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L’elaborazione delle immagini astronomiche

Nell’era della fotografia analogica gran parte del lavoro dell’astrofotografo finiva con il click dell’abbassamento dello specchietto che segnava la fine dell’esposizione della pellicola fotografica alla tenue luce di nebulose e galassie. Poco si sapeva sulla qualità dello scatto se non dopo settimane quando si andava dal fotografo a ritirare le stampe o le diapositive. Oggi tutto è cambiato. Sullo schermo della nostra fotocamera digitale possiamo subito vedere il risultato dei nostri sforzi e valutare se modificare qualche parametro di scatto, se le stelle sono perfettamente puntiformi o meno e via dicendo. Ma ancor oggi quello che vediamo sull’LCD della nostra reflex non è il risultato finale. All’appello mancano ancora ore ed ore di elaborazione al computer per estrarre quello che in questo paragrafo chiameremo segnale ovvero l’immagine della nostra galassia, nebulosa o ammasso stellare dal rumore. In questo paragrafo vedremo tutte le operazioni da compiere per raggiungere il risultato finale. Al termine della nostra posa verrà visualizzata sullo schermo LCD l’immagine ripresa così come avviene naturalmente per qualsiasi foto diurna. Tale immagine si chiama light frame e rappresenta l’oggetto celeste così come ricostruito dalla fotocamera digitale. Il light frame pertanto non è l’immagine reale, ma una sua rappresentazione ed in particolare questo è costituito da:

  1. Immagine reale o segnale,
  2. Rumore di tipo termico che appare come un disturbo uniforme,
  3. Pixel caldi e freddi ovvero pixel luminosi (rossi, verdi o blu) o neri,
  4. Rumore di tipo elettronico che appare come bande o righe più luminose,
  5. Macchie, vignettatura e non uniformità del sensore che rendono più o meno luminose alcune parti dell’immagine,
  6. Rumore casuale di varia natura.

Durante le riprese diurne il segnale domina su qualsiasi forma di rumore e pertanto l’elaborazione dell’immagine si limita semplicemente alla correzione della vignettatura, macchie e non uniformità del sensore. Di notte invece il debole segnale dei corpi celesti risulta pesantemente influenzato dalla presenza dei rumori che quindi devono essere eliminati o almeno ridotti il più possibile. Ciò è possibile attraverso una serie di tecniche che prendono complessivamente il nome di calibrazione delle immagini. Per realizzare una corretta calibrazione è necessario eliminare il rumore elettronico, come fare? Bisognerebbe realizzare uno scatto che contenga solo rumore elettronico in modo da potere sottrarlo pixel per pixel al light frame. Per fare ciò mettiamo il tappo all’obiettivo o telescopio e scattiamo con il minor tempo di posa possibile lasciando invariati tutti gli altri parametri (ISO, diaframma, messa a fuoco, …). Chiamiamo questo scatto bias frame, esso sarà costituito da:

  1. Segnale? Assente dato che stiamo riprendendo con il tappo sull’obiettivo
  2. Rumore di tipo termico? Assente perché il tempo di esposizione è così breve che il sensore non riesce a scaldarsi.
  3. Pixel caldi e freddi? Assenti perché questi si attivano solo su tempi di esposizione sufficientemente lunghi.
  4. Rumore di tipo elettronico,
  5. Macchie, vignettatura e non uniformità del sensore? Assenti dato che stiamo riprendendo con il tappo sull’obiettivo.
  6. Rumore casuale di varia natura.

Quindi riassumendo il bias frame contiene unicamente le informazioni sul rumore elettronico coperte da un rumore di tipo casuale. Il rumore casuale è caratterizzato dall’avere media nulla. Questo significa che se mediamo il valore assunto da un pixel in più scatti realizzati nelle medesime condizioni abbiamo una totale soppressione del rumore casuale. Quindi al fine di ottenere il solo segnale di rumore elettronico è necessario riprendere più bias frame e farne la media. Quanti scatti fare? La riduzione del rumore casuale va come la radice quadrata del numero di scatti, quindi maggiore è il numero di bias frame e migliore sarà il processo di sottrazione di rumore. Quindi la media dei bias frame nota come master bias frame contiene il solo rumore di natura elettronica. Consideriamo ora il rumore termico. Anche in questo caso sarebbe utile avere uno scatto che contenga le sole informazioni relative al rumore termico. Lasciamo quindi il tappo sull’obiettivo o telescopio e scattiamo con nelle stesse identiche condizioni in cui abbiamo ripreso il light frame. Questo scatto che chiamiamo dark frame sarà costituito da:

  1. Segnale? Assente dato che stiamo riprendendo con il tappo sull’obiettivo
  2. Rumore di tipo termico,
  3. Pixel caldi e freddi,
  4. Rumore di tipo elettronico,
  5. Macchie, vignettatura e non uniformità del sensore? Assenti dato che stiamo riprendendo con il tappo sull’obiettivo.
  6. Rumore casuale di varia natura.

Se ora andiamo a sottrarre al dark frame il master bias frame, otteniamo l’eliminazione completa del rumore elettronico. Se poi, come fatto per i bias frame, andiamo a riprendere più dark frame e ne facciamo la media allora riusciremo ad eliminare anche la componente di rumore casuale. Quello che resterà sarà uno scatto, il master dark frame, che conterrà tutte le informazioni sul rumore termico e pixel caldi. Per quel che concerne invece la presenza di macchie, vignettatura o non uniformità del sensore, è possibile realizzare uno scatto correttamente esposto ad una sorgente uniforme di luce. Questo scatto prende il nome di flat field frame ed è costituito da:

  1. Segnale? Assente perché l’obiettivo o il telescopio è illuminato da una sorgente uniforme.
  2. Rumore di tipo termico? Assente dato che il tempo di esposizione è solitamente veloce, inferiore al secondo.
  3. Pixel caldi e freddi? Assenti dato il limitato tempo di esposizione
  4. Rumore di tipo elettronico.
  5. Macchie, vignettatura e non uniformità del sensore.
  6. Rumore casuale di varia natura.

Sottraendo il master bias frame e mediando più flat field frame è possibile così ottenere quello che chiameremo master flat field frame che contiene unicamente le informazioni sulla disomogeneità dell’immagine a seguito della presenza di macchie, vignettatura e non uniformità del sensore. La sorgente uniforme di luce può essere costituita da un monitor di un computer, da una parete bianca uniformemente illuminata o da strumenti appositamente costruiti per l’astrofotografia note come flat box o flat field generator. Realizzato il master bias ed il master dark frame, allora è possibile sottrarli al light frame a sua volta diviso per il master flat field frame (vedi Figura 3.8). Il risultato di tale operazione sarà costituito da:

  1. Segnale.
  2. Rumore di tipo termico? Sottratto con il master dark frame
  3. Pixel caldi e freddi? Sottratto con il master dark frame
  4. Rumore di tipo elettronico? Sottratto con il master bias frame
  5. Macchie, vignettatura e non uniformità del sensore? Corretto dividendo per il master flat field frame
  6. Rumore casuale di varia natura.

Figura 3.8: Da sinistra a destra: light frame, master bias frame, master dark frame, master flat field frame e l’immagine finale ottenuta mediando 10 light frame.

Effettuando, ancora una volta, la media tra più light frame realizzati nelle stesse condizioni sarà possibile eliminare anche il rumore casuale ottenendo finalmente il segnale. La ripresa di un’immagine astronomica non è quindi limitata al singolo scatto ripreso con un obiettivo o con un telescopio ma una serie di scatti tutti uguali del medesimo soggetto oltre ad altri di calibrazioni (bias, dark e flat). Ricordiamo infine che bias, dark e flat dipendono molto dalle condizioni ambientali in cui sono stati ripresi i light e quindi devono essere realizzati sul campo. L’astrofotografo quindi deve mettere in conto di spendere tanto tempo per gli scatti di calibrazioni quanto quello impiegato per riprendere i light frame.

 




Guidare di notte

Sicuramente vi sarete accorti che fotografando con la tecnica di fotografia in parallelo utilizzando focali estese e tempi di esposizioni lunghi otterrete immagini mosse. Questo, per quanto detto nel paragrafo 3.2, è legato al fatto che è impossibile allineare perfettamente l’asse meccanico della montatura con l’asse di rotazione terrestre. Naturale conseguenza è la presenza di una deriva in declinazione dopo un tempo di esposizione che è funzione della focale dell’obiettivo utilizzata. Come risolvere questo problema?

Nella fotografia in parallelo vi sarete accorti che la funzione del telescopio è stata unicamente quella di puntare l’oggetto celeste da riprendere.

Se però fotocamera e telescopio sono paralleli e quindi l’oggetto ripreso dalla reflex è visibile anche nel telescopio, perché non utilizzare quest’ultimo come test di inseguimento? In altre parole, perché non correggere il cattivo inseguimento della montatura durante la ripresa osservando eventuali derive al telescopio. Tale correzione può essere fatta agendo sui due motorini di inseguimento, controllati di norma da una pulsantiera. Per facilitare la stima della deriva dell’oggetto è possibile utilizzare degli oculari per telescopi dotati di reticolo illuminato.

Il processo di correzione degli errori di inseguimento prende il nome di guida e dato che questo è realizzato agendo manualmente sulla pulsantiera è detta guida manuale.

