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Progetto RadioASTRO80

Nell’articolo Radioastronomia a microonde (10-12 GHz), abbiamo introdotto l’importanza della Radioastronomia e l’opportunità che questa offre a noi astrofili di accedere ai misteri più profondi del Cosmo. In questo articolo invece ci dedicheremo al progetto RadioASTRO80, ovvero la costruzione di un vero e proprio radiotelescopio amatoriale nel range delle microonde (10-12 GHz). Ricordo che ASTROtrezzi non è responsabile di un qualsiasi danno a strumentazione e/o persone a seguito delle modifiche qui riportate.

Iniziamo pertanto con identificare quali sono i processi chiave che portano ad una “osservazione” radioastronomica. Prima di tutto dobbiamo identificare una sorgente, possibilmente astronomica, di onde radio (nel nostro caso microonde) sufficientemente intensa in modo da poter testare con semplicità il nostro strumento. Come per la luce visibile, anche nelle microonde, la sorgente astronomica più luminosa del cielo è il Sole. Infatti, comportandosi come quello che i fisici chiamano “corpo nero” (che per il Sole potrebbe sembrare una contraddizione), il Sole non emette luce solo nel visibile ma anche in una vasta gamma di radiazioni alcune delle quali raggiungono la superficie terrestre come l’infrarosso, le microonde o le onde radio. A questo punto, l’onda a microonde che arriva dal Sole deve essere raccolta da uno strumento ottico e convertita in un segnale elettrico. Per quanto riguarda la luce visibile, è l’occhio a svolgere questa funzione grazie a coni e bastoncelli in grado di convertire la luce in impulsi nervosi che attraverso il nervo ottico raggiungeranno il nostro cervello. Per le microonde e onde radio, l’occhio viene sostituito dall’antenna. L’antenna astronomica è praticamente identica a quella che utilizziamo per ricevere ad esempio la radio, la TV o i cellulari. Tutte queste tecnologie infatti utilizzando le onde radio come mezzo di comunicazione per trasportare i segnali più svariati. La forma e la tipologia di antenna dipende dalla lunghezza d’onda e quindi dal tipo di radiazione da captare. In particolare le antenne per la TV satellitare, dette generalmente parabole, sono in grado di ricevere segnali radio tra 10 e 12 GHz (microonde). Pertanto puntando un’antenna TV satellitare verso una sorgente astronomica che emette microonde con frequenza compresa tra 10 e 12 GHz, questa emetterà un segnale elettrico proporzionale all’intensità dell’onda ricevuta. Il debole segnale prodotto dall’antenna viene subito amplificato e abbassato in frequenza (dalle decine di GHz al centinaio di MHz) attraverso un componente elettronico noto come Low Noise Block converter (LNB). Al fine di non ottenere un segnale di scarsa qualità, il LNB deve essere poco rumoroso e pertanto deve avere il numero di dB associati al rumore il più basso possibile. Questo mediamente è compreso tra 0.1 ed 1.0 e pertanto LNB da 0.1 o 0.2 dB sono più che sufficienti per costruire un radiotelescopio amatoriale. Il sistema di antenna parabolica da 80 cm e LNB da 0.1 dB di rumore (38.8 dB di guadagno) ha un prezzo di circa 20 euro. A questo punto avete il vostro segnale radio amplificato dal LNB. Con questo potete sbizzarrirvi costruendo sistemi sempre più complessi. Il progetto RadioASTRO80 ne include tre, che funzionano contemporaneamente offrendo al radiotelescopio amatoriale, la massima operatività. In seguito andremo ad analizzarne uno alla volta, partendo dal più semplice ed economico arrivando al sistema più complesso (e ovviamente costoso).

