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Il potere risolutivo

Sovente gli astrofili visualisti fanno a gara nel risolvere stelle doppie molto strette. Ovvero cercare di separare due stelline, preferibilmente di uguale luminosità, a distanza apparente (o reale) reciproca molto ridotta. Così come in passato si utilizzavano le stelle doppie per testare la bontà della propria vista, oggi gli astrofili utilizzando stelle doppie strette per testare la qualità dei propri telescopi. La separazione minima θ tra due stelle, misurata in secondi d’arco, osservabile al vostro telescopio è detto potere risolutivo raggiunta dal vostro telescopio. Questo significa che voi riuscirete ad osservare al telescopio particolari ed oggetti di dimensioni angolari superiori a θ. E’ possibile conoscere a priori il valore del potere risolutivo? Purtroppo no dato che dipende dalla turbolenza atmosferica (seeing), dalla qualità ottica del vostro telescopio e dal limite di diffrazione. Il primo parametro infatti è difficilmente quantificabile a priori e dipende dal giorno e dal luogo di osservazione. Anche il secondo spesso non è quantificabile dato che ormai i telescopi sono prodotti industriali spesso diversi l’uno dall’altro. L’unico parametro quantificabile poiché dipende unicamente dalla natura stessa della luce è il limite di diffrazione. Se quindi ipotiziamo di avere ottiche perfette ed un cielo privo di turbolenza atmosferica, allora il potere risolutivo sarà determinato unicamente dal limite di diffrazione. Questo è quello che spesso prende il nome di potere risolutivo teorico o con abuso di notazione potere risolutivo.

Prima di determinare matematicamente θ ricordiamo che la diffrazione è un fenomeno fisico che si manifesta quando un’onda incontra un ostacolo sul proprio cammino. Questo diventa tanto più importante tanto più le dimensioni dell’ostacolo si avvicinano alla lunghezza d’onda λ dell’onda incidente. Nel caso in esame l’onda incidente è rappresentata dall’onda (piana in prima approssimazione) elettromagnetica emessa dalla stella, mentre l’ostacolo è l’ottica. Quello che succede è che l’onda elettromagnetica arrivando a ridosso del nostro telescopio si “spacca”. Un “pezzo” sta fuori dal telescopio ed un “pezzo” entra nel telescopio in perfetta analogia con quanto succede quando le onde del mare entrano in un molo. Sulla base delle teorie dell’elettromagnetismo la componente dell’onda che entra nel telescopio si comporta come una sovrapposizione di numerose onde sferiche che iterferiscono tra loro dando luogo all’immagine di diffrazione. Nel caso dei telescopi caratterizzati tutti dall’avere un’apertura circolare, l’immagine di diffrazione di una sorgente puntiforme posta all’infinito (una stella) è rappresentata da anelli concentrici luminosi detti disco di Airy. L’anello centrale (punto) è solitamente molto più luminoso dei secondari ed è quello che costituisce l’immagine della stella che osserviamo al telescopio (vedi Figura 1).

Figura1: immagine di diffrazione generata da una sorgente puntiforme. Sono ben visibili gli anelli luminosi intorno all'immagine della stella.

Cosa succede se ora abbiamo due stelle identiche molto vicine? Queste, rappresentate ciascuna dal proprio disco di Airy, andranno via via a sovrapporsi al diminuire della separazione angolare. Arriveremo ad un punto in cui le due stelle non sono più “separabili” ovvero non riusciamo più a distinguere separatamente i due dischi di Airy (vedi Figura 2). Tale distanza angolare sarà proprio il potere risolutivo teorico o limite di diffrazione. Si può dimostrare matematicamente che tale punto corrisponde alla distanza dal punto centrale del disco di Airy del primo anello di diffrazione (criterio di Rayleigh). Ecco quindi che abbiamo un modo per quantificare il potere risolutivo (teorico) del nostro telescopio.

Figura 2: immagine di diffrazione generata da due sorgenti puntiformi. A sinistra quando sono lontane tra loro, a destra al limite di diffrazione.

Il limite di diffrazione e quindi il potere risolutivo teorico α dipenderà dalle dimensioni dell’ostacolo, ovvero dall’apertura del telescopio D, e dalla lunghezza d’onda della luce incidente λ. Mettendo tutto in formule:

α(rad) = 1.22 λ(nm)/D(nm)

per la luce visibile λ varia tra 380 e 760 nm. Un valore indicativo di 550nm risulta spesso più che adeguato dato che è la parte dello spettro elettromagnetico dove l’occhio umano e le reflex digitali sono più sensibili. D deve essere espresso in nm e quindi se voi conoscete il diametro del vostro telescopio in mm questo andrà moltiplicato per 1’000’000. Il risultato ottenuto sarà in radianti. Per trasformarlo in secondi d’arco dovrete moltiplicare il risultato ottenuto per 206’265. Come vedete il potere risolutivo teorico aumenta all’aumentare della lunghezza d’onda ed al diminuire del diametro del telescopio.

Purtroppo il termine “potere risolutivo” può generare giustamente confusione. Infatti se aumenta il potere risolutivo uno immagina che aumenta la capacità del telescopio di risolvere oggetti di piccole dimensioni. Ebbene è il contrario, un aumento del potere risolutivo significa un aumento dell’angolo minimo risolvibile attraverso il nostro telescopio e quindi un peggioramento della qualità della vostra ottica. Telescopi con bassi valori di potere risolutivo sono quindi migliori di telescopi con alto valore di potere risolutivo. Molto spesso quindi potrete leggere o sentir parlare di aumento del potere risolutivo con il diametro del telescopio ovviamente sbagliato dal punto di vista formale.

A titolo di esempio, un telescopio Newton 150mm avrà un potere risolutivo teorico pari a:

  • Rosso (700 nm): 1.17 arcsec
  • Verde (546.1 nm): 0.92 arcsec
  • Blu (455.8 nm): 0.76 arcsec

Come detto in precenza a questo bisognerà aggiungere il contributo dovuto alla qualità dell’ottica. Questo è difficilmente valutabile ed è inferiore al limite di diffrazione solitamente per ottiche con rapporti focali f/ superiori a 8. Il contributo invece dovuto al seeing è solitamente compreso tra circa 0.4 arcsec (La Palma) ed i 2-3 arcsec o superiori nel caso di forte turbolenza atmosferica. E’ quindi facile notare come il limite di diffrazione possa talvolta non essere dominante nel calcolo del potere risolutivo di un telescopio.




Il fattore di crop

L’avvento della tecnologia digitale ha sicuramente rivoluzionato il mondo dell’astrofotografia agevolando praticamente tutte le fasi di ripresa del cielo stellato. Non tutti però si sono abituati ai nuovi concetti introdotti da questo nuovo tipo di tecnologia. Tra questi quello che sicuramente ha generato maggior confusione nel mondo dell’astrofotografia e della fotografia in generale è sicuramente il fattore di crop. Infatti sovente si sente dire anche da “esperti” fotografi che il loro obiettivo è un 300 mm, ma essendo la loro fotocamera una Canon APS-C allora questo diventa un 480 mm. Questa frase ovviamente è sbagliata ed in questo post cercheremo di capire perché.