Esiste però la possibilità di sostituire l’occhio umano con una camera digitale, nota come camera di guida, in grado per alcuni modelli di montature di misurare le derive e controllare automaticamente i motorini di inseguimento. Tale processo di guida completamente automatizzato prende il nome di autoguida (vedi Figura 3.7).

Figura 3.7: Sistema di autoguida montato su telescopio rifrattore apocromatico.

Guidando, sia manualmente che automaticamente, è quindi possibile riprendere con focali lunghe a piacere? Ovviamente no. La massima focale utilizzabile dipende dalla qualità della montatura equatoriale. Oltre al carico massimo supportato gioca un ruolo importante anche la precisione della montatura ovvero la sua capacità nel rispondere alle correzioni imposte manualmente o automaticamente dall’astrofotografo. Per montature economiche la massima focale utilizzabile giace intorno ai 400/500 mm di focale che sale via via a metri di focale per le montature più costose.

Ricordiamo infine che con massima focale intendiamo la massima focale tale per cui la guida diviene efficace e quindi i tempi di esposizione possono essere lunghi a piacere. Ovviamente è possibile effettuare riprese con brevi tempi di esposizione (inferiori al minuto) a lunghe focali anche con montature economiche.

 




L’astrofotografia in parallelo

Abbiamo detto che per riprendere nebulose, galassie ed ammassi stellari non è più sufficiente utilizzare un grandangolo o un fisheye; ma quale focale dobbiamo utilizzare? Ovviamente dipende dall’oggetto che vogliamo riprendere.

Un astrofotografo non può mai annoiarsi dato che nell’intera volta celeste vi sono migliaia di oggetti celesti fotografabili con strumentazione amatoriale. Le dimensioni di questi possono variare da alcuni diametri lunari (avete capito bene!) a diametri più piccoli di quelli del disco del pianeta Giove.

In questo paragrafo cercheremo di imparare a riprendere gli oggetti più estesi della volta celeste ovvero quelli accessibili con normali obiettivi fotografici. Per fare questo è necessario possedere oltre ad una reflex digitale, un obiettivo (preferibilmente a focale fissa) con focale minima pari a 100mm.

Costruiamo quindi un supporto in modo da collegare la fotocamera dotata di obiettivo in parallelo al telescopio (vedi Figura 3.6).

Figura 3.6: Setup in configurazione “astrofotografia in parallelo”.

Il sistema telescopio e fotocamera saranno poi montati su una montatura equatoriale opportunamente stazionata ossia tale per cui l’asse meccanico della montatura sia parallelo a quello di rotazione terrestre. A questo punto cerchiamo l’oggetto da riprendere o guardando nel telescopio o attraverso il mirino della reflex (molto più buio). Se la macchina fotografica è parallela al telescopio le due cose dovrebbero coincidere. Accendete quindi i motorini di inseguimento.

Da questo istante la vostra fotocamera sta inseguendo l’oggetto celeste desiderato. Spostatevi quindi sul menù M (o B per alcuni modelli) della vostra reflex, impostate valori di ISO compresi tra 400 e 1600 ISO, aprite tutto il diaframma e scattate con tempi di esposizione lunghi a piacere. L’impostazione autoscatto è consigliata ma non strettamente necessaria dato che le vibrazioni dovrebbero essere ridotte. Solitamente i tempi di esposizione sono superiori ai 30 secondi e quindi consigliamo l’utilizzo del telecomando o dello scatto remoto da PC. Il risultato finale sarà sbalorditivo!

Ricordiamo che la messa a fuoco deve essere effettuata su una stella luminosa utilizzando il mirino della fotocamera oppure, se disponibile, l’utility LiveView. Non fidatevi del simbolo  sulla ghiera di messa a fuoco dato che non coincide con la reale messa a fuoco all’infinito.

Questa tecnica nota come fotografia in parallelo segna il primo “vero” passo nel mondo dell’astrofotografia amatoriale.

Provate ora ad utilizzare focali superiori ai 100mm e tempi di esposizione molto lunghi: cosa succede? Delusi? Non vi preoccupate, nel paragrafo 3.4 troverete la risposta a tutti i vostri problemi.

 




I telescopi astronomici

Lo scopo principale di un qualsiasi strumento ottico, sia esso un obiettivo fotografico, un binocolo o un telescopio, è quello di concentrare la maggiore quantità di luce in un punto detto fuoco. In taluni casi può risultare importante anche il fattore ingrandimento ovvero quante volte l’immagine osservata o ripresa risulta più grande (o piccola) di quella che verrebbe focalizzate normalmente dall’occhio umano.

Se ora consideriamo unicamente l’aspetto astrofotografico, allora obiettivi e telescopi possono essere caratterizzati unicamente da tre grandezze fisiche: diametro , lunghezza focale o focale  e rapporto focale o diaframma . Il primo rappresenta il diametro della prima lente o specchio colpito dalla luce. La focale è invece la distanza tra questa lente ed il punto in cui viene focalizzata la luce dell’astro. In astrofotografia questo punto coincide con la posizione del sensore. Il rapporto focale è invece determinato a partire dalle prime due grandezze ed in particolare:

 f=F/d

Dato che una delle tre grandezze dipende dalle altre due, solitamente si caratterizza un obiettivo o un telescopio attraverso una coppia di valori che in particolari sono  per gli obiettivi fotografici e  per i telescopi. Quindi un obiettivo 300 mm f/2.8 significa uno strumento ottico con  e  mentre un telescopio 250 mm f/5 significa uno strumento ottico con  e  e quindi focale . Ma quali sono i costituenti di questi strumenti ottici?

Abbiamo tre possibilità per focalizzare la debole luce che ci proviene dal cosmo su un sensore, eventualmente ingrandendone l’immagine, ossia utilizzando lenti, specchi o una combinazione dei due.

Gli obiettivi fotografici ed i telescopi rifrattori rientrano nella prima categoria. I telescopi riflettori rientrano invece nella seconda ed infine i obiettivi e telescopi catadiottrici rientrano nell’ultima.

Gli obiettivi fotografici possono essere a focale fissa o variabile. In questo ultimo caso si parla più generalmente di zoom. Gli zoom sono ovviamente costituiti da un sistema più complesso di lenti rispetto agli obiettivi a focale fissa e questo ne inficia la qualità ottica che risulta pertanto inferiore. In astrofotografia è quindi consigliabile l’utilizzo di obiettivi a focale fissa. La presenza di sistemi quali lo stabilizzatore di immagine e l’auto-focus fanno si che gli obiettivi a focale fissa risultano costituiti da sistemi ottici che coinvolgono un numero di lenti superiori a quelli di un classico telescopio rifrattore. Ancora una volta questo fatto va a influire negativamente sulla qualità ottica dello strumento che risulta parecchio inferiore a quella di un telescopio rifrattore.

Nell’ambito dei telescopi rifrattori è possibile distinguere in rifrattori acromatici e apocromatici (vedi Figura 3.3).

Figura 3.3: Esempio di telescopio rifrattore apocromatico.

Mantenendo comunque uno schema ottico molto semplice gli apocromatici riescono ad eliminare quasi completamente il residuo di aberrazione cromatica presenta nei rifrattori acromatici. L’aberrazione cromatica è un difetto ottico per cui la posizione del fuoco dipende dalla lunghezza d’onda della luce incidente. Questo difetto è sempre presente in un sistema costituito da lenti, dato che dipende dal fenomeno della rifrazione della luce, e si traduce in fastidiosi aloni colorati intorno al soggetto ripreso.

I telescopi riflettori che invece utilizzano il fenomeno della riflessione della luce non sono soggetti a nessun tipo di aberrazione cromatica. Inoltre, rispetto alle lenti, costruire specchi di grandi dimensioni è più semplice ed economico. Questi due fatti spiegano il perché i telescopi riflettori siano i più diffusi nel mondo dell’astronomia. Ovviamente non sono tutte rose e fiori e se da un lato si hanno telescopi compatti, luminosi e privi di aberrazione cromatica, dall’altro entrano in campo aberrazioni legate alla concavità dello specchio utilizzato per focalizzare l’immagine sul sensore o all’allineamento tra i vari specchi che costituiscono il telescopio.

Al fine di ovviare questo problema sono stati realizzati schemi ottici via via più complessi ed oggi quelli più diffusi nel mondo dell’astrofotografia amatoriale sono i telescopi di tipo Newton e Ritchey-Chrétien (spesso denominati RC, vedi Figura 3.4).

Figura 3.4: A sinistra esempio di telescopio riflettore Newton. A destra un esempio di telescopio Ritchey-Chrétien.

Un altro modo per risolvere le aberrazioni dei riflettori è quello di utilizzare opportune lenti correttrici. Queste possono introdurre lievi aberrazioni cromatiche ma è il prezzo da pagare per avere telescopi corretti sotto tutti i punti di vista. Tali telescopi prendono il nome di catadiottrici. Tra i catadiottrici più diffusi sul mercato ricordiamo i Maksutov-Cassegrain e gli Schimidt-Cassegrain.

Purtroppo al fine di ridurre i difetti ottici i Ritchey-Chrétien così come i catadiottrici sono telescopi a lunga focale e rapporto focale elevato. Se da un lato si ottengono quindi immagini di grandi dimensioni dall’altro sono richiesti tempi di esposizioni molto lunghi. La combinazione delle due cose porta ad avere montature equatoriali molto precise e conseguentemente costose.