MISURA AUDIO DI UN SEGNALE RADIOASTRONOMICO

La cosa più semplice che si può fare un segnale radioastronomico è quello di trasformarlo in un segnale acustico. Per fare ciò ci si può avvalere di una tecnologia economica, presente sul mercato per fini ovviamente diversi da quello astronomico ovvero il satellite finder. Questo strumento, che in italiano suonerebbe come “il cercatore di satelliti” permette, una volta collegato al sistema antenna + LNB, di identificare un satellite TV emettendo un segnale tanto più intenso quanto più intenso è il segnale raccolto dall’antenna. Questo garantisce un comodo ed economico puntamento delle antenne paraboliche. Ma per noi radioastronomi amatoriali, il satellite finder è un generatore di suoni che sono tanto più acuti quanto intensa è la radiosorgente astronomica che andiamo a puntare. Quindi non ci resta che andare a comprare un satellite finder, del costo di circa 10 euro, attaccarlo all’uscita del LNB e puntare l’antenna verso il Sole. Sentiremo un segnale che aumenterà di intensità finché il Sole non entrerà al centro del campo visivo dell’antenna. In questo modo possiamo puntare la parabola alla destra del Sole, ed “ascoltarne” il suo transito. Questo è il sistema più semplice per costruirsi un radiotelescopio amatoriale. Dobbiamo comunque riportare un problema connesso al satellite finder. Questo oggetto è pensato per essere collegato al decoder della TV satellitare, il quale fornisce in uscita una tensione di 15V, utile per alimentare il satellite finder e l’LNB. Purtroppo essendo il nostro utilizzo astronomico, se vogliamo svincolarci dalla presenza del decoder TV, è necessario fornire al satellite finder ed all’LNB una tensione esterna. Questa può essere fornita o tramite un convertitore 220 V AC (alternata) in 15 V DC (continua) o tramite un pacco batterie costituito da due batterie da 9V. Seppur quest’ultima configurazione fornisce una corrente continua da 18V, questa è supportata dal sistema anche se la tensione massima consigliata è di 17V. In ogni caso preferiamo l’utilizzo di un convertitore AC-DC in quanto la stabilità di amplificazione dipende dalla stabilità dell’alimentatore, garantita maggiormente dalla rete elettrica rispetto alle normali batterie.

La tensione andrà portata all’ingresso “decoder TV” del satellite finder. L’elettronica interna del satellite finder con relativi ingressi LNB e decoder TV sono mostrati in Figura 1.

Figura 1: l’elettronica interna del satellite finder.

MISURA ELETTRICA DI UN SEGNALE RADIOASTRONOMICO

Il satellite finder però non genera solo un segnale audio, ma la stessa tensione che alimenta il “cicalino”, permette ad un’asticella analogica di muoversi su una scala graduata la quale quantifica l’intensità del segnale a microonde (vedi Figura 2).

Figura 2: l’asta graduata (da 1 a 10) dell’intensità del segnale

Se il segnale risulta troppo debole, sia dal punto di vista audio che visivo (asticella segna valori bassi tipo 1 o 2), è possibile amplificare il segnale agendo sulla manopola graduata presente sul satellite finder (Vedi figura 2). Dal punto di vista elettronico, il satellite finder acquisisce il segnale dal LNB, lo amplifica ulteriormente producendo una tensione massima di 500 mV in grado di alimentare contemporaneamente il cicalino e l’asta graduata. Questo segnale elettrico compreso tra 0 e 500 mV può essere estratto dai contatti dell’asticella graduata (vedi Figura 1) e misurato con un tester o portato in ingresso della porta microfono di un PC. Noi consigliamo comunque di utilizzare un tester, più sicuro in quanto prima di connettere la tensione del satellite finder al PC bisognerebbe valutarne l’accoppiamento. Grazie a questo sistema possiamo quantificare le nostre osservazioni ottenendo alla fine una misura in tensione del nostro segnale radioastronomico.

DIGITALIZZAZIONE DEL SEGNALE RADIOASTRONOMICO

Il segnale in tensione generato dal satellite finder e compreso tra 0 e 500 mV può essere amplificato ulteriormente grazie all’utilizzo di un amplificatore operazionale (a singola alimentazione 0, +V e non ad alimentazione duale). Questo può essere alimentato con una singola batteria a 9 V ed utilizzando delle resistenze opportune permette di amplificare il nostro segnale di tensione di un fattore 10, ottenendo quindi all’uscita del sistema satellite finder + amplificatore operazionale una tensione variabile tra 0 V (assenza di segnale) e + 5 V (massimo segnale). Agendo sull’amplificatore del satellite finder ovviamanete il massimo segnale può essere fatto variare da +5 V a qualche millivolt. Consigliamo come massima tensione di uscita un valore pari a circa +4 V. Questo mette in sicurezza il sistema di digitalizzazione che ora andremo a descrivere.