Partiamo iniziando con il dire che la lunghezza focale di un obiettivo (fisso o fissata ad un determinato valore nel caso degli zoom) non può cambiare e per un telescopio rifrattore coincide con la distanza tra la lente ed il piano focale, ovvero dove viene focalizzata l’immagine. Quindi un obiettivo 300 mm sarà e rimarrà sempre un 300 mm.

Figura 1: A sinistra il paese di Varenna (LC) ripreso con una full frame (equivalente). A destra lo stesso paesaggio con una APS-C

Se però osserviamo la Figura 1 ci rendiamo subito conto che utilizzando il medesimo obiettivo otterremo risultati diversi nel caso si usasse una Canon EOS con sensore full frame o APS-C. L’immagine ripresa con sensore APS-C appare più ingrandita, come se si fosse utilizzato un obiettivo di lunghezza focale superiore. Prima di comprendere come ciò sia possibile dobbiamo comprendere il significato delle parole full frame e APS-C. Questo si potrebbe facilmente riassumere in: “dimensione del sensore”. Infatti i sensori full frame sono quelli le cui dimensioni del CMOS sono equivalenti a quelli del tradizionale negativo a 35 mm ovvero 24 x 36 mm. I sensori APS-C sono invece più piccoli e nel caso di sensori Canon hanno dimensioni 14.8 x 22 mm.

L’apparente ingrandimento mostrato in Figura 1 è quindi unicamente dovuto alle dimensioni del sensore utilizzato. Perché? Cerchiamo di capirlo insieme. Per fare ciò partiamo da un semplice esempio. Vogliamo riprendere la nebulosa proboscide d’elefante utilizzando due fotocamere, una con sensore full frame ed una con sensore di dimensioni ridotte (non necessariamente APS-C). La luce emessa dalla nebulosa e quindi la sua immagine, dopo aver viaggiato per anni nello spazio interstellare, raggiunge il nostro telescopio o obiettivo fotografico e viene “ricostruita” su quello che abbiamo detto essere il piano focale. Ora se potessimo mettere un foglio di carta all’altezza del piano focale vedremmo l’immagine della nebulosa rappresentata perfettamente all’interno di un riquadro circolare. Perché circolare? Perché le lenti del telescopio sono di forma circolare. A questo punto sostituiamo il nostro foglio di carta con il sensore della fotocamera digitale. Ovviamente questo deve essere più piccolo dell’immagine circolare, altrimenti vedremmo la cornice nella nostra immagine (Figura 2). Tutti i telescopi e gli obiettivi fotografici sono pensati per avere un’immagine al piano focale più grande di un sensore APS-C o full frame.

Figura 2: A sinistra le dimensioni dei due sensori rapportati all'immagine generata dal telescopio / obiettivo sul piano focale. In alto a destra l'immagine ripresa dal sensore full frame, in basso a destra quella ripresa da un sensore APS-C o comunque da un sensore di dimensioni più piccole del full frame.

A questo punto non ci resta che scattare la nostra foto. Il risultato dello scatto è mostrato in Figura 2 a destra. A parità di dimensioni del pixel avremo nel caso di una full frame (sensore grande) un’immagine grande, mentre con un sensore APS-C (sensore piccolo) un’immagine piccola. Se immaginiamo di avere una fotocamera con sensore full frame (dimensioni 24 x 36 mm) da 3186 x 4779 pixel, allora l’immagine ripresa con il sensore APS-C (dimensioni 14.8 x 22 mm) avrà dimensioni in pixel  1965 x 2920. Questo ipotizzando che le dimensioni dei pixel siano uguali nelle due fotocamere (nel nostro esempio 24 mm / 3186 pixel = 7.5 micron). Cosa succede però se ora le due fotocamere hanno dimensioni dei pixel differenti? Ovvero ad esempio il sensore full frame ha dimensione dei pixel pari al doppio della APS-C? In questo caso le due immagini riprese precedentemente avranno la stessa dimensione in pixel come mostrato in Figura 3.

Figura 3: A sinistra l'immagine della nebulosa proboscide d'elefante ripresa con una camera full frame con pixel da 7.5 micron mentre a destra con una APS-C con pixel da 3.75 micron.

Quindi possiamo riassumere il nostro discorso dicendo che utilizzando un sensore APS-C con pixel piccoli otterremmo un’immagine di dimensioni analoghe a quella realizzata con una full frame dotata di pixel grandi. Figura 3 mostra che, come conclusione delle nostre argomentazioni, l’immagine della nebulosa proboscide d’elefante risulta più ingrandita nel caso di sensori APS-C rispetto a full frame. Questo fattore di ingrandimento si chiama fattore di crop. In realtà però è sbagliato definirlo ingrandimento. La terminologia corretta sarebbe: sensori di piccole dimensioni riprendono un campo più piccolo di sensori full-frame, dove per campo intendiamo la frazione di immagine sul piano focale coperta dal sensore. Un sensore APS-C Canon copre ad esempio un campo (24mm/14.8mm = 1.6 e 36mm/22mm = 1.6)  1.6 volte più piccolo di un sensore full frame e pertanto è come se l’immagine fosse 1.6 volte più grande.

Siamo quindi giunti al punto del grande fraintendimento: avere un’immagine che apparentemente è 1.6 volte più grande non significa aver ingrandito l’immagine sul piano focale di 1.6 volte ovvero aver aumentato la focale del telescopio. Quindi è vero che un’immagine ripresa da un sensore full frame con un obiettivo da 480 mm di focale offre lo stesso ingrandimento di una camera APS-C con un obiettivo da 300 mm ma le due ottiche danno immagini differenti sul piano focale e quindi sono differenti. E come si manifesta questa differenza? Ovviamente nella qualità dell’immagine. Un’immagine ripresa con una full frame e obiettivo 480mm è sicuramente di qualità superiore rispetto ad un’immagine ripresa con sensore APS-C e obiettivo 300mm. Questo perché se la full frame riprende un’immagine effettivamente grande, la APS-C riprende un’immagine solo apparentemente grande.

Riassumendo: l’ingrandimento ottenuto in una ripresa astrofotografica dipende da due fattori, lunghezza focale del telescopio e dimensione del sensore. Quindi uno stesso telescopio può fornire immagini con ingrandimenti differenti!!! Nei vostri scatti ricordatevi pertanto di indicare sempre la lunghezza focale di ripresa e il tipo di sensore utilizzato (dimensione del pixel in micron e del sensore in mm).




