche la NEQ6 è dotata di porta autoguida. Ricordiamo che tutte le montature, tranne la NEQ6 funzionano con batterie a torcia mentre a quest’ultima dovete affiancare una batteria da almeno 7Amph.

Esempio di setup astrofotografico

Ottica
Alcune delucidazioni sulle ottiche da utilizzare per l’astrofotografia sono state date nel paragrafo montatura. Vediamo ora di dare maggiori informazioni a riguardo. Se avete una compatta e volete riprendere immagini con il metodo afocale allora il problema non si pone. Se siete invece in possesso di una DSLR allora dovete cominciare a sfruttare al massimo le ottiche già a vostra disposizione. Purtroppo per riprendere le stelle servono ottiche corrette e quindi gli zoom sarebbero da evitare. Anche gli obiettivi puri (persino quelli Canon o Nikon!) non sono corretti dal punto di vista ottico e danno aberrazioni visibili, specialmente ai bordi. Consigliamo quindi di chiudere leggermente il diaframma in modo di aumentare la qualità ottica dell’obiettivo.
Per quanto riguarda i telescopi la scelta si rivolge principalmente ai tradizionali rifrattori (apocromatici) e Newton. Oggi sul mercato appaiono i primi Ritchey-Chrétien anche se i prezzi si mantengono ancora leggermente superiori al migliaio di euro. Esiste il modello Ritchey-Chrétien  da 6 pollici che costa solo 500 € ma come tutte le cose economiche è uno strumento di bassa qualità e quindi se possibile da evitare.
Rifrattore o Newton? È una domanda che l’astrofilo e l’astrofotografo si pone da decenni. Oggi possiamo affermare la seguente cosa: se volete un telescopio otticamente perfetto e leggero (ma buio) allora comprate un rifrattore altrimenti andate su un Newton. Ricordatevi che se dovete fare astrofotografia si rende necessario l’acquisto di un correttore di coma per Newton o di uno spianatore di campo per i rifrattori.
Per il telescopio guida consigliamo un rifrattore acromatico o apocromatico del diametro di 70 mm o superiore (f/7). Telescopio di ripresa e telescopio guida dovranno essere montati solidamente alla montatura e tra loro al fine di non presentare flessioni le quali possono dare del mosso durante le riprese, anche se guidate correttamente. Il collegamento con la montatura deve essere effettuato preferibilmente tramite barra tipo Vixen o Losmandy.

Accessori
In questo paragrafo riportiamo tutti gli accessori non descritti precedentemente e necessari per iniziare una sessione astrofotografica. Prima di tutto è necessario un anello T2 per collegare la DSLR ad un qualsiasi telescopio. Se si fanno riprese in parallelo con obiettivi fotografici allora questo anello non si renderà necessario.
Secondo oggetto è o un reticolo illuminato, dal costo contenuto, oppure una più costosa camera di guida.
Purtroppo la DSLR può subire vibrazioni durante lo scatto e in particolare si raccomanda di non toccare mai la camera durante l’intera sessione astrofotografica. Per fare questo è necessario utilizzare la DSLR in modalità scatto remoto. Questo può avvenire o con l’ausilio di un telecomandino oppure attraverso il cavo USB in dotazione. In questo ultimo caso si rende però necessario l’utilizzo di un PC. Consigliamo un netbook ed in ogni caso un PC con schermo non a cristalli liquidi. Questi infatti tendono a congelare durante le sessioni invernali. Inoltre il PC deve consumare pochissimo e quindi sono da evitare CPU molto potenti o schermi particolarmente grandi. Un tavolino da pic nic, una sedia portatile ed una torcia dotata di luce rossa completano infine il setup di un giovane astrofotografo.

Con questa guida speriamo di aver risposto a tutti i vostri dubbi su quale strumentazione acquistare per riprendere le vostre “prime” immagini astronomiche. A titolo di esempio riportiamo alcuni setup di ripresa oltre alla portata delle varie montature SkyWatcher:

ESEMPI DI SETUP FOTOGRAFICI
Configurazione low cost
Montatura EQ2
Motori per montatura EQ2
Reflex Canon EOS 1100D + obiettivo zoom 18-55 mm
Modifica Baader
Collegamento Montatura – Reflex
Telecomando remoto