Al fine di quantificare e registrare il nostro segnale radioastronomico possiamo digitalizzare il segnale analogico di tensione prodotto dal sistema satellite finder + amplificatore operazionale. Per fare ciò ci serve un Analog to Digital Converter (ADC) ovvero un componente elettronico in grado di trasformare un segnale di ampiezza X in un numero digitale memorizzabile su PC pari a X. L’ADC più economico e che permette di interfacciarsi con un PC in modo semplice è Arduino Uno. Questo costa circa 20 euro e necessita di un cavo USB ed un PC per la memorizzazione dei dati (si può usare anche un shield con scheda SD incorporata). Arduino vuole in ingresso un segnale analogico di tensione massima pari a +5 V (da qui il valore massimo consigliato di +4 V) e fornisce un segnale digitalizzato a 10 bit con una frequenza di campionamento di 60 Hz. Questo significa che se in ingresso forniamo un segnale di ampiezza massima pari a +4 V, Arduino produrrà un segnale digitale (numero) con risoluzione 4 mV, 60 volte al secondo. Questi dati verranno registrati su disco fisso in formato TXT e potranno essere utilizzati per una futura analisi. Il programma che si occupa della scrittura su file è detto radioastroino_v1.pde ed è stato sviluppato da ASTROtrezzi in Processing 2. Il listato è riportato qui sotto:

import processing.serial.*;

import java.text.*;

import java.util.*;

import cc.arduino.*;

 

Arduino arduino;

int analogPin = 0;

int value = 0;

 

PrintWriter output;

DateFormat fnameFormat= new SimpleDateFormat(“yyMMdd_HHmm”);

DateFormat timeFormat = new SimpleDateFormat(“hh:mm:ss”);

String fileName;

Serial myPort;

char HEADER = ‘H’;

 

void setup(){

 arduino = new Arduino(this, Arduino.list()[0], 57600);

 Date now = new Date();

 fileName = fnameFormat.format(now);

 output = createWriter(fileName + “.txt”);

}

 

void draw(){

 String time; 

 String timeString = timeFormat.format(new Date());

 value = arduino.analogRead(analogPin);

 output.println(timeString + ” ” + value);

}

 

void keyPressed(){

    output.flush();

    output.close();

    exit();

}

Bisogna ricordare che prima di lanciare questo programma è necessario eseguire la scrittura sul firmware di Arduino eseguendo il programma Examples > Firmata > StandardFirmata in linguaggio Arduino.

Se un segnale radioastronomico non è particolarmente veloce (come un transito che solitamente dura una decina di minuti), allora è possibile aumentare la risoluzione del nostro segnale digitale mediando il valore in tensione su un secondo di presa dati. Il programma che realizza l’analisi dei dati è detto radioastroino.cpp ed è stato sviluppato da ASTROtrezzi in C++ come macro per CERN ROOT. Il listato è riportato qui sotto.

{

cout << “RADIOASTROINO on CERN/ROOT” << endl;

ifstream fradioastroino;

fradioastroino.open (“radioastroino.txt”);

int i, N;

string timefile;

float adu[60];

float average[3600];

float errorx[3600];

float errory[3600];

float time[3600];

N = 0;

for(i = 0; i < 60; i++) adu[i] = 0;

for(i = 0; i < 3600; i++) {average[i] = 0; errorx[i] = 0; errory[i]=((1.0/sqrt(60.0))/1023.0)*5.0; time[3600];}

while(!fradioastroino.eof())

   {

   for(i = 0; i < 60; i++)

      {

      fradioastroino >> timefile;

      fradioastroino >> adu[i];

      average[N] = average[N] + adu[i];

      }

   average[N] = average[N] / 60;

   cout << time [N] << ” ” << average[N] << endl;

   N = N+1;

   time[N] = N; //seconds from start

   }

gr = new TGraphErrors(N,time,average,errorx,errory);

gr->SetTitle(“RadioASTROino”);

gr->GetXaxis()->SetTitle(“Time (sec)”);

gr->GetYaxis()->SetTitle(“ADU”);

gr->SetMarkerStyle(8);

gr->Draw(“ALP”);

fradioastroino.close();