Proprio per questo motivo i rifrattori apocromatici e i riflettori Newton sono tra i più diffusi nel mondo dell’astrofotografia amatoriale fatta eccezione per gli appassionati di riprese planetarie (vedi Capitolo 4).

Esistono infine alcune lenti “correttrici” in grado di migliorare la qualità ottica dei telescopi. In particolare al fine di ridurre l’aberrazione cromatica ed alcuni difetti ottici legati alla curvatura delle lenti nei telescopi rifrattori è possibile utilizzare degli spianatori di campo. Questi oltre a migliorare i difetti ottici riducono la focale del telescopio rendendolo pertanto più luminoso.

Per i telescopi Newton esistono invece dei sistemi di lenti, detto correttori di coma, in grado di ridurre l’aberrazione legata alla curvatura dello specchio principale. Generalmente i correttori di coma non fanno variare la focale dello strumento.

Spianatori di campo e correttori di coma sono strumenti fondamentali per chi vuole riprendere il cielo attraverso telescopi. Questi sistemi correttori non esistono invece nell’ambito degli obiettivi fotografici dove però esiste la possibilità di utilizzare moltiplicatori di focale. Questi aumentano la focale dell’obiettivo a scapito di un drastico peggioramento della qualità ottica. Pertanto è sempre meglio in astrofotografia evitare l’utilizzo di tali moltiplicatori di focale.

 




I “cavalletti” astronomici: le montature

Nel paragrafo 1.3 abbiamo visto come, a seguito del moto di rotazione del nostro pianeta attorno al proprio asse, le stelle sembrano ruotare di moto circolare uniforme intorno ad un punto fisso detto polo celeste e che per l’emisfero boreale coincide in buona approssimazione con la stella Polare.

Finché utilizziamo obiettivi grandangolari o fisheye questo moto rimane comunque trascurabile a patto di utilizzare tempi di esposizione piuttosto brevi (vedi paragrafo 2.3), ma cosa succede se vogliamo riprendere nebulose, ammassi stellari o galassie?

La luminosità superficiale di questi oggetti è generalmente molto bassa così come le loro dimensioni apparenti in cielo. Queste due condizioni spingono ad utilizzare obiettivi a media/lunga focale e tempi di esposizione ben più lunghi di quelli utilizzati nel paragrafo 2.3. Risultato complessivo è che se utilizzassimo un semplice cavalletto astronomico otterremmo sicuramente stelle oblunghe o ancor peggio mosse.

Diventa quindi fondamentale inseguire gli astri ovvero compensare il moto di rotazione terrestre. Per fare questo si è pensato di utilizzare un normale cavalletto fotografico ma inclinato in modo tale che l’asse meccanico sia parallelo a quello di rotazione terrestre (vedi Figura 3.1). In questo modo il moto delle stelle può essere compensato ruotando con velocità appropriata l’asse indicato in Figura 3.1 come Ascensione Retta (A.R.). Questo può essere fatto manualmente utilizzando opportune manopole o attraverso un motorino. L’altro asse, indicato in Figura 3.1 come Declinazione (Dec.), non dovrebbe muoversi durante tutto il tempo di ripresa. Purtroppo è letteralmente impossibile allineare con precisione assoluta l’asse meccanico di questo “cavalletto astronomico”, noto come montatura equatoriale, con l’asse di rotazione terrestre. Questo fatto si traduce in una deriva del soggetto in declinazione. Proprio per questo le montature equatoriali sono dotate di manopole o motorini anche per tale asse.

Figura 3.1: Schema di montatura equatoriale alla tedesca.

È possibile notare come la posizione di un oggetto celeste sia determinato in maniera univoca dalla posizione dell’asse di Ascensione Retta e Declinazione che quindi costituiscono un sistema di coordinate noto come coordinate equatoriali. Il Polo Celeste Nord si trova a declinazione +90° mentre il Polo Celeste Sud a -90°. Così come per il globo terrestre esisterà quindi un equatore celeste con declinazione 0°. L’Ascensione Retta è invece misurata in ore su una scala che va da 0 a 24 e lo zero coincide, per convenzione, con il primo punto d’Ariete ovvero dove si trova il Sole all’equinozio di primavera.

Così come per i cavalletti fotografici anche il prezzo delle montature equatoriali dipende dalla capacità di carico. Più robusta è un montatura e più costerà. Esistono comunque degli strumenti semplici, leggeri e trasportabili che possono essere montati su un cavalletto fotografico trasformandolo in una montatura equatoriale. Questi prendono il nome di astroinseguitori e vengono generalmente dotati di motorizzazione unicamente lungo l’asse di Ascensione Retta. Questo fatto unito al carico limitato, limita l’utilizzo degli astroinseguitori a focali medio/corte.

Oltre alle montature equatoriali esistono anche montature dette altazimutali ovvero cavalletti fotografici in grado di inseguire il moto degli astri agendo sui due assi denominati in Figura 3.2 come Altezza e Azimut (da cui il nome della montatura).

Figura 3.2: Schema di montatura altazimutale.

Oltre a richiedere l’utilizzo contemporaneo di due assi, le montature altazimutali soffrono di un effetto noto come rotazione di campo. Questo si traduce praticamente in una rotazione del campo di ripresa intorno all’oggetto inseguito. Le montature altazimutali risultano quindi inutilizzabili dal punto di vista astrofotografico se non dotati di particolari strumenti, disponibili solo sui modelli più costosi, detti derotatori di campo. Vantaggio di queste montature è l’elevata capacità di carico a seguito di una struttura meccanica più solida di quella delle montature equatoriali. Proprio per questo motivo i telescopi più grandi del mondo utilizzano montature altazimutali dotate ovviamente di opportuni derotatori di campo.

 




ASTROFOTOGRAFIA IN PARALLELO

Avete appreso tutte le tecniche di ripresa illustrate nel capitolo due e non sapete più cosa fare? In questo capitolo vedremo come effettuare le prime riprese in parallelo ovvero utilizzando per la prima volta strumenti specializzati per l’astronomia quali montature e telescopi. Inoltre affronteremo brevemente la calibrazione delle immagini astronomiche che ci porteranno attraverso bias, dark e flat field frame al risultato finale frutto di ore di duro “lavoro”. Scopo di questo libro non è l’elaborazione delle immagini astronomiche. Rimandiamo pertanto il lettore alla lettura di testi specializzati.




Time-lapse: quando la notte si anima

Nel paragrafo precedente abbiamo visto come unire molti fotogrammi al fine di ottenere una rotazione celeste. Cosa succede se proviamo a visualizzare questi scatti uno dopo l’altro? L’effetto complessivo è quello di un’animazione dove le stelle (mosse) ruotano intorno alla stella Polare. Questa animazione riassume in pochi secondi il moto relativo compiuto delle stelle nel corso di minuti se non ore.

Supponiamo quindi di ridurre i tempi di esposizione in modo da ottenere stelle puntiformi. Per fare questo dovremo aprire il diaframma ed alzare gli ISO fino a valori piuttosto alti (1600/3200).

A questo punto, rispetto alla rotazione celeste, otterremo un numero di singoli scatti decisamente superiori anche se più rumorosi. Uniamo il tutto in un video ed ecco ottenuto il nostro primo Time-Lapse: un filmato che in pochi secondi riassume il moto della volta celeste avvenuto nel corso di parecchi minuti od ore.

Potete dimenticarvi del problema di rumore dovuto all’utilizzo di alti ISO, dato che alla fine il video avrà un formato comunque piccolo rispetto alle normali fotografie digitali.

Ricordiamo nuovamente che l’impostazione autoscatto non deve essere attivata.




Riprendere stelle, pianeti e Via Lattea

Sino ad ora ci siamo limitati a “scaldare” le nostre fotocamere e sperimentare le prime impostazioni astronomiche: tempi, diaframmi, ISO, eccetera. In questo paragrafo cominciamo con l’astronomia vera, quella che solo astrofotografi coraggiosi possono intraprendere: fotografare il cielo notturno.

Giunti a questo punto gli amici dotati di fotocamere digitali compatte (quelle prive di controlli manuali), smartphone e tablet dovranno abbandonarci e torneranno con noi solo nel paragrafo 4.2.

Per i dotati di reflex ricordiamo invece che fondamentale è l’utilizzo di obiettivi grandangolari e fisheye. Per chi non possiede strumenti specificamente astrofotografici è impensabili utilizzare focali superiori ai 50mm se non per riprendere la Luna ed il Sole (vedi paragrafo 2.4).

Dotati di reflex, grandangolo, telecomando (o controllo remoto da PC) e cavalletto fotografico, questa volta meglio se stabile; ci dirigiamo in un posto appartato e buio, possibilmente lontano (chilometri) da centri urbani. Un consiglio è quello di scegliere luoghi lontani dalle strade asfaltate in modo da non venire illuminati dai fari delle automobili durante le riprese astronomiche. Montiamo quindi il nostro cavalletto fotografico in modo che risulti stabile. Agganciamogli dei pesi in caso di forte vento; non è il primo caso di persone che hanno rotto obiettivo e reflex a causa di forti raffiche.

Impostiamo la nostra camera sulla posa manuale M (o bulb B in alcuni modelli). Colleghiamo il telecomando o connettiamo la reflex ad un PC tramite l’apposito cavo USB.