C/2012 S1 (ISON) – 17/10/2013

Telescopio o obiettivo di acquisizione (Imaging telescope or lens): Newton SkyWatcher BlackDiamond 150 mm f/5

Camera di acquisizione (Imaging camera): CCD Atik 383L+ B/W [5.4 μm]

Montatura (Mount): SkyWatcher NEQ6

Telescopio o obiettivo di guida (Guiding telescope or lens): Rifrattore ED (ED reftactor) Tecnosky Carbon Fiber 80mm f/7

Camera di guida (Guiding camera): Magzero MZ-5m B/W [5.2 μm]

Riduttore di focale (Focal reducer): non presenti (not present)

Software (Software): IRIS + Adobe Photoshop CS3

Accessori (Accessories): correttore di coma Baader MPCC (Baader MPCC coma corrector)

Filtri (Filter): Astronomik CCD L

Risoluzione (Resolution): 1681 x 1268 (originale/original), 1696 x 1301 (finale/final)

Data (Date): 17/10/2013

Luogo (Location): Inverigo – CO, Italia (Italy)

Pose (Frames): 7 x 480 sec bin 2×2 L

Calibrazione (Calibration): 10 x 480 sec bin 2×2 dark, 90 bias, 50 flat

Fase lunare media (Average Moon phase): 95.9%

Campionamento (Pixel scale):  2.9510652 arcsec/pixel

Focale equivalente (Equivalent focal lenght): 758 mm

Note (note): Riportiamo l’immagine originale della cometa ed in colori invertiti. Dall’immagine è stato possibile ottenere una stima della dimensione della coda superiore a 395.47 pixel ovvero 19.45 arcmin  (original and inverted pictures have been reported).

C/2012 S1 (ISON) - 17/10/2013

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APPENDICE B: Software e app per l’astrofotografia digitale

In questa appendice riportiamo l’elenco dei software più diffusi nel mondo dell’astronomia e dell’astrofotografia digitale. Con * sono indicati i programmi consigliati dall’autore:

 

 

 

 

PLANETARI E MAPPE ASTRONOMICHE

Stellarium* www.stellarium.org

Perseus www.perseus.it

SkyChart www.ap-i.net/skychart

The Sky X* http://www.bisque.com/sc/

Starry Night astronomy.starrynight.com 

Virtual Moon Sky Atlas* www.ap-i.net/avl

 

STAR-TRAILS E ELABORAZIONE DELLE IMMAGINI ASTRONOMICHE

Star Trails* www.startrails.de/html/software.html

IRIS* www.astrosurf.com/buil/us/iris/iris.htm

Deep Sky Stacker deepskystacker.free.fr 

MaximDL* www.cyanogen.com

PixInsight* pixinsight.com

AstroArt www.msb-astroart.com

Nebulosity www.stark-labs.com/nebulosity.html

Adobe Photoshop* http://www.adobe.com/it/products/photoshop.html

GIMP www.gimp.org

 

ACQUISIZIONE ED ELABORAZIONE IMMAGINI DA WEBCAM

wxAstroCapture* arnholm.org/astro/software/wxAstroCapture/

K3CCD www.pk3.org/K3CCDTools

Registax* www.astronomie.be/registax/

 

SISTEMA AUTOGUIDA

PhD Guiding www.stark-labs.com/phdguiding.html

 




APPENDICE A: Costellazioni e oggetti celesti visibili da cieli urbani e suburbani

Gli oggetti celesti più luminosi del cielo boreale siano essi ammassi stellari, nebulose o galassie, sono raccolti in un catalogo noto come “catalogo Messier”. Questo fu compilato dall’astronomo francese Charles Messier e pubblicato nel 1774. Gli oggetti di tale catalogo sono identificati con la lettera M seguita da un numero compreso tra uno e 110. Alcuni oggetti non presenti nel catalogo Messier, ma in altri come quello di Barnard (B), Collinder (C), Index Catalogue (IC) o New General Catalogue (NGC), sono tuttavia ottimi soggetti fotografici. Di seguito riportiamo la lista delle costellazioni e degli oggetti celesti più belli dal punto di vista astrofotografico (focali a medio campo esclusi gli ammassi globulari, galassie e nebulose planetarie).

Costellazione Visibilità ad occhio nudo da cieli urbani e suburbani (A visibile con estrema facilità – E invisibile) Oggetti Celesti
Orsa Minore C  
Drago C  
Giraffa D  
Cefeo C Nebulosa Proboscide d’Elefante (IC 1396), Nebulosa Iride (NGC 7023)
Cassiopea A Nebulosa Cuore (IC 1805), Nebulosa Anima (IC 1848), Nebulosa Pacman (NGC 281)
Orsa Maggiore A M101, M81, M82
Lucertola D  
Pegaso C M15
Cavallino D  
Cigno B Nebulosa Nord America (NGC7000), Nebulosa Bozzolo (IC 5146) Nebulosa Velo (NGC 6979, NGC 6960, NGC 6992, NGC 6995), Regione di Gamma Cygni, C399, Nebulosa Crescente (NGC 6888)
Lira B Nebulosa Anulare della Lira (M57)
Volpetta D Nebulosa Manubrio (M27)
Freccia C M71
Delfino C  
Aquila B  
Ercole C Ammasso Globulare dell’Ercole (M13)
Corona Boreale B  
Serpente B Nebulosa Aquila (M16), M5
Ofiuco C Regione Nebulare di Rho Ophiuchi
Boote A  
Cani da Caccia C  
Chioma di Berenice C Ammassi di Galassie
Vergine B Ammassi di Galassie
Leone Minore D  
Leone A  
Cancro D Ammasso del Presepe (M44)
Lince D  
Gemelli B M35
Cane Minore B  
Auriga A IC 405, IC410, M36, M37, M38
Toro A Pleiadi (M45)
Perseo B Nebulosa California (NGC 1499), Doppio Ammasso (NGC 884, NGC 869)
Andromeda C Galassia di Andromeda (M31)
Triangolo D Galassia del Triangolo (M33)
Ariete E  
Pesci E  
Acquario E Nebulosa Elica (NGC 7293)
Capricorno D  
Sagittario A Nebulosa Laguna (M8), Nebulosa Trifida (M20), Nebulosa Omega (M17), M24, M22
Scudo C Nube dello Scudo, M11
Corona Australe E  
Scorpione A M4, M6, M7
Bilancia E  
Corvo D  
Idra E  
Cratere D  
Sestante E  
Unicorno E Nebulosa Rosetta (NGC 2244), Nebulosa Cono (NGC 2264)
Cane Maggiore A  
Lepre C  
Orione A Nebulosa di Orione (M42, M43), Nebulosa Testa di Cavallo (B33), M78, Anello di Barnard, Nebulosa Testa di Scimmia (NGC 2175)
Eridano E Nebulosa Testa di Strega (IC 2118)
Balena E  

In grassetto le costellazioni attraversate dalla Via Lattea.