Fotografia a grande campo < 100 mm
Montatura EQ3.2
Motori per montatura EQ3.2 (due assi)
Reflex Canon EOS 500D + obiettivo zoom 18-55 mm
Modifica Baader
obiettivo zoom Canon 75 – 300 mm non stabilizzato
Telescopio di guida
Collegamento Reflex – Telescopio di guida
Oculare a reticolo illuminato
Netbook + incremento memoria RAM

Fotografia a medio campo < 500 mm
Montatura HEQ5
Motori per montatura HEQ5 (due assi) + modifica porta autoguida
Reflex Canon EOS 500D
Modifica Baader
Telescopio di guida
Telescopio di ripresa Rifrattore Tecnosky ED carbon fiber 80mm f/7
Spianatore di campo
Collegamento Telescopio di ripresa – Telescopio di guida
Camera di guida
Netbook + incremento memoria RAM
Flat box

Fotografia a campo stretto < 1500 mm
Montatura NEQ6
Reflex Canon EOS 550D
Modifica Baader
Telescopio di guida
Telescopio di ripresa Rifrattore Tecnosky Tripletto 130mm f/7
Spianatore di campo
Collegamento Telescopio di ripresa – Telescopio di guida
Camera di guida
Netbook + incremento memoria RAM
Flat box

PORTATA DELLE MONTATURE SKYWATCHER
EQ2: 2.8 kg
EQ3.2: 5.1 kg
HEQ5: 10.2 kg
NEQ6: 15.3 kg




Guida pratica all’astrofotografia digitale

GUIDA PRATICA ALL’ASTROFOTOGRAFIA DIGITALE (*****)
Lorenzo Comolli – Daniele Cipollina
Gruppo B Editore, ISBN 978-88-95650-33-3, 2011, prezzo 26.00 €

“Guida pratica all’astrofotografia digitale” è oggi il miglior libro di astrofotografia presente sul mercato italiano. Le prima due parole del titolo riassumono le caratteristiche peculiari di questo libro. Prima di tutto infatti questo è una guida per tutti gli astrofotografi. Qui infatti troverete informazioni dettagliate sul funzionamento delle reflex digitali (DSLR) e dei CCD astronomici nonché tutto quello che bisogna conoscere al fine di effettuare degli scatti astronomici.

A mio avviso è una guida realmente adatta a tutti. Prova ne è il fatto che al neofita questo libro apparirà complicato al punto giusto mentre l’esperto ritroverà tra le pagine i concetti a lui noti ma spiegati con estrema semplicità e chiarezza.

Ma “Guida pratica all’astrofotografia digitale” non è una banale guida ma è una guida pratica. Questa è una caratteristica difficile da trovare in un libro di astrofotografia!

In particolare gli autori conducono il lettore mano nella mano (o meglio mano sul mouse) tra i labirinti di programmi quale Maxim DL o Photoshop. A differenza di quanto si trova spesso nei forum di astrofotografia L. Comolli e D. Cipollina non si limitano a dare consigli ma indicano parametri e valori da attribuire alle varie funzionalità presenti nei più comuni software astronomici nonché schemi per la costruzione artigianale di alcune utility quali flat box, alimentatori 12V per Canon e molto altro ancora.

Questa guida è quanto di più utile e completo si possa trovare sul mercato, tuttavia qualche piccola critica si rende necessaria. Prima di tutto è l’utilizzo di software proprietario come Maxim DL e Photoshop il cui costo è veramente elevato, spesso fuori dalla portata economica di un neofita. Sarebbe stato meglio l’utilizzo di programmi opensource, multi-piattaforma e gratuiti come IRIS e Gimp ma, come dicono in un passo del libro gli stessi autori: “il miglior programma per l’astrofotografia è, a parità di prestazioni, quello che si sa usare meglio” e quindi giustamente si sono limitati a trattare il software che loro abitualmente utilizzano per l’elaborazione delle immagini astronomiche. Anche i plug-in per Photoshop riportati nel libro sono spesso a pagamento, ma in questo caso il loro costo è contenuto.

Seconda nota negativa potrebbe essere l’invecchiamento del testo. Infatti tra qualche anno i software cambieranno e la parte pratica di questa guida rischia di diventare obsoleta. In ogni caso il tempo di invecchiamento rimane comunque lungo dato che, ad esempio, le funzionalità di Photoshop sono più o meno le stesse da ormai più di 10 anni.

A chi consigliare quindi questo libro? A tutti, dall’astrofotografo neofita all’esperto. Si tratta di uno di quei testi che un astrofotografo (ed un gruppo di astrofili) non può non avere nella propria libreria.