Apriamo il diaframma il più possibile. In astrofotografia non esiste il concetto di profondità di campo dato che tutti i soggetti (paesaggio e stelle) si trovano all’infinito. Pertanto un diaframma aperto è consigliato in quanto raccoglie una maggior quantità di luce nell’unità di tempo rispetto a diaframmi chiusi. Ricordiamo che gli astrofotografi sono “ghiotti” di luce: ne vorrebbero una quantità enorme nel più breve periodo di tempo. Questo perché gli oggetti celesti sono poco luminosi e in moto.

Diaframma aperto significa più luce sul sensore ma anche maggiori aberrazioni. Proprio per questo è consigliabile in astrofotografia utilizzare ottiche di buona se non ottima qualità.

Per quanto riguarda gli ISO è necessario alzarli il più possibile. Oggi esistono sul mercato reflex che permettono valori di ISO altissimi (oltre i 10000) e la tendenza è di un continuo aumento. ISO alti significa però aumento del rumore.

Purtroppo, in questo capitolo dedicato a quei fotografi privi di strumentazione astrofotografica specifica, dovremo accontentarci di avere immagini rumorose. È possibile comunque ridurre questo effetto utilizzando appositi plug-in sviluppati per i più noti programmi di elaborazione delle immagini.

A questo punto non rimane che determinare il tempo di esposizione. Questo è determinato dal fatto di non avere le stelle mosse nell’immagine finale. Infatti dopo pochi minuti di esposizione possiamo avvertire il mosso delle stelle persino con obiettivi a focale cortissima come i fisheye.

La velocità con cui una stella si muove dipende anche dalla sua posizione in cielo. Tale posizione è determinata da una coppia di coordinate, ascensione retta (A.R.) e declinazione (Dec.), che è possibile trovare in un qualsiasi atlante astronomico o software planetario. Introduciamo pertanto un parametro numerico k1 che vale 14 per stelle di declinazione intorno a 0°, 20 per stelle di declinazione intorno a +/- 45° e 28 per stelle di declinazione intorno ai 90°.

Lo spostamento della stella così come visibile nell’immagine finale sarà inoltre funzione della dimensione dei pixel d (espressi in micron) che costituiscono il sensore e della focale utilizzata F (espressa in mm) per la ripresa. Infine definiamo un secondo parametro numerico k2 che indica la quantità di mosso che vogliamo nella nostra immagine finale, e vale 1.5 per stelle puntiformi, 4 per stelle allungate e 6 per stelle leggermente mosse.

Il tempo di esposizione t (espresso in secondi) sarà quindi dato da:

t = k1 * k2 * d / F

Questo calcolo, seppur semplice, può risultare complicato al neofita che incontra per la prima volta concetti come dimensione dei pixel del sensore o declinazione astronomica. Proprio per questo abbiamo allegato a questo libro l’applicazione VIRGO, disponibile per Linux, Windows e Mac in grado di calcolarvi il tempo di esposizione data la fotocamera, la costellazione da riprendere e la “puntiformità” delle stelle richiesta.

Definito il tempo di esposizione, impostatelo sulla vostra fotocamera (se inferiore ai 30 secondi) o sul vostro telecomando (per tempi superiori ai 30 secondi). Attivate anche l’autoscatto con tempo minimo di 2 secondi in modo da ridurre eventuali vibrazioni a seguito della pressione dell’otturatore.

Per i fotografi “diurni” sentire due click per un singolo scatto sarà un’esperienza nuova. Infatti nelle pose notturne è possibile distinguere chiaramente il rumore del sollevamento e abbassamento dello specchio della propria reflex digitale.

Gli ultimi modelli di reflex permettono anche la riduzione automatica del rumore. Se disponibile attivate questa funzione. In questo caso ad ogni scatto seguirà automaticamente un altro scatto di uguale durata ma in cui lo specchio della reflex non verrà sollevato (capirete nel capitolo 3 il significato di questo secondo scatto noto come dark frame).

A questo punto potete riprendere pianeti e stelle così come la Via Lattea (vedi Figura 2.3). Ovvio che con un grandangolo i pianeti non mostreranno alcun dettaglio superficiale, accessibili solo a lunghe focali.

Figura 2.3: La Via Lattea estiva ripresa da La Palma (Credits: Maia Mosconi).

Per quanto riguarda la Via Lattea, questa è visibile comodamente dopo il tramonto in tutte le stagioni esclusa la primavera. La Via Lattea estiva è sicuramente la più suggestiva dal punto di vista fotografico così come quella autunnale. La Via Lattea invernale è invece meno appariscente anche se ricca di nebulose di grandi dimensioni (come quelle in Orione o nell’Unicorno) e ammassi aperti.




Disegnare con la luce

Giunti a questo punto del libro dovreste essere in grado di sfruttare al meglio la vostra reflex digitale e cavalletto fotografico al fine di ottenere ottime immagini astronomiche.

Oltre ai temi classici del cosmo quali stelle, Luna, Sole e Via Lattea abbiamo anche imparato a giocare con le luci della Luna Piena o con i moti delle stelle realizzando rotazioni astronomiche e Time-Lapse.

Persino l’inquinamento luminoso è diventato soggetto di denuncia delle nostre fotografie notturne. Cosa possiamo ancora fare?

Non ci resta che giocare con la luce. Infatti come le stelle lasciano le loro tracce durante la notte, così una sorgente luminosa artificiale in movimento lascia una scia sul nostro sensore. Chissà quante volte avrete ripreso i fari di un’automobile in piena notte ottenendo come risultato delle strisce rosse o bianche.

Prendete quindi per l’ultima volta la vostra reflex e fissatela su cavalletto fotografico in posa M (o bulb B) con telecomando o in configurazione di scatto remoto da PC. Impostate un valore di ISO medio basso (inferiore a 400) e tempi di esposizione di uno/due minuti. Impostate il diaframma in modo che il paesaggio risulti correttamente esposto. A questo punto mettetevi a 5 o 6 metri dalla fotocamera e accendete una torcia. Chiedete ad un aiutante di mettere a fuoco la torcia utilizzando il mirino della reflex o l’utility LiveView. Ora spegnete la torcia e premete l’otturatore. Da questo momento avrete un paio di minuti per disegnare quello che volete utilizzando come penna la vostra torcia. Se nei due minuti di esposizione voi vi muoverete, allora la vostra immagine nella foto non apparirà mentre il paesaggio risulterà esposto correttamente.

Ricordatevi di scrivere e disegnare in modo speculare (invertendo sinistra-destra) e nel caso in cui la torcia sia troppo debole alzate gli ISO mantenendo comunque tempi di esposizione piuttosto lunghi. Quando avrete terminato di disegnare con la vostra torcia spegnetela e uscite dal campo di ripresa. Il risultato finale sarà d’effetto e potrà diventare un capolavoro con il giusto pizzico di fantasia (vedi Figura 2.7).

Figura 2.7: Il cammino di luce.

 

 




Le rotazioni celesti

In tutti i paragrafi di questo capitolo abbiamo visto come il tempo di esposizione sia dettato dal non ottenere soggetti mossi. Questo perché la volta celeste è in perenne moto relativo da est verso ovest. Abbiamo visto nel capitolo 1 come il moto relativo delle stelle e di tutti gli oggetti della volta celeste consista in un moto di rotazione intorno ad un punto fisso dove si trova, nel nostro emisfero, la stella Polare. Cosa succede quindi se allunghiamo i tempi di posa delle nostre immagini? Otterremo tanti piccoli archetti concentrici con al centro, nel nostro emisfero, la stella Polare. Questo tipo di riprese sono dette rotazioni celesti o star-trails. È possibile ambientare una rotazione celeste in modo da ottenere un risultato non solo bello dal punto di vista astrofotografico ma anche estetico (vedi Figura 2.6).

Esistono però una serie di problemi nella realizzazione di una rotazione celeste che è possibile aggirare a patto di utilizzare software dedicati. Infatti l’inquinamento luminoso può essere così elevato che all’aumentare del tempo di esposizione può aumentare la luminosità del fondo cielo dando come risultati cieli di colore arancio o ancor peggio bianco.

Inoltre utilizzare tempi di esposizione lunghi significa scaldare il sensore che, oltre al rischio di danneggiamento, porta ad un incremento del rumore termico nella foto.

Unica soluzione è ridurre il tempo di esposizione, ma ciò comporterebbe una diminuzione della lunghezza degli archi della nostra rotazione celeste. Per ovviare ciò esistono programmi dedicati all’astrofotografia in grado di “sommare” più foto di rotazione celeste. In questo modo il rumore termico e l’inquinamento luminoso è dettato dal singolo scatto che può essere breve a piacimento mentre la lunghezza dell’arco stellare è determinato dal numero di scatti che noi andiamo a sommare.

Figura 2.6: Rotazione celeste sopra l’Osservatorio di Sormano (CO)

Consigliamo così l’utilizzo di ISO medio bassi (intorno ai 400 ISO o inferiori) e diaframmi sufficientemente chiusi (f/5.6 o superiori). Con queste impostazioni i tempi di esposizioni dovrebbero comunque essere mantenuti sotto i 3/4 minuti di posa. Cavalletto fotografico e telecomando risultano quindi fondamentali.

Non impostate l’autoscatto. Le singole pose devono essere in sequenza e possibilmente senza pause tra uno scatto e l’altro. Eventualmente scartate il primo scatto se risulta leggermente mosso.