Altro che reflex! Luna e pianeti con la webcam

Nel capitolo 3 abbiamo visto come, una volta sottratte tutte le sorgenti di rumore, la qualità dell’immagine finale dipende unicamente dal numero di light frame acquisiti. Infatti il rumore casuale presente nell’immagine diminuisce come la radice quadrata del numero di scatti effettuati. Questo fatto non è applicabile unicamente alle riprese di oggetti quali galassie, amassi stellari e nebulose ma anche nel caso i cui il soggetto sia la Luna, il Sole o i pianeti. I pianeti, così come i particolari superficiali di Luna e Sole hanno però dimensioni apparenti molto piccole e pertanto richiedono l’utilizzo di lunghe focali. All’aumentare della focale e quindi dell’ingrandimento utilizzato comincia a diventare evidente il fenomeno della turbolenza atmosferica o seeing. Questa consiste nella deformazione dell’immagine dell’oggetto a seguito di un continuo rimescolarsi di aria calda e fredda in atmosfera. L’effetto globale è simile all’osservare un oggetto posto prospetticamente sopra una sorgente di calore come un fuoco od un calorifero. Le condizioni di seeing migliori si ottengono in assenza di vento e pertanto si consiglia di effettuare le proprie riprese astrofotografiche in tali condizioni. Fortunatamente il seeing è un fenomeno anch’esso statistico ed a media nulla. Pertanto mediando molti light frame è possibile ridurre l’effetto dovuto al seeing. L’immagine finale subisce un ulteriore miglioramento se escludiamo dalla media i light frame più deformati (vedi Figura 4.5).

Figura 4.5: A sinistra il singolo fotogramma (light frame) soggetto a turbolenza atmosferica. A destra l’immagine finale, media di 500 light frame.

Quindi le condizioni chiave per una buona ripresa di pianeti, Luna e Sole è quella di avere lunghe focali e molti light frame. In passato questo era possibile unicamente tramite la ripresa di più scatti effettuati con il metodo del fuoco indiretto. Per ottenere lunghe focali non è però strettamente necessario utilizzare lenti addizionali, basta concentrare il maggior numero di pixel nell’unità di area illuminata dall’immagine del pianeta o del particolare lunare/solare. In questo modo l’utilizzo di sensori piccoli può portare come effetto globale un aumento dell’ingrandimento fornito dal telescopio. Questo fatto è ben noto a chi utilizza sensori per reflex con formato APS-C in grado di fornire maggiori ingrandimenti rispetto a quelli Full-Frame di maggiori dimensioni (un fattore 1.6x per esempio nel caso di Canon EOS).

Abbiamo quindi bisogno di una fotocamera dotata di un sensore di piccole dimensioni ed alto numero di pixel con cui effettuare il maggior numero di light frame. Ma perché una fotocamera?

Alcune webcam dotate di sensore CCD soddisfano tutte le caratteristiche fin qui richieste. Infatti un video in formato AVI (ossia senza compressione) può essere visto come una sequenza di immagini, nel nostro caso di light frame. Possiamo quindi realizzare un video di un particolare dettaglio lunare/solare o pianeta, dopodiché ci saranno software in grado di “smontare” il video trasformandolo in una sequenza di light frame da calibrare e mediare al fine di ottenere l’immagine finale.

Non vi resta quindi che acquistare una webcam dotata di sensore CCD su internet e collegarla, senza obiettivo, al fuoco diretto del vostro telescopio. I risultati saranno stupefacenti!

Per chi non se la sentisse di modificare una webcam esistono sul mercato molte camere astronomiche dotate di sensori CCD o CMOS studiate appositamente per le riprese planetarie (e ovviamente lunari/solari). I costi sono ovviamente superiori alle normali webcam disponibili sul mercato.

 




Riprendere la Luna con uno smartphone o cellulare

Il metodo afocale sta ottenendo un notevole sviluppo negli Stati Uniti dove è possibile trovare in commercio dei supporti per smartphone in grado di vincolare il vostro cellulare all’oculare del telescopio. In questo modo è possibile fare delle bellissime riprese della Luna anche utilizzando il vostro cellulare. Purtroppo al momento questi supporti non sono venduti in Italia e quindi l’unica possibilità di riprendere la Luna dal nostro paese è quella di appoggiare delicatamente il vostro smartphone all’oculare del telescopio. Il risultato finale sarà sbalorditivo e semplicissimo da ottenere. Inoltre recentemente sono stati sviluppati una serie di App per smartphone in grado di aiutarvi nella ricerca di oggetti in cielo oltre che nello stazionamento del vostro telescopio (vedi appendice B). È molto probabile un futuro sviluppo di questa applicazioni che permetteranno il controllo della vostra strumentazione astrofotografica direttamente da cellulare. Non ci resta che aspettare buttando di continuo un occhio tra le novità presenti nei vari App store.




Collegare una reflex al telescopio

Dopo aver mosso i primi passi nel mondo della “vera” astrofotografia digitale grazie alla tecnica della ripresa in parallelo, in questo paragrafo vedremo quali altri metodi esistono al fine di riprendere la volta celeste ed in particolare gli oggetti del profondo cielo: nebulose, ammassi stellari e galassie.

Se siete stanchi di ottenere fotografie a media e corta focale, ovvero inferiore ai 300mm, e volete andare oltre alla ricerca di oggetti di dimensioni apparenti molto piccole come galassie, nebulose planetarie e ammassi globulari è arrivato allora il momento di sfruttare il vostro telescopio. Purtroppo, come avrete imparato nel capitolo 3.4 per utilizzare lunghe focali è necessario dotarsi di un sistema di guida, sia esso manuale o automatico. Nel caso di oggetti del profondo cielo la guida deve inoltre essere precisa e quindi è necessario dotarsi di montature di buona se non ottima qualità.

Il setup per la riprese di oggetti del profondo cielo consiste quindi ora di un telescopio di ripresa e di uno di guida montati su un’ottima montatura, preferibilmente di tipo equatoriale, con sufficiente capacità di carico. A questo bisognerà aggiungere la fotocamera digitale dotata di telecomando o di cavo USB per il controllo remoto da PC.

Tre sono i metodi utili per la ripresa a lunghe focali: il metodo afocale, il metodo del fuoco diretto ed il metodo del fuoco indiretto.

Il primo (Figura 4.1) consiste nell’appoggiare la fotocamera dotata di obiettivo all’oculare del telescopio e quindi premere l’otturatore. Dato che questa ripresa è sotto tutti gli effetti a mano libera, funziona in maniera egregia solo con la Luna ed il Sole, ovvero oggetti molto luminosi. Se si vogliono riprendere oggetti del profondo cielo allora è necessario utilizzare appositi supporti in grado di vincolare la reflex all’oculare. Con il metodo afocale si ottengono buoni risultati in termini di ingrandimento anche se la qualità ottica lascia molto a desiderare dato che dipende dall’oculare utilizzato, spesso soggetto ad aberrazioni di vario genere, oltre che ad una pesante vignettatura, e dall’obiettivo installato sulla fotocamera. Un vantaggio è la possibilità di effettuare riprese del profondo cielo anche con fotocamere dotate di posa M ma non necessariamente reflex, dato che l’obiettivo non deve essere rimosso.

Figura 4.1: setup in configurazione “astrofotografia afocale”.