}

Il software, interamente sviluppato da ASTROtrezzi è open source e pertanto può essere distribuito e modificato. Consigliamo comunque la segnalazione all’indirizzo davide@astrotrezzi.it . Il sistema antenna + LNB + satellite finder (alimentato esternamente da rete elettrica domestica) + amplificatore operazionale + Arduino + PC, detto RadioASTRO80 è mostrato in Figura 3. Questo può essere montato comodamente su una montatura equatoriale. Nel caso di RadioASTRO80 abbiamo utilizzato una SkyWatcher NEQ6 con attacco Losmandy.

Figura 3: il progetto RadioASTRO80 in funzione.

Il risultato ottenuto dal primo test di RadioASTRO80, consistente nella misura del transito solare, è mostrato in Figura 4.

Figura 4: transito solare “osservato” con RadioASTRO80 ed elaborato con radioastroino.cpp.




Archiviazione delle informazioni

Abbiamo visto in ADC dal mondo analogico a quello digitale” come il risultato finale della nostra ripresa astrofotografica, effettuata con sensori CCD o CMOS, sia una sequenza di segnali digitali in grado di fornire informazioni sul numero di fotoni che hanno inciso durante l’esposizione su ogni singolo fotoelemento a semiconduttore. Questi segnali digitali dovranno quindi essere ora memorizzati in maniera opportuna su un supporto informatico come una scheda di memoria (ce ne sono di diversi tipi tra cui le più diffuse sono le SD e CF) o il disco fisso di un computer (nel caso di scatto remoto). Come sappiamo il risultato di questa memorizzazione sarà un file.

In astrofotografia digitale abbiamo molteplici formati in grado di memorizzare i file contenenti le informazioni della ripresa. In questo post analizzeremo i file più diffusi.

RAW

Con la parola RAW (grezzo) si indicano i file memorizzati dalle fotocamere digitali in grado di contenere tutte le informazioni in uscita dall’ADC. Dato che ogni casa produttrice ha un sistema diverso di acquisizione e conversione del segnale analogico in digitale, esistono molteplici file RAW, ciascuno con la sua estensione proprietaria. Ad esempio Canon utilizza il formato CRW (Canon RaW) con estensione CR2 mentre Nikon utilizza il formato NEF (Nikon Electronic Format) con estensione omonima.

I file RAW sono importantissimi per l’astrofotografia, dato che contengono le informazioni “originali” del sensore, prima che il processore della camera demosaicizzi l’immagine come descritto in “Costruire un’immagine a colori”. Il processo di demosaicizzazione include un peggioramento della qualità dell’immagine e dovrebbe venire applicato solo una volta che tutti i parametri di ripresa (bilanciamento del bianco, contrasto, …) sono stati opportunamente corretti. Questi parametri vengono corretti automaticamente dal processore. Ma se volessimo correggerli noi? In questo caso solo il file RAW ci permette di accedere alle informazioni necessari.

Ovviamente utilizzando i file RAW si rende necessario una “demosaicizzazione” a mano, oggi automatizzata da software di post produzione come Adobe Camera Raw (plug-in di Photoshop) o IRIS. Questi software sono in grado di leggere gran parte dei formati RAW proprietari oggi presenti sul mercato.

Data l’enorme mole di informazioni contenute nel file RAW, questi occupano molto spazio su disco, aumentando di conseguenza il tempo di salvataggio. Mentre quest’ultimo problema è risolubile solo aumentando la velocità dell’elettronica della camera e dei supporti di archiviazione, la riduzione dello spazio su disco è possibile utilizzando software di compressione.

Come si può ben capire il RAW non è un file immagine ma un file di dati. Una volta modificati opportunamente i parametri di ripresa il software di post produzione procede con la demosaicizzazione generando un’immagine a colore. Questa dovrà essere salvata in un file di tipo immagine. Quindi riassumendo, ad ogni file RAW corrisponde un file immagine. Nelle prossime sezioni vediamo quali sono i file immagini più diffusi in astrofotografia.