Le comete a grande campo

Stelle, Sole, Luna e pianeti. Con una reflex digitale ed un cavalletto fotografico più o meno robusto siamo riusciti a riprendere praticamente tutti i soggetti dell’astrofotografia digitale. Ci sono però degli astri che talvolta attraversano la volta celeste dando luogo a spettacoli tanto affascinanti quanto rari: sono le comete. Ogni mese decine di comete attraversano i cieli del nostro emisfero eppure solo poche sono in grado di brillare così tanto da essere visibili ad occhio nudo; mediamente una ogni due/tre anni.

Quando una cometa si avvicina sufficientemente al Sole e alla Terra, allora questa non solo diventa visibile ad occhio nudo ma le sue dimensioni apparenti in cielo possono diventare così grandi renderla l’oggetto più bello della volta celeste (vedi Figura 2.5). Ricordiamo ad esempio lo spettacolo offerto nel 1997 dalla cometa Hale-Bopp.

Figura 2.5: La cometa 153P/Ikea-Zhang passata sopra i cieli italiani nel 2002.

Quando una cometa diviene sufficientemente luminosa da essere visibile ad occhio nudo, allora è possibile riprenderla anche con una reflex e cavalletto fotografico. Le impostazioni di tempi, ISO e diaframmi seguono la stessa regola descritta nel paragrafo 2.3 per le stelle.

In questo caso l’ambientazione è fondamentale e quindi consigliamo l’utilizzo di grandangoli o fisheye in grado di riprendere sia la cometa che il paesaggio. Come per i tramonti anche in questo caso sarà possibile effettuare una doppia esposizione, una per la cometa ed una per il paesaggio ed unire poi il tutto in post – produzione utilizzando uno dei numerosi software di elaborazione di immagini.




Giocare con Sole e Luna

Abbiamo già visto nel paragrafo 2.1 come sia possibile con una semplice fotocamera riprendere un tramonto, ma i giochi non finiscono qui. Armiamoci pertanto di reflex e cavalletto e andiamo a divertirci con gli oggetti più luminosi del cielo: Sole e Luna.

Ricordiamo nuovamente di non osservare mai il Sole ad occhio nudo, pertanto anche nella foto di tramonti è consigliabile utilizzare l’utility LiveView che vi permette di mettere a fuoco il Sole utilizzando il monitor della vostra reflex digitale. Questo suggerimento diventa un imperativo nel caso di riprese in luce diurna.

Acquistate pertanto un filtro solare professionale in grado di proteggervi dalla luce diretta del Sole (luce visibile ma anche IR e UV). Prendete ora un obiettivo che abbia una focale minima di 300mm, montate il filtro solare e scattate. Settate gli ISO al minimo (100) e il diaframma a valori superiori a f/5.6. Ricordatevi di usare il cavalletto fotografico e l’impostazione autoscatto con tempo minimo di attesa di 2 secondi al fine di ridurre le vibrazioni. Prestate attenzione a non utilizzare tempi di esposizioni troppo lungo che darebbero del mosso. Nel caso vi troviate in questa situazione aprite il diaframma al massimo e se non dovesse bastare alzate gli ISO.

L’immagine del Sole che otterrete mostrerà il disco della nostra stella e, se presenti, le macchie solari. Regolate il bilanciamento del bianco al fine di ottenere un Sole di colore giallo data la dominante dettata dal filtro utilizzato. Seppur di piccole dimensioni, il disco solare presenterà già qualche particolare. Ovviamente maggiore è la focale dell’obiettivo utilizzato migliori saranno i risultati ottenuti. Per l’utilizzo di telescopi astronomici invece rimandiamo alla lettura del capitolo 4.

Infine ricordo che è possibile riprendere il Sole in pieno giorno, senza filtri solari, durante le eclissi totali. Questi fenomeni sono molto rari in uno stesso luogo e in Italia avremo un’eclisse totale solo il 02 Agosto 2027 (limitata alla sola parte sud-ovest di Lampedusa). Utilizzate quindi teleobiettivi a focali minime pari a 300 mm e treppiede. Aprite il diaframma il più possibile ed impostate ISO molto elevati (dai 400 in su). Il tempo di esposizione sarà dettato dal fatto di non avere del mosso. Durante le eclissi totali è interessante fare riprese anche a grande campo al fine di riprendere le stelle che appaiono durante la totalità. Per le impostazioni di diaframmi, tempi e ISO fate riferimento al paragrafo 2.3.

Molte più possibilità sono offerte dalla Luna che può essere ripresa utilizzando le stesse regole illustrate precedentemente per il Sole. Ovviamente in questo caso non è necessario l’utilizzo di nessun filtro e potete osservare tranquillamente la Luna nel mirino della vostra reflex (vedi Figura 2.4).

Figura 2.4: Osservatorio di Sormano illuminato dalla Luna Piena.

La regola è sempre quella di utilizzare obiettivi di focale superiore ai 300 mm, cavalletto fotografico e autoscatto con tempo di attesa minimo di 2 secondi per minimizzare le vibrazioni. Consigliamo l’utilizzo di ISO bassi e diaframmi leggermente chiusi, anche se a dettare il tutto sarà il fatto di non ottenere del mosso (la Luna come tutta la volta celeste si muove durante la notte). Se possibile provate ad ambientare la Luna con la silhouette di una montagna, un paesaggio o una collina, il risultato finale sarà di notevole impatto.

Anche la Luna presenta il fenomeno di eclisse totale noto anche come “la Luna rossa”. In questo caso però i tempi di esposizioni si allungano notevolmente e l’utilizzo di obiettivi luminosi e ISO elevati diventa obbligatorio. Purtroppo spesso questo non basta e dovremo pertanto utilizzare della strumentazione astrofotografica (vedi capitolo 3 e 4).

Il nostro satellite naturale però ci permette anche di giocare con la sua luce e durante la Luna Piena possiamo andare dotati di cavalletto fotografico e grandangolo in posti suggestivi e riprenderli in notturna. Il risultato finale sarà spettacolare. Paesaggi urbani, montani, marittimi risulteranno illuminati perfettamente ma con una luce più “fredda” e nel cielo sarà possibile vedere le stelle (mosse a seguito dei lunghi tempi di posa). Anche in questo caso suggeriamo ISO bassi (100) e diaframmi chiusi (f/10 o superiori). I tempi sono dettati dal gusto personale e possono superare i 30 secondi di posa. In quest’ultimo caso ricordatevi di utilizzare il telecomando o lo scatto remoto ed in alcuni modelli di reflex digitale cambiare il menù da posa M a B.

Dato che i tempi di esposizione possono essere molto lunghi consigliamo, ove disponibile, l’attivazione dell’utility sottrazione automatica del rumore.




Inquinamento luminoso

Nel primo capitolo di questo libro abbiamo già incontrato il nemico numero uno dell’astrofilo e dell’astrofotografo: l’inquinamento luminoso. Questo sottoprodotto del consumismo è legato ad una cattiva illuminazione notturna che invece di inviare luce unicamente verso il manto stradale, ne invia la maggior parte verso il cielo. Tale luce diffonde, così come i raggi solari durante il giorno, illuminando il cielo di un colore arancione nascondendone le stelle. Tale perenne crepuscolo ha reso in questi anni invisibile la Via Lattea da cieli suburbani e persino le stelle, se non le più luminose, da cieli urbani.

L’inquinamento luminoso è un problema mondiale, anche se a livello europeo l’Italia è uno tra i paesi meno rispettosi della salvaguardia del cielo stellato. In particolare, nel nostro paese, la Pianura Padana risulta essere tra le zone più inquinate d’Europa (vedi Figura 2.2).

Figura 2.2: L’inquinamento luminoso ripreso dalle Prealpi lombarde.

Aspettando che le leggi regionali varate nella direzione di un contenimento dell’inquinamento luminoso vengano attuate, possiamo utilizzare quest’ultimo come un “soggetto astrofotografico”.

Possiamo quindi armarci di reflex e cavalletto e salire di notte sui colli e monti prealpini ed appenninici al fine di riprendere questo ennesimo scempio naturale (scoprendo che la Via Lattea sta sparendo persino dai cieli prealpini a decine di chilometri dai centri urbani).

Impostate quindi la vostra fotocamera digitale sulla posa M, aprite il diaframma il più possibile ed impostate un valore di ISO compresi tra 100 ed 800. Scattate per un tempo compreso tra 1 secondo e 30 secondi in autoscatto con tempo di attesa di almeno 2 secondi. Variate i tempi di esposizione finché otterrete immagini di vostro gradimento. Se volete che i punti più luminosi della vostra immagine presentano spikes allora utilizzate un filtro stella o chiudete il più possibile il diaframma. In quest’ultimo caso i tempi potrebbero superare i 30 secondi e quindi diventa necessario l’utilizzo di un telecomandino (o scatto remoto da PC) e in taluni casi cambiare il menù da posa M a posa bulb (B). Esistono plug-in per Photoshop in grado di simulare l’effetto spikes. Il risultato è buono anche se lo “spikes” reale o da filtro è sicuramente migliore dal punto di vista estetico.

Ricordiamo infine che le immagini che riprendono l’inquinamento luminoso devono essere unicamente di denuncia, al fine di portare a conoscenza dei cittadini lo stato attuale di spreco di energia elettrica durante le ore notturne. Spreco che poi colpisce direttamente i cittadini tramite opportune tassazioni (gran parte dell’illuminazione è pubblica). Non è intenzione dell’autore quindi trasformare l’inquinamento luminoso in un soggetto fotografico.