Il metodo del fuoco diretto (Figura 4.2) consiste invece nell’utilizzo del telescopio come vero e proprio obiettivo fotografico. Questo può essere realizzato grazie a specifici anelli adattatori, detti anelli T, che permettono di fissare la reflex al telescopio attraverso l’alloggiamento porta oculari. Un telescopio di focale  e rapporto focale  sarà quindi equivalente ad un obiettivo a focale e diaframma fissi. Nel caso della ripresa a fuoco diretto con telescopi non catadiottrici, l’utilizzo di spianatori di campo e correttori di coma è d’obbligo.

Figura 4.2: setup in configurazione “astrofotografia a fuoco diretto”.

Infine il metodo della riprese al fuoco indiretto (Figura 4.3) consiste nell’interporre un oculare tra il telescopio e la reflex non dotata di obiettivo. Questo può essere fatto attraverso l’anello T congiunto ad un apposito supporto per oculari. In questo modo la focale del telescopio viene aumentata notevolmente così come il rapporto focale dello strumento. A differenza del metodo afocale, in questo caso i difetti ottici dipendono unicamente dall’oculare utilizzato dato che la fotocamera non è dotata di obiettivo.

Un tempo il metodo della ripresa a fuoco indiretto era molto diffuso nel mondo dell’astrofotografia dato che era l’unico in grado di fornire le focali sufficienti per la ripresa di Luna, Sole e pianeti. Oggi, vedremo nel paragrafo 4.3 sono state sviluppate tecniche digitali alternative in grado di ottenere risultati di gran lunga superiori a quelli ottenibili con la tecnica del fuoco indiretto. Malgrado ciò, questa tecnica è ancor oggi utile per la ripresa di satelliti naturali poco luminosi come le lune di Urano e Nettuno nonché sistemi stellari multipli.

Figura 4.3: setup in configurazione “astrofotografia a fuoco indiretto”.

Supposto ora di aver scelto quale metodo è più adatto all’oggetto del profondo cielo che vogliamo riprendere, quali devono essere le impostazioni della nostra fotocamera digitale? Ipotizzando che la vostra montatura sia in grado di inseguire correttamente la focale utilizzata, allora impostate un valore di ISO compresi tra 400 e 1600. Il diaframma in questo caso è determinato dal telescopio utilizzato. Nel caso del metodo afocale ricordatevi di aprire tutto il diaframma dell’obiettivo montato sulla vostra reflex. Il tempo di esposizione dipende invece dalla qualità del cielo. Esponete il più a lungo possibile mantenendo buono il rapporto segnale/rumore. Questo si traduce nell’osservare lo scatto dell’oggetto ripreso a tempi di esposizione via via più lunghi finché il numero di stelle non va ad aumentare a differenza del fondo cielo che diventa via via più brillante. Non preoccupatevi se il cielo diventa chiaro, questo verrà corretto in fase di post produzione.  L’importante è che si mantenga buono lo stacco tra l’oggetto del profondo cielo e il fondo cielo. Per maggiori informazioni si faccia riferimento alla Figura 4.4.

Figura 4.4: A sinistra un light frame, così come registrato dalla fotocamera al termine dell’esposizione. A destra la stessa immagine al termine del processo di post produzione.

Ricordatevi che ISO alti non significano alto rumore dato che questo viene eliminato mediando più light frame. ISO alti significa minor dinamica e quindi maggiore difficoltà nell’ottenere una vasta gamma cromatica, come ad esempio il colore delle stelle. In caso in cui durante la ripresa siano presenti raffiche di vento consigliamo quindi l’utilizzo di alti ISO in modo tale da abbassare i tempi di esposizione ottenendo immagini ben inseguite.

 




L’ASTROFOTOGRAFIA CON IL TELESCOPIO

Eccoci quindi all’ultimo capitolo del libro. A questo punto saranno sopravvissuti solo quanti, dopo aver sperimentato la fotografia su cavalletto fotografico e con la tecnica della ripresa in parallelo vogliono spingersi verso l’infinitamente lontano e quindi in termini fotografici l’infinitamente piccolo e poco luminoso. Per fare questo sarà necessario impiegare lunghe focali e quindi l’utilizzo di telescopi astronomici dedicati. La lunghezza focale può raggiungere livelli record per un normale fotografo se si vogliono riprendere i particolari solari, lunari o i planetari. Vedremo come per queste ultime riprese sarà vantaggioso utilizzare mezzi inconsueti come webcam o smartphone.




Reflex da gara

Le fotocamere digitali generalmente hanno montato di fronte al sensore un filtro IR-CUT al fine di rendere le immagini diurne più nitide eliminando la fastidiosa radiazione infrarossa. Facendo questo però si rende la reflex poco sensibile anche alla radiazione rossa e del vicino infrarosso. Queste lunghezze d’onda sono proprio quelle di interesse per l’astrofotografia dato che è lì che le nebulose emettono luce.

Pertanto i possessori di fotocamere digitali sono limitati alla ripresa di oggetti blu-verdi come galassie e ammassi stellari. Ovviamente il problema può essere superato sostituendo il filtro originale con uno più sensibile al rosso (detta “modifica Baader”, dalla ditta produttrice di tali filtri) o in grado di far passare tutta la radiazione luminosa (modifica “full spectrum”). Queste modifiche possono essere effettuate da se o in centri specializzati a patto di perdere in molti casi la garanzia sul prodotto e la funzione auto-focus (vedi Figura 3.10).

Per ovviare a questi imprevisti la ditta Canon ha prodotto due fotocamere, la Canon EOS 20Da e Canon EOS 60Da, che montano di default un filtro più sensibile al rosso. In questo modo è possibile non rinunciare ne alla garanzia ne alla funzione auto-focus, utilissima per le riprese diurne. Il tutto ovviamente ad un costo superiore dei modelli Da rispetto ai classici modelli D di casa Canon.

Figura 3.10: A sinistra una CCD astronomica ATIK 383L+. A destra una Canon EOS 500D con sistema di raffreddamento ad aria e “modifica Baader”.

Ma la modifica del filtro è solo un primo passo per l’astrofotografo esigente che vuole ridurre al minimo il fastidioso rumore termico. Proprio per questo sono state studiate ventole di raffreddamento e cool box in grado di abbassare la temperatura della fotocamera di alcuni (importanti) gradi Celsius. Ma raffreddare una fotocamera per raffreddare il sensore non è sicuramente il metodo più efficace. Ecco quindi che la ditta CentralDS modifica le fotocamere digitali applicando una cella di Peltier proprio sul sensore. Questa tecnologia permette di diminuire la temperatura del sensore di ben quaranta gradi rispetto alla temperatura esterna con un abbattimento quasi totale del rumore termico.

Tutte queste modifiche permettono di ottenere reflex digitali sempre più simili ai CCD astronomici, ovvero sensori specifici per l’astronomia mantenuti a temperatura costante e a bassissimi livelli di rumore elettronico (vedi Figura 3.10). Seppur più rumorose delle CCD astronomiche, le reflex modificate e raffreddate montano sensori con un maggior numero di pixel e costi notevolmente inferiori.