Cosa aspettarsi dal futuro? Potrebbero nascere due libri satelliti di questa ottima guida pratica: uno dedicato al neofita, più semplice e capace di guidare il principiante all’acquisto e all’utilizzo della “prima” strumentazione astrofotografica. Un secondo dedicato all’esperto con descrizioni dettagliate e test più specifici di quelli riportati nel libro di L. Comolli e D. Cipollina. Questa trilogia potrebbe coprire completamente tutto quanto si può conoscere dell’Astrofotografia Digitale.

Riportiamo di seguito l’indice e la copertina del libro:

Guida pratica all’astrofotografia digitale di L. Comolli e D. Cipollina
  • Prefazione
  • Introduzione
  • Capitolo 1. La strumentazione
    • Le camere digitali
    • I sensori digitali
    • Telescopi e ottiche
    • Le montature
    • I sistemi di guida automatica
    • Gli accessori
    • I filtri fotografici
  • Capitolo 2. Prima di cominciare
    • Il sito osservativo
    • Allineamento polare della montatura
    • I settaggi delle DSLR
  • Capitolo 3. Iniziare a fotografare
    • L’acquisizione delle immagini
    • La messa a fuoco
    • Riprendere i frame di calibrazione: dark frame e flat field
    • Il bilanciamento del bianco
    • Il raffreddamento dei sensori
    • I tipi di astrofotografia
    • La scelta degli oggetti da riprendere
    • Inquadrare il soggetto
    • Lo scatto
  • Capitolo 4. Il pretrattamento delle immagini
    • La necessità del pretrattamento
    • I programmi per la gestione tecnica delle immagini
    • La calibrazione delle riprese con dark e flat
    • Convertire i file RAW
    • L’allineamento e la compositazione
  • Capitolo 5. L’elaborazione cosmetica
    • Perché elaborare?
    • La scelta del programma: Photoshop
    • I preliminari: la regolazione dei livelli e delle curve
    • La maschera sfuocata e la DDP
    • La correzione di colore selettiva sul cielo e sugli oggetti
    • Le tecniche RGB, LRGB, HaLRGB, HaOIII ed altre
    • L’elaborazione degli oggetti con elevata differenza di luminosità
    • La rimozione della vignettatura e dei gradienti
    • La riduzione del rumore di fondo
    • La riduzione dei diametri stellari
    • L’esaltazione del colore delle stelle
    • Aumentare la nitidezza con il filtro “Accentua paesaggio”
    • L’uso dei plug-in
    • Creare le “Azioni” con Photoshop
    • Il salvataggio dei file
  • Conclusione
    • Gestire le immagini
    • Diffusione su internet e sulle riviste
    • Stampare i migliori risultati
    • Consigli generali
  • Appendice
    • Riferimenti bibliografici
    • Accessori da autocostruire
    • Formule utili



La tecnica LRGB

Abbiamo visto in “Costruire un’immagine a colori” come il processo di debayerizzazione produca immagini di dimensioni pari a quelle del sensore ma di qualità inferiore. Algoritmi sempre più sofisticati cercano di interpolare sempre meglio i pixel di diverso colore al fine di ottenere immagini nitide. Se invece di una DSLR utilizziamo un CCD monocromatico (quindi senza filtri applicati al sensore) il processo di debayerizzazione viene bypassato ottenendo immagini a colori di ottima qualità. Questo comporta la ripresa di 3 immagini in bianco e nero con filtri rispettivamente R, G e B. Ottenere un’immagine a colori a partire da un CCD monocromatico è quindi possibile ma molto dispendioso in termini di tempi di ripresa che vengono triplicati. Nel 1996 è però stata sviluppata una tecnica, detta LRGB, in grado di combinare un’immagine a colori ad alta risoluzione cromatica e bassa risoluzione spaziale con un’immagine in bianco e nero ad alta risoluzione spaziale nota come immagine di luminanza. Dal punto di vista patico, questo significa che è possibile riprendere le tre immagini in bianco e nero con filtri R,G e B a alta risoluzione cromatica e bassa risoluzione spaziale. La prima condizione si ottiene aumentando il rapporto segnale/rumore e quindi il tempo di esposizione (o utilizzando ottiche più luminose) o utilizzando un bin 2 x 2. In quest’ultimo caso si ha una riduzione della risoluzione spaziale che però, per quanto detto prima, non è importante.
L’immagine di luminanza L invece deve contenere il maggior numero di informazioni sulla distribuzione spaziale degli oggetti e quindi è consigliabile utilizzare un’immagine in B/W senza applicazione di nessun filtro. Solitamente, per evitare di sporcare il sensore si utilizza un filtro taglia IR-UV. In questo caso ovviamente è richiesto l’utilizzo di un bin 1 x 1 in modo da minimizzare la perdita di particolari. Le quattro immagini LRGB verranno poi composte formando l’immagine a colori finali. Nulla vieta di utilizzare differenti combinazioni di filtri per costruire l’immagine a colori che comunque deve soddisfare le condizioni precedentemente illustrate. Non si è neppure vincolati ad utilizzare lo stesso tipo di telescopio per le riprese a colori ed in luminanza.