TIFF (8 o 16 bit/canale, compresso), PIC e BMP

L’immagine a colori fornita dal file RAW ha un gamma tonale dettata dal numero di bit dell’ADC come illustrato nel post “ADC: dal mondo analogico a quello digitale”. Questa non è ovviamente visualizzabile dato che molto spesso è superiore alla gamma tonale dell’occhio umano pari ad 8bit. Quello che succede è che la gamma tonale viene compressa dal numero di bit dell’ADC a 8bit. Questa “compressione” però è solo visuale, l’immagine che fuoriesce da un file RAW contiene infatti tutta la gamma tonale originale. In questo modo se tagliate parte dell’istogramma dell’immagine ottenuta a partire da un file RAW non perderete in quantità, dato che avrete un numero di toni sovrabbondante rispetto a quelli che può vedere l’occhio umano.

Il formato immagine in grado di memorizzare tutta la gamma tonale originale fornita dal file RAW sono il PIC ed il TIFF a 16 bit/canale. Al momento, dato che il numero di bit (per canale RGGB) fornito dagli ADC di DSLR e CCD è generalmente inferiore o uguale a 16bit, il TIFF a 16 bit/canale ed il PIC risultano essere formati appropriati.

È però possibile salvare l’immagine prodotta dal file RAW in un formato ad 8bit. In questo caso la visualizzazione compressa si trasforma in vera è propria riduzione del numero di bit e quindi della gamma tonale. Esempi sono i formati TIFF a 8bit/canale o BMP.

Perché salvare un’immagine in formato TIFF a 8bit/canale o BMP quando esistono formati come il TIFF a 16bit/canale o PIC? La ragione è ovviamente di natura pratica: diminuire lo spazio occupato dai file su disco.

In astrofotografia digitale, la pratica più utilizzata è quella di salvare l’immagine generata dal file RAW in TIFF a 16bit/canale o PIC ed effettuare la cosmetica su questi tipi di file. In questo modo sfrutteremo al meglio il segnale fornito dall’ADC della nostra fotocamera digitale. Una volta applicate tutte le modifiche sarà possibile salvare l’immagine in formato TIFF a 8bit/canale o BMP ottenendo un file di dimensioni inferiori e di facile trasportabilità. La riduzione della gamma tonale non comporterà perdite alla qualità dell’immagine. Ovviamente una volta convertita in immagine ad 8bit/canale non sarà possibile apportare altre modifiche di cosmetica all’immagine a meno di non voler perdere dettagli o introdurre artefatti (come la posterizzazione, vedi il post “Istogramma e stretching dinamico: come ottenere il massimo dalla dinamica del nostro sensore”).

È possibile inoltre comprimere i file TIFF in modo che questi occupino meno spazio su disco, senza perdere nessuna informazione. Tale formato si chiama, con molta fantasia, TIFF compresso.

JPEG

Il formato JPEG è sicuramente il formato immagine più diffuso, principalmente grazie alle ridotte dimensioni che questo occupa su disco. La gamma tonale che questo file riesce a memorizzare è di soli 8bit/canale, quindi del tutto simile ad un TIFF 8bit/canale o ad un BMP. Perché allora il formato JPEG occupa meno spazio addirittura di un TIFF compresso?

Anche le immagini JPEG sono compresse, ma utilizzano metodi lossy ovvero che durante la compressione perdono informazioni. Questo processo distruttivo per l’immagine permette al JPEG di occupare dimensioni anche molto ridotte. La perdita di qualità dell’immagine a seguito della compressione viene caratterizzata da una grandezza nota come fattore di compressione.

L’utilizzo di immagini JPEG è vivamente sconsigliato in astrofotografia. È comunque possibile salvare una compia dell’immagine finale ad 8bit o 16bit non compressa in JPEG al fine di una sua distribuzione sul web. In tal caso, per mantenerne la qualità si consiglia di utilizzare un fattore di compressione minimo.

Alcune DSLR permettono il salvataggio RAW + JPEG, utile per visualizzare velocemente le informazioni contenute nel file RAW

Ricordiamo infine che le fotocamere digitali, se non indicato diversamente, salvano le immagini su scheda (o disco nel caso di controllo remoto) in formato JPEG. Lo sviluppo RAW in JPEG ovvero la demosaicizzazione, bilanciamento del bianco e compressione, vengono effettuati dal microprocessore della DSLR (DIGIC per fotocamere Canon). Questo perché il tempo di processo sommato a quello di memorizzazione del formato JPEG su scheda è decisamente più veloce del solo salvataggio del file RAW. Ovviamente scattando in JPEG il file RAW (sempre prodotto) rimane in memoria e viene subito cancellato dopo il processo di “sviluppo” in JPEG.