 




Riprendere le comete

In questo capitolo abbiamo affrontato la ripresa di oggetti del profondo cielo, ovvero tutti gli astri celesti ad esclusione di Luna, Sole e pianeti. Tra questi ci sono le comete che seppur appartengono al Sistema Solare, vengono spesso indicati come oggetti del cielo profondo. Le tecniche di ripresa delle comete sono infatti del tutto identiche a quelle utilizzate per riprendere stelle e nebulose, con una differenza: le comete si muovono rispetto alle stelle fisse. Questo fa si che se utilizziamo una montatura di tipo equatoriale otterremo immagini della cometa mossa. Se invece guidiamo inseguendo la cometa otterremo le stelle mosse. L’unica possibilità è quindi quella di fare scatti con tempi di esposizione sufficientemente brevi da non avvertire il moto della cometa rispetto alle stelle fisse. Per ottenere una buona ripresa è quindi consigliabile aprire il più possibile il diaframma e alzare gli ISO.

Per le comete risulta quindi impossibile, in linea di principio, effettuare la media di più light frame a patto di non ottenere stelle o cometa mosse (vedi Figura 3.9).

Figura 3.9: Cometa Garradd che ha varcato i cieli italiani tra il 2011 ed il 2012. L’immagine è una somma di light frame eseguiti seguendo la cometa; le stelle risultato pertanto mosse.

Tuttavia esistono software in grado, a partire da più light frame, di effettuare una ripresa calibrata in cui stelle e cometa non appaiono mosse (vedi appendice B).

 




L’elaborazione delle immagini astronomiche

Nell’era della fotografia analogica gran parte del lavoro dell’astrofotografo finiva con il click dell’abbassamento dello specchietto che segnava la fine dell’esposizione della pellicola fotografica alla tenue luce di nebulose e galassie. Poco si sapeva sulla qualità dello scatto se non dopo settimane quando si andava dal fotografo a ritirare le stampe o le diapositive. Oggi tutto è cambiato. Sullo schermo della nostra fotocamera digitale possiamo subito vedere il risultato dei nostri sforzi e valutare se modificare qualche parametro di scatto, se le stelle sono perfettamente puntiformi o meno e via dicendo. Ma ancor oggi quello che vediamo sull’LCD della nostra reflex non è il risultato finale. All’appello mancano ancora ore ed ore di elaborazione al computer per estrarre quello che in questo paragrafo chiameremo segnale ovvero l’immagine della nostra galassia, nebulosa o ammasso stellare dal rumore. In questo paragrafo vedremo tutte le operazioni da compiere per raggiungere il risultato finale. Al termine della nostra posa verrà visualizzata sullo schermo LCD l’immagine ripresa così come avviene naturalmente per qualsiasi foto diurna. Tale immagine si chiama light frame e rappresenta l’oggetto celeste così come ricostruito dalla fotocamera digitale. Il light frame pertanto non è l’immagine reale, ma una sua rappresentazione ed in particolare questo è costituito da:

  1. Immagine reale o segnale,
  2. Rumore di tipo termico che appare come un disturbo uniforme,
  3. Pixel caldi e freddi ovvero pixel luminosi (rossi, verdi o blu) o neri,
  4. Rumore di tipo elettronico che appare come bande o righe più luminose,
  5. Macchie, vignettatura e non uniformità del sensore che rendono più o meno luminose alcune parti dell’immagine,
  6. Rumore casuale di varia natura.

Durante le riprese diurne il segnale domina su qualsiasi forma di rumore e pertanto l’elaborazione dell’immagine si limita semplicemente alla correzione della vignettatura, macchie e non uniformità del sensore. Di notte invece il debole segnale dei corpi celesti risulta pesantemente influenzato dalla presenza dei rumori che quindi devono essere eliminati o almeno ridotti il più possibile. Ciò è possibile attraverso una serie di tecniche che prendono complessivamente il nome di calibrazione delle immagini. Per realizzare una corretta calibrazione è necessario eliminare il rumore elettronico, come fare? Bisognerebbe realizzare uno scatto che contenga solo rumore elettronico in modo da potere sottrarlo pixel per pixel al light frame. Per fare ciò mettiamo il tappo all’obiettivo o telescopio e scattiamo con il minor tempo di posa possibile lasciando invariati tutti gli altri parametri (ISO, diaframma, messa a fuoco, …). Chiamiamo questo scatto bias frame, esso sarà costituito da:

  1. Segnale? Assente dato che stiamo riprendendo con il tappo sull’obiettivo
  2. Rumore di tipo termico? Assente perché il tempo di esposizione è così breve che il sensore non riesce a scaldarsi.
  3. Pixel caldi e freddi? Assenti perché questi si attivano solo su tempi di esposizione sufficientemente lunghi.
  4. Rumore di tipo elettronico,
  5. Macchie, vignettatura e non uniformità del sensore? Assenti dato che stiamo riprendendo con il tappo sull’obiettivo.
  6. Rumore casuale di varia natura.

Quindi riassumendo il bias frame contiene unicamente le informazioni sul rumore elettronico coperte da un rumore di tipo casuale. Il rumore casuale è caratterizzato dall’avere media nulla. Questo significa che se mediamo il valore assunto da un pixel in più scatti realizzati nelle medesime condizioni abbiamo una totale soppressione del rumore casuale. Quindi al fine di ottenere il solo segnale di rumore elettronico è necessario riprendere più bias frame e farne la media. Quanti scatti fare? La riduzione del rumore casuale va come la radice quadrata del numero di scatti, quindi maggiore è il numero di bias frame e migliore sarà il processo di sottrazione di rumore. Quindi la media dei bias frame nota come master bias frame contiene il solo rumore di natura elettronica. Consideriamo ora il rumore termico. Anche in questo caso sarebbe utile avere uno scatto che contenga le sole informazioni relative al rumore termico. Lasciamo quindi il tappo sull’obiettivo o telescopio e scattiamo con nelle stesse identiche condizioni in cui abbiamo ripreso il light frame. Questo scatto che chiamiamo dark frame sarà costituito da:

  1. Segnale? Assente dato che stiamo riprendendo con il tappo sull’obiettivo
  2. Rumore di tipo termico,
  3. Pixel caldi e freddi,
  4. Rumore di tipo elettronico,
  5. Macchie, vignettatura e non uniformità del sensore? Assenti dato che stiamo riprendendo con il tappo sull’obiettivo.
  6. Rumore casuale di varia natura.