La composizione LRGB

La tecnica LRGB può ad esempio essere applicata utilizzando come filtro di luminanza un filtro a banda stretta al fine di enfatizzare le zone di una determinata nebulosa che emettono in una riga specifica dello spettro elettromagnetico (si parla ad esempio di HαRGB) oppure si possono usare tricromie differenti come “l’Hubble Palette” SII Hα OIII che utilizza invece dei filtri RGB quelli a banda stretta dello Zolfo, dell’Idrogeno e dell’Ossigeno.




Costruire un’immagine a colori

Alla luce di quanto riportato nei post precedenti, DSLR e CCD producono  una matrice di pixel. Ciascun pixel è un numero intero proporzionale al numero di fotoni che si sono depositati in quel determinato elemento fotosensibile. A questo punto, come descritto in “ADC: dal mondo analogico a quello digitale” ad ogni valore di luminosità del pixel è possibile associare un tono di grigio. Questo può essere poi visualizzato a monitor o stampato su pellicola fotografica. L’insieme di tutti i pixel costituisce così l’immagine digitale. Questa risulta però essere un’immagine in bianco e nero. Come è possibile? Abbiamo analizzato solo il caso di sensori in bianco e nero? Ed i sensori a colori?
Cominciamo subito con il dire che i sensori a colori non esistono. Tutti i sensori, siano essi CCD o CMOS sono in grado di generare immagini in bianco e nero. Allora come è possibile costruire un’immagine a colore?
Si sfrutta un particolare modello di colori di tipo additivo noto come RGB. Questo dice che “ogni” colore è descrivibile come la somma adattiva di tre colori primari. Per motivi fisiologici legati alle frequenze cui sono più sensibili i fotorecettori dell’occhio umano (coni) si è deciso di utilizzare il rosso 700 nm (R), verde 546.1 nm (G) e il blu 455.8 nm (B) da cui il nome del modello RGB.
Ma cosa comporta questo dal punto di vista pratico? Ogni colore è visto come la somma, pesata dal livello di luminosità, dei tre colori primari RGB. Se ora ho tre immagini in bianco e nero, ciascuna delle quali rappresenta la componente R, G e B dell’oggetto reale, allora posso costruire l’immagine a colori a partire da queste.
Come avrete capito il gioco è fatto. Basta riprendere con il nostro sensore in bianco e nero tre immagini: una con un filtro rosso, una con un filtro verde ed una con un filtro blu. La combinazione delle tre fornirà l’immagine a colori. Quanti colori? Se ogni immagine in bianco e nero ha 2^bit toni, l’immagine risultate sarà data da 2^bit x 2^bit x 2^bit = 2^3 x bit colori. Questa tecnica di costruzione delle immagini è quella che viene normalmente utilizzata nei sensori CCD astronomici dove per ogni oggetto celeste si effettuano tre riprese applicando rispettivamente filtri RGB.
Per le reflex però ci troviamo di fronte ad un problema di tipo tecnologico. Risulta infatti impossibile effettuare tre scatti per ciascuna ripresa a colori (considerando anche il tempo di sostituzione del filtro). Vi immaginate riprendere un’auto in corsa in queste condizioni?
Il problema è stato risolto montando di fronte ad ogni fotoelemento un opportuno filtro colorato. Può sembrare impossibile eppure la tecnologia attuale è in grado di realizzare filtri colorati con dimensioni veramente infinitesime.
La distribuzione dei filtri sulla matrice di fotoelementi (ovvero sul sensore) è nota come Matrice CFA (Color Filter Array). Ci sono molteplici possibili combinazioni. Preso un gruppo di quattro pixel allora abbiamo:

  • Matrice di Bayer RGGB: filtri rosso, verde, verde e blu (Figura 1).
  • Matrice RGBE: filtri rosso, verde, blu e smeraldo.
  • Matrice CYYM: filtri ciano, giallo e magenta.
  • Matrice CYGM: filtri ciano, giallo, verde e magenta.
  • Matrice RGBW: filtri rosso, verde, blu e trasparente.