FITS

Il formato FITS è molto diffusi in Astronomia e recentemente è divenuto uno standard per CCD astronomici amatoriali. Come il file RAW, questo formato contiene tutte le informazioni relative al sensore CCD precedenti al processo di demosaicizzazione.

Oltre all’immagine il file FITS può contenere molteplici informazioni e questo ne giustifica l’utilizzo in ambito scientifico professionale. Altro vantaggio che diventerà importante in futuro con le nuove generazioni di ADC, è che il formato FITS permette di salvare immagini a 32bit/canale.

File FITS possono essere interpretati da software come FITS Liberator (Plug-in di Photoshop) o IRIS.

Concludendo quindi abbiamo scoperto come ottenere il massimo dalle nostre immagini digitali ed in particolare è stata illustrata una procedura che a partire dal file RAW ci permette di costruire immagini corrette a 16bit o superiore. Queste possono essere a loro volta modificate grazie ai programmi di post produzione come Photoshop ed infine salvate in formati compressi come il “comodo” JPEG.

Il file RAW, così come l’immagine a 16bit (o superiore) devono venire archiviate, perché contengono tutte le informazioni sullo scatto. I file JPEG invece possono essere utili per un’eventuale pubblicazione sul web o per inviare le fotografie tramite mail.




ADC: dal mondo analogico a quello digitale

Il segnale di carica, eventualmente trasportato lungo il sensore come nel caso dei CCD, viene convertito in un segnale analogico di tensione e quindi amplificato (si veda l’articolo La generazione del segnale: CCD e CMOS). Tale segnale avrà un’ampiezza proporzionale al numero di elettroni prodotti in ciascun fotoelemento e quindi al numero di fotoni “cosmici” che hanno raggiunto lo stesso durante il tempo di esposizione. Dato che il fenomeno di conversione fotone/elettrone è di tipo statistico quello che succede è che il valore dell’ampiezza del segnale può assumere infiniti valori nell’intorno di quello che è il valore atteso. Un segnale del genere non può essere analizzato da un computer. Si rende pertanto necessaria una traduzione dal “linguaggio” analogico ad uno di tipo “digitale”. Il computer o più precisamente il calcolatore, è in grado di compiere operazioni su numeri interi espressi in sistema binario (ovvero sequenze di uni e zeri). Questo perché gli operatori logici di un calcolatore si basano su interruttori che possono assumere unicamente due condizioni: circuito aperto (1) e circuito chiuso (0).

Lo strumento in grado di convertire un segnale analogico in un segnale digitale, ovvero trasformare un numero con infinite cifre in uno intero è detto Analog to Digital Converter (ADC).

Nel caso dei sensori CCD abbiamo un solo ADC posto dopo l’output amplifer, mentre nel caso di sensori CMOS abbiamo un ADC per ogni amplificatore presente.

A questo punto maggiore sarà il numero di cifre che l’ADC riuscirà a generare, maggiore sarà la qualità del segnale digitalizzato e quindi dell’immagine finale. Ovviamente a parità di capacità da parte del fotoelemento di accumulare carica elettrica

Questo è vero a parità di capacità da parte del fotoelemento di accumulare la carica elettrica. Il rapporto tra il massimo ed il minimo valore di carica accumulabile in ciascun fotoelemento prende il nome di range dinamico. Un ADC deve essere in grado di produrre un segnale digitale sensibile a tutti i possibili valori del range dinamico. Il valore discreto assunto da quest’ultimo sarà espresso in Analog to Digital Unit (ADU) e spazia da 256 a 65535.

Ma cosa determina questi numeri?