Oggi fortunatamente è possibile arginare il problema dell’inquinamento luminoso utilizzando opportuni filtri anti-inquinamento luminoso come gli SKYGLOW, CLS, IDAS LPS e UHC nelle forme sempre più selettive (UHC-S, UHC-E, UHC). Questi sono filtri passa banda in grado di tagliare le lunghezze d’onda associate all’illuminazione notturna ovvero principalmente lampade vapori di Sodio e Mercurio.

Mantenendo gli impianti attuali, lo sviluppo della tecnologia LED a spettro continuo vanificherebbe anche questo ultimo tentativo di riprendere il cielo notturno con conseguenze disastrose per il mondo dell’astrofoografia / astronomia amatoriale.




I segreti del tramonto

Cominciamo l’odissea che ci porterà a ottenere delle ottime riprese astrofotografiche disponendo solo di una reflex digitale dotata di obiettivo grandangolare o fisheye e un cavalletto non necessariamente robusto. Partiamo pertanto dal soggetto più comune: il tramonto.

Molti di voi saranno sicuramente rimasti abbagliati dai colori che accompagnano il tramonto del Sole, specialmente se contornati da un bel paesaggio; sia esso marittimo o montano. Come intrappolare tali emozioni e colori nella schedina della nostra macchina fotografica digitale?

Riprendere il tramonto non è così semplice come sembra. Esistono infatti varie tecniche di ripresa dell’evento a seconda di quello che vogliamo rappresentare e delle emozioni che vogliamo suscitare in colui che guarderà le nostre immagini. Ricordiamo pertanto quelle più comuni e di facile realizzazione:

  • Tramonto in silhouette (Figura 2.1): questa è la tecnica più semplice che si può ottenere senza l’ausilio di un cavalletto fotografico e persino utilizzando strumenti quali compatte, tablet e smartphone. Potete impostare la vostra reflex sul menù automatico, puntare il cielo lasciando l’orizzonte nel primo terzo dell’immagine e scattare. Quello che otterrete sarà un paesaggio molto scuro che con programmi per la post produzione quali Photoshop o Gimp (vedi appendice B) potrete rendere uniformi e di colore nero (la silhouette appunto) ed un cielo in grado di mostrare tutti i colori del tramonto. In alternativa al paesaggio potete pensare di anteporre una figura umana. Se invece volete sentirvi più padroni della vostra reflex, cambiate il menù da automatico a posa manuale (M). In questo caso potrete controllare tutte le impostazioni della fotocamera ottenendo immagini migliori a patto di montare la vostra camera su un cavalletto fotografico. Abbassate quindi gli ISO al valore minimo possibile (di solito 100), chiudete il diaframma in modo da avere sufficiente profondità di campo (diciamo maggiore di f/6.3) e regolate i tempi in modo che l’immagine risulti correttamente esposta o leggermente sottoesposta. Al fine di non avere del micromosso, consiglio l’utilizzo di un telecomando (quello che ha sostituito il vecchio “flessibile” delle fotocamere analogiche) o impostare un autoscatto con ritardo di almeno 2 secondi. A volte potrebbe essere interessante ottenere l’immagine del Sole al tramonto dotato di spikes. Per fare questo potete o chiudere il diaframma al massimo valore consentito oppure utilizzare un filtro stella. Nel primo caso consigliamo ottiche perfettamente pulite al fine di evitare immagini fantasma che possono rovinare il risultato finale.
  • Tramonto in doppia esposizione o HDR (Figura 2.1): alcuni di voi però vorrebbero riprendere contemporaneamente un bel cielo con i colori del tramonto ed il paesaggio illuminato, così come lo vede l’occhio umano. L’occhio umano in realtà non “vede” contemporaneamente il cielo ed il paesaggio così come la reflex non riesce in un solo scatto ad immortalare le luci del tramonto e le “ombre” del paesaggio. Questo perché la dinamica dell’occhio umano e delle reflex digitali non riescono a coprire una gamma così ampia di sfumature che vanno da colori molto chiari (le “luci” del tramonto) a colori molto scuri (il paesaggio in “ombra”). Eppure ad occhio nudo ci sembra di cogliere tutte le sfumature contemporaneamente, come è possibile? L’occhio umano si muove velocemente inquadrando paesaggio e cielo adattando così i tempi di posa. In questo modo il cervello riesce a darci la sensazione di avere tutto esposto correttamente. Come fare ad ottenere lo stesso risultato con una reflex? Dobbiamo fare quello che fa il cervello; ovvero riprendere un’immagine esposta correttamente per il cielo ed una per il paesaggio e poi unire le due con i appositi programmi di post produzione. Tale tecnica prende il nome di doppia esposizione ed in rete è possibile reperire infinite informazioni su come applicarla con i più disparati software di elaborazione delle immagini. Un’altra tecnica è quella di unire più scatti a tempi di esposizione diversi in modo da allargare la dinamica della nostra fotocamera. Questa, seppur molto simile alla doppia esposizione, prende il nome di HDR (High Dynamic Range) e può essere implementata grazie a numerosi software. Alcune fotocamere di ultima generazione permettono di fare l’HDR automaticamente. Ma come riprendere i vari scatti? Purtroppo sarà necessario montare la nostra reflex su cavalletto fotografico dato che l’inquadratura non deve cambiare da scatto a scatto. Nel caso della doppia esposizione si farà una ripresa in modo da avere un cielo ben esposto, in cui sono visibile tutte le sfumature del tramonto. Successivamente, senza cambiare inquadratura, si farà un altro scatto in cui il paesaggio apparirà correttamente esposto. State attenti a non fare scatti troppo differenti (cielo molto scuro e paesaggio molto chiaro) in quanto poi risulterà difficile unirli in post produzione. Per l’HDR invece impostate la vostra reflex in modo da fare due (o più) scatti successivi a +/- uno (o più) stop. A questo punto la fotocamera riprenderà tre immagini in successione, una esposta correttamente, una sottoesposta (per il cielo) ed una sovraesposta (per il paesaggio). Provate anche a +/- due stop nel caso in cui il paesaggio sia molto scuro. Anche per le doppie esposizioni ed HDR potrebbe essere interessante utilizzare filtri stella o chiudere il diaframma al fine di ottenere spikes intorno al Sole.

Figura 2.1: A sinistra tramonto in silhouette ripreso con uno smartphone. A destra tramonto in HDR.

In questo paragrafo abbiamo imparato a riprendere il nostro primo soggetto astronomico: il tramonto. Non vi resta quindi che sfruttare la vostra fantasia per creare fantastiche silhouette e cercare paesaggi indimenticabili, cornici di quello che sarà il vostro primo capolavoro astrofotografico! Ovvio che quanto detto per il tramonto vale anche per l’alba… chi soffre d’insonnia è quindi avvisato 😉

 




REFLEX E CAVALLETTO, UN GIOCO DA RAGAZZI

Alla luce di quanto imparato nel capito precedente siamo pronti per affrontare il grande passo: scattare le nostre prime immagini astronomiche. Per fare questo non serve molto: una fotocamera digitale, un cavalletto fotografico e un telecomando (quando necessario). Questo capitolo vi fornirà tutti gli ingredienti per cucinare le vostre fantastiche immagini. Tra le tante cose impareremo anche a giocare con il fuoco, ovvero con la nostra stella: il Sole. RICORDIAMO CHE OSSERVARE IL SOLE SIA AD OCCHIO NUDO CHE ATTRAVERSO STRUMENTI OTTICI QUALI OBIETTIVI, TELESCOPI, BINOCOLI O ALTRO PUÒ CAUSARE GRAVI DANNI ALLA VISTA. L’AUTORE DI QUESTO LIBRO NON SI RITIENE RESPONSABILE DELL’UTILIZZO IMPROPRIO DI TALI STRUMENTI. PER OSSERVARE IL SOLE È PERTANTO SEMPRE OBBLIGATORIO L’UTILIZZO DI FILTRI SPECIALIZZATI. Per maggiori informazioni rivolgetevi al gruppo astrofili più vicino a casa vostra o scrivete direttamente all’autore del libro.




L’Universo che cambia

Se non fosse per le fasi lunari e le strutture variabili del nostro Sole come le macchie o le protuberanze, l’Universo apparirebbe statico, dato che i tempi “evolutivi” del Cosmo sono ben più lunghi della vita di un essere umano. Il lettore potrebbe quindi pensare che dopo anni di osservazioni e riprese fotografiche la vita dell’astrofilo sia destinata a diventare noiosa e poco stimolante. Eppure non tutte le “stelle” del cielo rimangono “fisse” nel corso dei mesi e degli anni; alcune si muovono percorrendo nel cielo lo stesso tragitto compiuto dal Sole e dalla Luna e noto come eclittica. Tali stelle presero in passato il nome di pianeti ovvero “stelle erranti”. Ad occhio nudo essi appaiono infatti come stelle molto luminose, facilmente visibili ad occhio nudo anche da centri cittadini. Il movimento dei pianeti rispetto alle stelle fisse non è così veloce come uno potrebbe aspettarsi: nell’arco di un’intera notte è infatti difficile avvertirne lo spostamento. Tale moto diviene evidente solo con il passare dei giorni o dei mesi, specialmente se il pianeta si trova basso sull’orizzonte.
I pianeti più luminosi visibili da Terra sono Venere di colore bianco e Giove di colore giallo. A seguire Marte, di colore rosso mattone, che per motivi orbitali varia di molto la sua luminosità passando dall’essere una tra le stelle più luminose del cielo ad una stella di media luminosità. Mercurio, di colore arancione, è piuttosto luminoso ma essendo sempre vicino al Sole è difficile da individuare, immerso tra le luci di alba e tramonto. Infine via via più deboli troviamo Saturno e Urano. Il primo di colore giallo ed il secondo, al limite della visibilità ad occhio nudo, di colore azzurro. Per osservare l’ultimo pianeta del Sistema Solare, Nettuno, è invece necessario utilizzare un binocolo di medie dimensioni o un piccolo telescopio.