Figura 1: le varie configurazioni della matrice di Bayer: a) RGGB, b) GRBG, c) GBRG e d) BGGR.

In questo articolo parleremo in particolare della Matrice di Bayer o RGGB (spesso riportata come RGB). Cominciamo con il notare che la scelta di due filtri verdi non è casuale. L’occhio umano è più sensibile al verde e pertanto, per avere una migliore risposta della DSLR, si è deciso di aumentare il numero di filtri di questo colore.
Ad ogni scatto quindi il 25% del sensore riprenderà un’immagine in bianco e nero filtrata rossa, un altro 25% del sensore riprenderà un’immagine in bianco e nero filtrata blu ed infine il restante 50% riprenderà un’immagine in bianco e nero filtrata verde. Ora però, se prendiamo un determinato pixel questo avrà solo un valore dei tre canali RGB. Come ottenere il colore?
È necessario creare un algoritmo in grado di “stimare” il valore che un pixel avrebbe assunto con un determinato filtro, partendo da quello realmente assunto dai pixel vicini. Tale processo è noto come demosaicizzazione o debayerizzazione. Esistono ovviamente molteplici modi per demosaicizzare un’immagine RGB tra cui ricordiamo:

  • Variable Number of Gradients (VNG): calcola i gradienti vicino al pixel di interesse e sceglie il minimo ovvero quello che si traduce nel più morbido in termini di immagine.
  • Pixel Grouping: calcola il valore di un pixel come opportuna combinazione dei vicini.
  • Adaptive Homogeinity – Directed: questo metodo seleziona la direzione di interpolazione in modo da massimizzare l’omogeneità.
  • Advanced Chroma Corrective: è una delle più accurate quanto complesse routine di demosaicizzazione.

Tutte queste tecniche (ne esistono altre non discusse in questo post) permettono così di ottenere un’immagine a colori a partire da un singolo scatto. Il prezzo da pagare è una perdita in qualità a seguito del processo di demosaicizzazione. Per quanto riguarda le DSLR Canon, il processo di demosaicizzazione è effettuato dal processore Canon DIGIC o da software dedicati nel caso in cui si decida di scattare in RAW. In Figura 2 sono riportati i canali R,G e B di un’immagine ripresa con una Canon EOS 500D.

Figura 2: scomposizione dell'immagine nei canali RGB. Si noti come il canale più luminoso sia il rosso associato alla nebulosa (riga Hα). Il canale verde invece presenta meno strutture ma con un'ottima risoluzione grazie al numero doppio di pixel dotati di filtro G. Il canale blu è spesso il peggiore sia in termini di qualità a causa sia del minor numero di pixel utilizzati durante il processo di debayerizzazione che del minor numero di dettagli presenti.




Concorso ASTROfotografico 2012

Concorso ASTROfotografico 2012 è il primo “concorso fotografico” organizzato da ASTROtrezzi.it . Nulla di formale, solo un modo alternativo di far conoscere ASTROtrezzi.it e stimolare il vostro interesse per la ripresa del cielo notturno (diurno). NON è necessario avere una strumentazione astronomica professionale come descritto in questo post. Serve solo tanta fantasia… Ovviamente il concorso non ha tema se non banalmente: il cielo.

Non esiste nessuna commissione giudicatrice, targhette o diplomi. Le immagini che invierete a davide@astrotrezzi.it saranno giudicate da Davide Trezzi in funzione dell’età dell’autore (bambino o adulto), della strumentazione utilizzata e della qualità dello scatto.

Il vincitore riceverà una stampa di una delle foto presenti su ASTROtrezzi. Infine l’immagine prescelta diventerà la foto bacheca di ASTROtrezzi su facebook. Cosa aspettate… inviate le vostre foto!!!

locandina del concorso

Riportiamo di seguito le immagini dei partecipanti in ordine di sottomissione.