Se ora andiamo a sottrarre al dark frame il master bias frame, otteniamo l’eliminazione completa del rumore elettronico. Se poi, come fatto per i bias frame, andiamo a riprendere più dark frame e ne facciamo la media allora riusciremo ad eliminare anche la componente di rumore casuale. Quello che resterà sarà uno scatto, il master dark frame, che conterrà tutte le informazioni sul rumore termico e pixel caldi. Per quel che concerne invece la presenza di macchie, vignettatura o non uniformità del sensore, è possibile realizzare uno scatto correttamente esposto ad una sorgente uniforme di luce. Questo scatto prende il nome di flat field frame ed è costituito da:

  1. Segnale? Assente perché l’obiettivo o il telescopio è illuminato da una sorgente uniforme.
  2. Rumore di tipo termico? Assente dato che il tempo di esposizione è solitamente veloce, inferiore al secondo.
  3. Pixel caldi e freddi? Assenti dato il limitato tempo di esposizione
  4. Rumore di tipo elettronico.
  5. Macchie, vignettatura e non uniformità del sensore.
  6. Rumore casuale di varia natura.

Sottraendo il master bias frame e mediando più flat field frame è possibile così ottenere quello che chiameremo master flat field frame che contiene unicamente le informazioni sulla disomogeneità dell’immagine a seguito della presenza di macchie, vignettatura e non uniformità del sensore. La sorgente uniforme di luce può essere costituita da un monitor di un computer, da una parete bianca uniformemente illuminata o da strumenti appositamente costruiti per l’astrofotografia note come flat box o flat field generator. Realizzato il master bias ed il master dark frame, allora è possibile sottrarli al light frame a sua volta diviso per il master flat field frame (vedi Figura 3.8). Il risultato di tale operazione sarà costituito da:

  1. Segnale.
  2. Rumore di tipo termico? Sottratto con il master dark frame
  3. Pixel caldi e freddi? Sottratto con il master dark frame
  4. Rumore di tipo elettronico? Sottratto con il master bias frame
  5. Macchie, vignettatura e non uniformità del sensore? Corretto dividendo per il master flat field frame
  6. Rumore casuale di varia natura.

Figura 3.8: Da sinistra a destra: light frame, master bias frame, master dark frame, master flat field frame e l’immagine finale ottenuta mediando 10 light frame.

Effettuando, ancora una volta, la media tra più light frame realizzati nelle stesse condizioni sarà possibile eliminare anche il rumore casuale ottenendo finalmente il segnale. La ripresa di un’immagine astronomica non è quindi limitata al singolo scatto ripreso con un obiettivo o con un telescopio ma una serie di scatti tutti uguali del medesimo soggetto oltre ad altri di calibrazioni (bias, dark e flat). Ricordiamo infine che bias, dark e flat dipendono molto dalle condizioni ambientali in cui sono stati ripresi i light e quindi devono essere realizzati sul campo. L’astrofotografo quindi deve mettere in conto di spendere tanto tempo per gli scatti di calibrazioni quanto quello impiegato per riprendere i light frame.

 




Guidare di notte

Sicuramente vi sarete accorti che fotografando con la tecnica di fotografia in parallelo utilizzando focali estese e tempi di esposizioni lunghi otterrete immagini mosse. Questo, per quanto detto nel paragrafo 3.2, è legato al fatto che è impossibile allineare perfettamente l’asse meccanico della montatura con l’asse di rotazione terrestre. Naturale conseguenza è la presenza di una deriva in declinazione dopo un tempo di esposizione che è funzione della focale dell’obiettivo utilizzata. Come risolvere questo problema?

Nella fotografia in parallelo vi sarete accorti che la funzione del telescopio è stata unicamente quella di puntare l’oggetto celeste da riprendere.

Se però fotocamera e telescopio sono paralleli e quindi l’oggetto ripreso dalla reflex è visibile anche nel telescopio, perché non utilizzare quest’ultimo come test di inseguimento? In altre parole, perché non correggere il cattivo inseguimento della montatura durante la ripresa osservando eventuali derive al telescopio. Tale correzione può essere fatta agendo sui due motorini di inseguimento, controllati di norma da una pulsantiera. Per facilitare la stima della deriva dell’oggetto è possibile utilizzare degli oculari per telescopi dotati di reticolo illuminato.

Il processo di correzione degli errori di inseguimento prende il nome di guida e dato che questo è realizzato agendo manualmente sulla pulsantiera è detta guida manuale.

Esiste però la possibilità di sostituire l’occhio umano con una camera digitale, nota come camera di guida, in grado per alcuni modelli di montature di misurare le derive e controllare automaticamente i motorini di inseguimento. Tale processo di guida completamente automatizzato prende il nome di autoguida (vedi Figura 3.7).

Figura 3.7: Sistema di autoguida montato su telescopio rifrattore apocromatico.

Guidando, sia manualmente che automaticamente, è quindi possibile riprendere con focali lunghe a piacere? Ovviamente no. La massima focale utilizzabile dipende dalla qualità della montatura equatoriale. Oltre al carico massimo supportato gioca un ruolo importante anche la precisione della montatura ovvero la sua capacità nel rispondere alle correzioni imposte manualmente o automaticamente dall’astrofotografo. Per montature economiche la massima focale utilizzabile giace intorno ai 400/500 mm di focale che sale via via a metri di focale per le montature più costose.

Ricordiamo infine che con massima focale intendiamo la massima focale tale per cui la guida diviene efficace e quindi i tempi di esposizione possono essere lunghi a piacere. Ovviamente è possibile effettuare riprese con brevi tempi di esposizione (inferiori al minuto) a lunghe focali anche con montature economiche.

 




L’astrofotografia in parallelo

Abbiamo detto che per riprendere nebulose, galassie ed ammassi stellari non è più sufficiente utilizzare un grandangolo o un fisheye; ma quale focale dobbiamo utilizzare? Ovviamente dipende dall’oggetto che vogliamo riprendere.

Un astrofotografo non può mai annoiarsi dato che nell’intera volta celeste vi sono migliaia di oggetti celesti fotografabili con strumentazione amatoriale. Le dimensioni di questi possono variare da alcuni diametri lunari (avete capito bene!) a diametri più piccoli di quelli del disco del pianeta Giove.

In questo paragrafo cercheremo di imparare a riprendere gli oggetti più estesi della volta celeste ovvero quelli accessibili con normali obiettivi fotografici. Per fare questo è necessario possedere oltre ad una reflex digitale, un obiettivo (preferibilmente a focale fissa) con focale minima pari a 100mm.

Costruiamo quindi un supporto in modo da collegare la fotocamera dotata di obiettivo in parallelo al telescopio (vedi Figura 3.6).

Figura 3.6: Setup in configurazione “astrofotografia in parallelo”.

Il sistema telescopio e fotocamera saranno poi montati su una montatura equatoriale opportunamente stazionata ossia tale per cui l’asse meccanico della montatura sia parallelo a quello di rotazione terrestre. A questo punto cerchiamo l’oggetto da riprendere o guardando nel telescopio o attraverso il mirino della reflex (molto più buio). Se la macchina fotografica è parallela al telescopio le due cose dovrebbero coincidere. Accendete quindi i motorini di inseguimento.