Tutti i pianeti ruotano intorno al Sole muovendosi su un piano che visto in sezione rappresenta l’eclittica. Rispetto all’orbita descritta dal nostro pianeta, è possibile distinguere tra pianeti interni ed esterni. I primi si trovano sempre tra noi ed il Sole e pertanto è impossibile osservarli nel cuore della notte. Questi inoltre potranno apparire in fase o transitare sul disco solare. I pianeti esterni di contro potranno essere visibili anche nel cuore della notte. Il punto di massima visibilità e di minima distanza dal nostro pianeta è quella in cui il pianeta esterno si trova allineato con la Terra ed il Sole. Tale condizione prende il nome di opposizione. I pianeti esterni non presenteranno quindi una fase visibile, mantenendosi sempre prossima al 100%, e soprattutto non potranno mai transitare sul disco solare. Ricordiamo infine che i pianeti interni sono Mercurio e Venere, mentre quelli esterni sono Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno (vedi Figura 1.10).

Figura 1.10: I pianeti del Sistema Solare come visibili in un telescopio amatoriale.

I pianeti però non sono gli unici astri “erranti”. Esistono infatti corpi minori, e quindi meno luminosi, che si spostano tra le stelle fisse. Uno di questo venne addirittura ad occupare la posizione di pianeta fino al 24 Agosto del 2006: Plutone. Stiamo parlando di pianeti nani e asteroidi. I primi sono corpi celesti simili ai pianeti ma di piccole dimensioni, mentre i secondi sono corpi rocciosi di piccole dimensioni con orbita compresa tra quella di Marte e Giove. I pianeti nani classificati sino ad oggi sono cinque: Cerere, Plutone, Haumea, Makemake ed Eris. Gli asteroidi sono invece migliaia e spesso più che con un nome vengono identificati con una sigla.

Oggetti tanto misteriosi quanto affascinanti sono invece le comete, palle di neve sporca che per instabilità gravitazionali vengono a modificare la propria orbita “cadendo” verso le regioni interne del Sistema Solare. Quando si avvicinano al Sole il ghiaccio che le costituisce sublima dando luogo a quella che è l’atmosfera cometaria: la chioma. Gas e polveri vengono così emessi nello spazio e conseguentemente spazzati via dal vento solare formando la coda cometaria. Ricordiamo che il 2013 sarà ricordato per gli abitanti dell’emisfero boreale come l’anno delle comete dato che ben tre comete luminose varcheranno i nostri cieli: la cometa PAN-STARRS, LEMMON ed ISON.  Quando il nostro pianeta, durante il suo moto di rivoluzione intorno al Sole, attraversa i detriti lasciati nello spazio dalle comete abbiamo il manifestarsi del fenomeno degli sciami meteorici. Quindi le meteore o “stelle cadenti” non sono altro che detriti di origine cosmica che, cadendo verso Terra, si “incendiano” emettendo luce. Se una meteora cade sino a sfiorare la superficie terrestre, rendendosi talvolta persino udibile a grande distanza, si parla di bolide. Quando una meteora arriva a colpire la superficie terrestre prende allora il nome di meteorite.

Concludiamo infine ricordando che oltre ai corpi celesti abbiamo i satelliti artificiali e la stazione spaziale internazionale (ISS) che appaiono in cielo come stelle luminose in moto tra le stelle fisse. Queste possono poi scomparire magicamente nel nulla quando passano attraverso il cono d’ombra generato dalla Terra. Alcuni satelliti invece possono ruotare su se stessi velocemente riflettendo come dei flash la luce del Sole. Tali flash che appaiono ad occhio nudo come dei bolidi sono chiamati iridium flash.
Non siete soddisfatti della vastità di oggetti da osservare e riprendere con le vostre fotocamere digitali che vi offre l’Universo? Allora ve ne aggiungiamo altri. Infatti, oltre ai corpi celesti “erranti” esistono altri che variano la loro luminosità nel tempo. Esempi sono le stelle variabili che cambiano la loro luminosità passando dall’essere visibili ad occhio nudo ad essere faticosamente distinguibili con un binocolo. Il motivo di tale variazione di luminosità dipende dalla natura della stella (sistema doppio che si eclissa reciprocamente, stelle instabili, …).

Altri esempi sono le novae, ovvero stelle che per un certo periodo della loro vita vanno incontro a fenomeni esplosivi violenti in grado di aumentarne la luminosità. L’ultima nova visibile ad occhio nudo è stata la Nova Delphini 2013 esplosa il 14 Agosto del 2013 nella costellazione del Delfino (vedi Figura 1.11).

Figura 1.11: la Nova Delphini 2013 e la piccola nebulosa planetaria NGC6905.

Ultimo fenomeno transitorio ma non meno importante è l’esplosione di supernova. In questo caso la luminosità della stella, giunta ormai al termine della propria vita, aumenta vertiginosamente, diventando così il corpo più luminoso dell’intera galassia che la ospita. L’esplosione di supernova è un fenomeno raro all’interno di una stessa galassia, ma considerando la quantità enorme di galassie alla portata dei telescopi amatoriali, scopriamo che ogni mese è possibile riprenderne almeno una (vedi Figura). Ben diverso è osservare una supernova all’interno della Via Lattea. L’ultima esplosione fu la così detta “stella di Keplero”, osservata nell’ormai lontano 9 Ottobre del 1604. Alcune delle nebulose che oggi osserviamo nel cielo non sono nient’altro che resti di quelle imponenti esplosioni.

 




Vita e morte delle stelle

Seppur in quantità minore rispetto al Sole, anche la luce lunare viene diffusa dalla nostra atmosfera donando al cielo notturno una colorazione bluastra. Purtroppo a seguito dell’inquinamento luminoso questo fenomeno non è più osservabile da cieli urbani e suburbani dove la volta celeste appare perennemente di colore giallo-arancione.

Una stella risulta visibile a occhio nudo quando è distinguibile dal fondo cielo. Questo ovviamente nei limiti imposti dalla natura stessa dell’occhio umano. Quindi se il cielo aumenta la sua luminosità discostandosi dal colore nero, se ne deduce che il numero di stelle visibili ad occhio nudo tende mano a mano a diminuire. Il caso limite è ovviamente il cielo diurno dove la diffusione della luce solare cela all’occhio umano la visione di tutte le stelle presenti. Se pertanto vogliamo osservare un cielo ricco di stelle dobbiamo cercare un cielo buio che si traduce in basso inquinamento luminoso e assenza di Luna in cielo. Questo spiega perché gli astrofili osservano gli oggetti celesti prevalentemente in condizioni di Luna Nuova e perché gli Osservatori Astronomici aprono le loro porte al pubblico quasi unicamente in Luna Piena.

È giunto quindi il momento di fare il grande balzo. Scegliete quindi il weekend più vicino alla Luna Nuova, prendete la vostra automobile e correte il più lontano dai centri cittadini. Dato che a diffondere la luce sono principalmente le particelle di acqua presenti in atmosfera, cercate un posto asciutto come i valichi alpini o le cime di colli. A questo punto, aspettate due ore circa dopo il tramonto in modo da dare tempo al Sole di andare sufficientemente sotto l’orizzonte, portando con se la sua luce accecante. Alzate quindi gli occhi al cielo: ciò che vedrete sarà un’esperienza unica e indimenticabile. Le stelle in cielo saranno tantissime e le più luminose sembreranno cadervi in testa. Solo dopo una mezz’ora riuscirete ad orientarvi e a distinguere quelle poche stelle che avete imparato a riconoscere dai cieli inquinati di casa vostra.

Ora che avete cominciato a ritrovare le vostre stelle di guida, siete pronti per cominciare a navigare tra gli astri celesti che inondano la volta celeste. Ma prima di fare ciò osservate con attenzione le stelle più luminose. Non sono tutte dei puntini bianchi. Alcune di esse avranno una colorazione più giallognola, alcune rosso mattone, altre azzurro chiaro. Le stelle assumono infatti colorazioni differenti a seconda della loro natura e del loro stato evolutivo. Purtroppo anche l’esperienza di osservare i colori delle stelle sta diventando un lontano ricordo per gli astrofili che vivono sotto cieli urbani o suburbani.
Quei puntini luminosi (ora potremmo dire anche colorati) che chiamiamo abitualmente stelle sono in realtà sfere di plasma del tutto simili al nostro Sole, poste a distanze enormi da noi. Le dimensioni di questi “Soli” variano moltissimo passando da circa 20 km di diametro a 2600 volte il diametro del nostro Sole, pari a 1391000 chilometri.