Maia Mosconi (04/10/2012)

Simona Danielli (09/10/2012)

Boris Mosconi (09/10/2012)

Paolo Mori (15/10/2012)

Rosario Magaldi (16/10/2012)

Ilea Valentin (23/10/2012)

Rocco Parisi (05/12/2012)

Emiliano Riva (24/12/2012)

Giuseppe Alvaro (28/12/2012)




Canon EOS 40D

Questo post, in continuo aggiornamento, riporta una serie di test effettuate su una DSLR modello Canon EOS 40D acquistata nel 2009.

Rumore in funzione del tempo di esposizione
Questo test si prefigge di studiare la variazione del rumore in funzione del tempo di esposizione (e quindi della temperatura) per sensibilità fissata, pari a 100 ISO. Con rumore intendiamo la larghezza della gaussiana relativa al valore di buio. Infatti se riprendiamo un’immagine di buio (dark), effettuata ad esempio ponendo il tappo di fronte all’obiettivo, dovremmo ottenere in linea teorica una riga a 0 ADU corrispondente alla situazione di zero fotoni raccolti in ciascun fotoelemento. Per questioni di natura fisica ed elettronica, si è deciso di associare al valore di buio un certo numero di ADU noto come offset. Inoltre vari rumori (casuali) associati al processo di fotorivelazione fanno si che lo spettro di buio non sia una riga ma una distribuzione gaussiana centrata nell’offset e con larghezza pari al rumore. Lo spettro di buio a 100 ISO a macchina “fredda” (25 °C) e a tempo di esposizione pari a 1/8000 secondo è riportato in figura 1.

Figura 1: Spettro di buio di una Canon EOS 40D (1/8000 secondo, 25°C @ 100 ISO)

Un fit gaussiano dello spettro di buio mostrato in figura 1 fornisce un valore del rumore pari a σ = 5.55 ADU, confrontabile con il valore del readout noise di 5.74 ADU misurato da Christian Buil (http://www.astrosurf.com/buil/eos40d/test.htm). Questo valore dipende evidentemente dalla sensibilità utilizzata e dal tempo di esposizione. In figura 2 è riportato il valore del rumore in funzione del tempo di eposizione. Come si vede si ha un aumento esponenziale in scala semilogaritmica che si traduce in un andamento lineare in funzione del tempo di esposizione. Un fit lineare fornisce un coefficiente angolare pari a 0.003774 ADU/s ed un valore di rumore zero pari a 5.46 ADU. Questo porta ad un aumento del rumore pari a 0.23 ADU/min pari al 4.1% del valore zero.

Figura 2: rumore in funzione del tempo di esposizione per sensibilità pari a 100 ISO (punti rossi). In blu è stato sovrapposto il fit lineare.

Durante la prova è stata monitorata anche la temperatura della camera (estraendola dai dati EXIF), il cui andamento in funzione del tempo è riportato in figura 3.

Figura 3: andamento della temperatura della camera in funzione del tempo.

Rumore in funzione degli ISO
Il rumore non è solo funzione del tempo di esposizione ma anche della sensibilità utilizzata. Si è pertanto effettuata una misura di rumore mantenendo costante la quantità di luce raccolta. Questo si traduce nella scelta dei seguenti tempi di esposizione: 480 sec. @ 100 ISO (33°C), 240 sec. @ 200 ISO (36°C), 120 sec. @ 400 ISO (36°C),  60 sec.  @ 800 ISO (38°C), 30 sec. @ 1600 ISO (38°C) e 15 sec. @ 3200 ISO (38°C). L’andamento del rumore in funzione degli ISO è mostrato in figura 4.

Figura 4: andamento del rumore in funzione della sensibilità (ISO).

Offset in funzione del tempo di esposizione
L’offset o bias è il valore in ADU associato al segnale di buio. Il fit dello spettro mostrato in figura 1 con una distribuzione gaussiana fornisce un valore del centroide, corrispondente all’offset, pari a 1024.72 ADU compatibile con il valore 1024 ADU misurato da Christian Buil (http://www.astrosurf.com/buil/eos40d/test.htm). Purtroppo l’offset ha una leggera dipendenza dal tempo di esposizione (e quindi dalla temperatura) riportata in figura 5. Da un fit lineare si evince un coefficiente angolare pari a – 0.0095 ADU/s ed un valore di offset zero pari a 1024.82 ADU. Questo porta ad una variazione dell’offset di 0.57 ADU/min pari al 0.056% del valore zero.

Figura 5: posizione dell'offset in funzione del tempo di esposizione per sensibilità pari a 100 ISO (punti rossi). In blu è stato sovrapposto il fit lineare.