Abbiamo discusso prima di come il segnale in uscita dall’ADC dovrà presentarsi in una forma adatta ad essere processata da un calcolatore ovvero in codice binario. A questo punto supponiamo di avere a disposizione una sequenza formata da 8 segnali acceso/spento (ovvero 1 o 0) per ogni ampiezza digitalizzata. Questo significa che per valore pari a 0 Volt dell’ampiezza analogica avremo un segnale digitale della forma 00000000, mentre per il valore massimo di tensione assunto dall’ampiezza avremo 11111111. Se traduciamo questi due numeri in decimale avremo che 00000000 corrisponderà a 0 (ovviamente) mentre 11111111 corrisponderà a 255. Ecco perché si è detto che gli ADU possono assumere 256 valori (ovvero numeri interi compresi tra 0 e 255).

Se ora usiamo 9 segnali acceso/spento avremo un segnale digitale compreso tra 000000000 e 111111111 che in decimale è 511 ovvero una range in ADU pari a 512 valori.

Il numero di segnali acceso/spento ovvero il numero massimo di cifre del numero binario digitalizzato definisce il bit di conversione dell’ADC. Quindi nel primo esempio avevamo un ADC a 8 bit, mentre nel secondo caso a 9 bit. C’è un legame tra il numero di bit ed i possibili valori generati dall’ADC N:

N = 2bit

quindi:

  • ADC ad 8 bit – 256 valori (0 – 255 ADU)
  • ADC a 10 bit – 1024 valori (0 – 1023 ADU)
  • ADC a 14 bit – 16384 valori (0 – 16383 ADU)
  • ADC a 16 bit – 65536 valori (0 – 65535 ADU)

La capacità di un fotoelemento di raccogliere elettroni è noto come gamma dinamica. In particolare la gamma dinamica è definita come il rapporto tra il massimo ed il minimo numero di elettroni accumulabile in un fotoelemento. Ad esempio se la massima capacità di accumulo delle cariche di un fotoelemento è 5000 elettroni e la minima è 5 elettroni, la gamma dinamica è 1’000:1.

La gamma dinamica determina così il numero di bit che l’ADC deve avere per digitalizzare correttamente il segnale. Se abbiamo un sensore con gamma dinamica 1000:1 avremo bisogno di un ADC ad almeno 10 bit. Bisogna a questo punto fare attenzione che non è l’ADC a determinare la dinamica di un sensore ma viceversa. A ciascun valore discreto della gamma dinamica, correttamente digitalizzato dall’ADC è associabile un tono di grigio. Si parla quindi di gamma tonale come del numero di possibili toni necessari per descrivere la gamma dinamica del sensore.

Riassumendo quindi un sensore può essere sensibile ad una maggiore differenza luce-ombre a seconda della propria gamma dinamica. A parità di gamma dinamica però il segnale può venire digitalizzato correttamente o con un ADC in grado di fornire valori (livelli) inferiori alla gamma dinamica. Nel primo caso si parla di gamma tonale adeguata, nel secondo caso invece si ha una scarsa gamma tonale.

Assunta una scelta dell’ADC proporzionata alla gamma dinamica del sensore, il numero di bit di un ADC, e quindi il range di valori o livelli di luminosità possibili a seguito della digitalizzazione del segnale, definisce il range tonale di un sensore. Un’immagine ad 8 bit è in grado pertanto di distinguere 256 toni di grigio, una a 16 bit 65536 e così via.

Ma quanti toni vede l’occhio umano? Non abbiamo un numero preciso ma si stima che un occhio umano sia in grado di distinguere circa 10’000’000 di colori. Pertanto sarebbe necessario un ADC a 24 bit (16’777’216 livelli) per digitalizzare correttamente il segnale.

In “Costruire un’immagine a colori” vedremo come un’immagine a colori da 24 bit può essere “scomposta” a partire da tre immagini in scala di grigio da 8 bit. In termini pratici quindi un occhio umano può distinguere al massimo 256 toni di grigio.

Perché quindi le camere CCD in bianco e nero producono immagini a 16 bit? La soluzione sta nella possibilità, tramite tecniche di elaborazione delle immagini astronomiche di “comprimere” una dinamica molto ampia fornita dai sensori CCD in un’immagine a 8 bit. Questo permetterebbe ad esempio di avere nella stessa immagine dettagli di luminosità estremamente diversa. Per maggiori dettagli si faccia riferimento all’articolo Istogramma e stretching dinamico: come ottenere il massimo dalla dinamica del nostro sensore.