Ancora una volta le dimensioni di una stella dipendono dalla loro natura e dal loro stato evolutivo. Infatti, come gli esseri viventi, anche le stelle nascono, crescono e muoiono. Volendo semplificare e generalizzare l’evoluzione stellare potremmo affermare che, da una nube di gas primordiale, condensarono in un passato più o meno lontano una o più stelle, così come le gocce di pioggia condensano dalle nuvole. La forza di gravità responsabile di tale condensazione ha permesso alle regioni centrali della stella neonata di raggiungere temperature elevatissime in grado di innescare reazioni di fusione termonucleare. Saranno proprio queste ultime a permettere alla stella di non collassare ulteriormente e di brillare per miliardi di anni. In questa condizioni di stabilità si trova ad esempio ora il nostro Sole. Dopo miliardi di anni però il “combustibile nucleare” presente nel cuore della stella tende ad esaurirsi. Ecco quindi che con il venire meno delle reazioni di fusione termonucleare la stella ritorna in una fase di instabilità e a seconda della sua massa può procedere attraverso vie più o meno tormentose che la porteranno a liberarsi di quasi tutto il gas che la compone attraverso processi più o meno esplosivi. Il gas così liberato nello spazio prende il nome di nebulosa (vedi Figura 1.6). Proprio in queste nebulose potranno successivamente nascere nuove stelle. Quando la stella libera il proprio gas in maniera non violenta, allora la nebulosa assume una forma sostanzialmente sferica e si parla di nebulose planetarie (vedi Figura 1.6).

Figura 1.6: A sinistra la nebulosa planetaria M27 nella costellazione della Volpetta. A destra la Grande nebulosa di Orione

Il nostro Sole finirà la propria esistenza generando una nebulosa planetaria. Il nome “planetario” deriva dal fatto che in passato, quando la qualità ottica dei telescopi era piuttosto scarsa, queste nebulose venivano confuse con dischi planetari.

Seppur deboli rispetto alle stelle, le nebulose sono visibili sia ad occhio nudo che ovviamente attraverso binocoli o telescopi. Come detto in precedenza, da una nube primordiale possono nascere più stelle contemporaneamente che pertanto appariranno in cielo in forma di gruppi, destinati a dissolversi nel corso di miliardi di anni. Tali gruppi di stelle, alcuni dei quali visibili facilmente ad occhio nudo, prendono il nome di ammassi aperti (vedi Figura 1.7).

Figura 1.7: A sinistra il Doppio Ammasso del Perseo. A destra l’ammasso globulare M22 nel Sagittario.

La distanza tra una stella e l’altra dell’ammasso è generalmente molto grande tanto da ritenere le stelle come sistemi indipendenti. Altre volte però due o più stelle possono trovarsi così vicine da cominciare a ruotare le une intorno alle altre. In questo caso si parla di sistemi multipli e possono essere osservate con piccoli telescopi. Quando le stelle del sistema sono solo due si parla di stelle doppie. Ovviamente due stelle molto vicine in cielo non sempre sono legate fisicamente. Infatti talvolta appaiono tali solo a causa di un allineamento prospettico fortuito tra stelle molto lontane tra loro. In questo caso si parla di stelle doppie prospettiche. Una stella doppia prospettica assai nota è la coppia Alcor e Mizar che costituisce una delle sette stelle dell’Orsa Maggiore.

Ma le stelle sono distribuite uniformemente nella volta celeste? Se la osservate in primavera la risposta sembrerebbe essere si, ma osservando il cielo notturno in tutte le altre stagioni osserverete una striscia lattiginosa attraversare il cielo. Proprio in questa striscia troverete il maggior numero di nebulose ed ammassi aperti visibili ad occhio nudo. Si chiama Via Lattea e rappresenta una vera e propria “nube” di stelle (vedi Figura 1.8).

Figura 1.8: La regione centrale della Via Lattea ripresa dall’isola di La Palma (Spagna).

Se infatti prendete un binocolo e percorrete la Via Lattea scoprirete che quella macchia lattiginosa non è altro che una distesa quasi infinita di stelle. In realtà tutte le stelle visibili di notte ed il nostro stesso Sole appartengono a questo vastissimo insieme di stelle che chiamiamo Galassia. Intorno alla Via Lattea si sono poi formati degli addensamenti di stelle a forma sferica detti per l’appunto ammassi globulari (vedi Figura 1.7).

Se ora guardiamo nel cielo più profondo è possibile osservare altri insiemi di stelle del tutto simili alla nostra Galassia. Sono le galassie (con la “g” minuscola) di cui la più vicina, nota come galassia di Andromeda, è visibile persino ad occhio nudo da cieli particolarmente bui (vedi Figura 1.9).

Scopo di questo paragrafo è di fornire al lettore la terminologia astronomica necessaria per comprendere i soggetti di future riprese astrofotografiche. Non è nostro scopo dare una descrizione completa di tali corpi e fenomeni celesti. Il lettore interessato potrà trovare tali informazioni in qualsiasi libro di Astronomia.

Figura 1.9: La galassia di Andromeda (M31).

 




Luna e Sole

Potremmo affermare che tra tutti i corpi celesti, la Luna e il Sole sono quelli più noti anche tra le persone non appassionate di Astronomia. In passato erano importantissimi, dato che con il loro moto, determinavano il passare del tempo. Il Sole è la stella più vicina alla Terra e questo fa si che essa appaia come l’oggetto più luminoso del cielo. La sua luminosità è così elevata che la luce solare viene diffusa dall’atmosfera terrestre che pertanto si illumina coprendo così la luce delle altre stelle. Questo è il motivo per cui di giorno non riusciamo ad osservare nessun corpo celeste ad eccezione della Luna, del pianeta Venere e di eventuali fenomeni transienti come comete, meteore o esplosioni di supernovae (vedi paragrafo 2.4 e 2.5). Grazie all’ausilio di filtri specializzati è possibile osservare una regione della nostra stella nota come fotosfera, che potremmo definire come la “superficie” del Sole. Questa appare come una superficie luminosa uniforme, solcata a volte da macchie scure e filamenti brillanti. Le prime sono note come macchie solari e rappresentano delle regioni più fredde della fotosfera. Queste prendono parte alla rotazione solare e evolvono nel tempo modificando continuamente la loro forma e dimensione. Il Sole presenta dei periodi in cui è ricco di macchie solari, alternati a periodi di apparente quiescenza. Tali periodi prendono rispettivamente il nome di massimi e minimi solari. La distanza temporale tra due massimi solari è nota come ciclo solare ed è pari a circa 11 anni. Le regioni più brillanti della fotosfera sono le facole e in contrapposizione alle macchie solari sono regioni particolarmente calde. Grazie a particolari telescopi, noti come telescopi solari H-alfa, è possibile osservare la regione sovrastante la fotosfera, nota come cromosfera. La cromosfera potremmo interpretarla come “l’atmosfera solare”. Le strutture più evidenti della cromosfera sono le protuberanze solari; immensi getti di gas e plasma che raggiungono spesso dimensioni enormi, pari a parecchie volte il diametro dell’intera Terra. La cromosfera è visibile, insieme alla regione ancor più esterna costituita da gas rarefatto e nota con il nome di corona, durante le eclissi totali di Sole.

Figura 1.4: Eclissi Totale di Sole - 11/08/1999. Visibile chiaramente la corona solare e più internamente la cromosfera di colore rosso.

Durante questi fenomeni visibili da Terra, la Luna si interpone tra il Sole e il nostro pianeta, oscurando così la luce della fotosfera e rendendo visibili le parti meno luminose: cromosfera e corona. Quando la sovrapposizione non è perfetta e la Luna non riesce a coprire perfettamente il Sole allora si parla di eclissi anulare.
La Luna appare vista dal Terra delle stesse dimensioni angolari del Sole. Questo è dovuto al fatto che il diametro della nostra stella sia circa 400 volte quello lunare e, nello stesso tempo, la Luna sia 400 volte più vicina alla Terra. Condizione fortuita ma che permette il manifestarsi delle eclissi totali così come le conosciamo. La Luna è il nostro unico satellite naturale e ruota intorno a noi, così come su se stessa, con un periodo di circa un mese. Conseguenza di questo sincronismo tra periodo di rivoluzione e rotazione è il fatto che la Luna mostra a noi terrestri sempre la stessa faccia. A causa del moto di rivoluzione intorno alla Terra, la Luna presenta le fasi. Quando la Luna è completamente illuminata dal Sole si parla di Luna Piena, quando è illuminata per metà Luna al Primo o Ultimo Quarto infine quando non è illuminata e quindi invisibile tra le luci del giorno si dice essere Luna Nuova. Se, durante la fase di Luna Piena, il nostro satellite viene completamente oscurato dal cono d’ombra terrestre, allora si manifesta un’eclissi totale di Luna. Potrete ben capire che le eclissi di Sole avvengono unicamente in Luna Nuova, quando il nostro satellite si trova tra noi ed il Sole mentre quelle di Luna in Luna Piena. Ingrandendo il disco lunare attraverso un semplice binocolo, teleobiettivo o telescopio è possibile notare alcune conformazioni tipiche quali crateri da impatto, pianure note anche con il nome di “mari lunari”, vallate e catene montuose (vedi Figura 1.5).

Figura 1.5: Particolare della superficie lunare. Sono visibile alcune catene montuose, vallate e pianure nonché i numerosi crateri da impatto.

Come per la durata del giorno, anche il periodo tra due Lune Piene non è esattamente 27 giorni 7 ore e 42 minuti, ovvero il periodo di rivoluzione della Luna detto mese siderale, ma 29 giorni 12 ore e 44 minuti a seguito del moto della Terra intorno al Sole. Quest’ultimo periodo è detto mese sinodico.