Da questo istante la vostra fotocamera sta inseguendo l’oggetto celeste desiderato. Spostatevi quindi sul menù M (o B per alcuni modelli) della vostra reflex, impostate valori di ISO compresi tra 400 e 1600 ISO, aprite tutto il diaframma e scattate con tempi di esposizione lunghi a piacere. L’impostazione autoscatto è consigliata ma non strettamente necessaria dato che le vibrazioni dovrebbero essere ridotte. Solitamente i tempi di esposizione sono superiori ai 30 secondi e quindi consigliamo l’utilizzo del telecomando o dello scatto remoto da PC. Il risultato finale sarà sbalorditivo!

Ricordiamo che la messa a fuoco deve essere effettuata su una stella luminosa utilizzando il mirino della fotocamera oppure, se disponibile, l’utility LiveView. Non fidatevi del simbolo  sulla ghiera di messa a fuoco dato che non coincide con la reale messa a fuoco all’infinito.

Questa tecnica nota come fotografia in parallelo segna il primo “vero” passo nel mondo dell’astrofotografia amatoriale.

Provate ora ad utilizzare focali superiori ai 100mm e tempi di esposizione molto lunghi: cosa succede? Delusi? Non vi preoccupate, nel paragrafo 3.4 troverete la risposta a tutti i vostri problemi.

 




I telescopi astronomici

Lo scopo principale di un qualsiasi strumento ottico, sia esso un obiettivo fotografico, un binocolo o un telescopio, è quello di concentrare la maggiore quantità di luce in un punto detto fuoco. In taluni casi può risultare importante anche il fattore ingrandimento ovvero quante volte l’immagine osservata o ripresa risulta più grande (o piccola) di quella che verrebbe focalizzate normalmente dall’occhio umano.

Se ora consideriamo unicamente l’aspetto astrofotografico, allora obiettivi e telescopi possono essere caratterizzati unicamente da tre grandezze fisiche: diametro , lunghezza focale o focale  e rapporto focale o diaframma . Il primo rappresenta il diametro della prima lente o specchio colpito dalla luce. La focale è invece la distanza tra questa lente ed il punto in cui viene focalizzata la luce dell’astro. In astrofotografia questo punto coincide con la posizione del sensore. Il rapporto focale è invece determinato a partire dalle prime due grandezze ed in particolare:

 f=F/d

Dato che una delle tre grandezze dipende dalle altre due, solitamente si caratterizza un obiettivo o un telescopio attraverso una coppia di valori che in particolari sono  per gli obiettivi fotografici e  per i telescopi. Quindi un obiettivo 300 mm f/2.8 significa uno strumento ottico con  e  mentre un telescopio 250 mm f/5 significa uno strumento ottico con  e  e quindi focale . Ma quali sono i costituenti di questi strumenti ottici?

Abbiamo tre possibilità per focalizzare la debole luce che ci proviene dal cosmo su un sensore, eventualmente ingrandendone l’immagine, ossia utilizzando lenti, specchi o una combinazione dei due.

Gli obiettivi fotografici ed i telescopi rifrattori rientrano nella prima categoria. I telescopi riflettori rientrano invece nella seconda ed infine i obiettivi e telescopi catadiottrici rientrano nell’ultima.

Gli obiettivi fotografici possono essere a focale fissa o variabile. In questo ultimo caso si parla più generalmente di zoom. Gli zoom sono ovviamente costituiti da un sistema più complesso di lenti rispetto agli obiettivi a focale fissa e questo ne inficia la qualità ottica che risulta pertanto inferiore. In astrofotografia è quindi consigliabile l’utilizzo di obiettivi a focale fissa. La presenza di sistemi quali lo stabilizzatore di immagine e l’auto-focus fanno si che gli obiettivi a focale fissa risultano costituiti da sistemi ottici che coinvolgono un numero di lenti superiori a quelli di un classico telescopio rifrattore. Ancora una volta questo fatto va a influire negativamente sulla qualità ottica dello strumento che risulta parecchio inferiore a quella di un telescopio rifrattore.

Nell’ambito dei telescopi rifrattori è possibile distinguere in rifrattori acromatici e apocromatici (vedi Figura 3.3).

Figura 3.3: Esempio di telescopio rifrattore apocromatico.

Mantenendo comunque uno schema ottico molto semplice gli apocromatici riescono ad eliminare quasi completamente il residuo di aberrazione cromatica presenta nei rifrattori acromatici. L’aberrazione cromatica è un difetto ottico per cui la posizione del fuoco dipende dalla lunghezza d’onda della luce incidente. Questo difetto è sempre presente in un sistema costituito da lenti, dato che dipende dal fenomeno della rifrazione della luce, e si traduce in fastidiosi aloni colorati intorno al soggetto ripreso.

I telescopi riflettori che invece utilizzano il fenomeno della riflessione della luce non sono soggetti a nessun tipo di aberrazione cromatica. Inoltre, rispetto alle lenti, costruire specchi di grandi dimensioni è più semplice ed economico. Questi due fatti spiegano il perché i telescopi riflettori siano i più diffusi nel mondo dell’astronomia. Ovviamente non sono tutte rose e fiori e se da un lato si hanno telescopi compatti, luminosi e privi di aberrazione cromatica, dall’altro entrano in campo aberrazioni legate alla concavità dello specchio utilizzato per focalizzare l’immagine sul sensore o all’allineamento tra i vari specchi che costituiscono il telescopio.

Al fine di ovviare questo problema sono stati realizzati schemi ottici via via più complessi ed oggi quelli più diffusi nel mondo dell’astrofotografia amatoriale sono i telescopi di tipo Newton e Ritchey-Chrétien (spesso denominati RC, vedi Figura 3.4).

Figura 3.4: A sinistra esempio di telescopio riflettore Newton. A destra un esempio di telescopio Ritchey-Chrétien.

Un altro modo per risolvere le aberrazioni dei riflettori è quello di utilizzare opportune lenti correttrici. Queste possono introdurre lievi aberrazioni cromatiche ma è il prezzo da pagare per avere telescopi corretti sotto tutti i punti di vista. Tali telescopi prendono il nome di catadiottrici. Tra i catadiottrici più diffusi sul mercato ricordiamo i Maksutov-Cassegrain e gli Schimidt-Cassegrain.

Purtroppo al fine di ridurre i difetti ottici i Ritchey-Chrétien così come i catadiottrici sono telescopi a lunga focale e rapporto focale elevato. Se da un lato si ottengono quindi immagini di grandi dimensioni dall’altro sono richiesti tempi di esposizioni molto lunghi. La combinazione delle due cose porta ad avere montature equatoriali molto precise e conseguentemente costose.

Proprio per questo motivo i rifrattori apocromatici e i riflettori Newton sono tra i più diffusi nel mondo dell’astrofotografia amatoriale fatta eccezione per gli appassionati di riprese planetarie (vedi Capitolo 4).

Esistono infine alcune lenti “correttrici” in grado di migliorare la qualità ottica dei telescopi. In particolare al fine di ridurre l’aberrazione cromatica ed alcuni difetti ottici legati alla curvatura delle lenti nei telescopi rifrattori è possibile utilizzare degli spianatori di campo. Questi oltre a migliorare i difetti ottici riducono la focale del telescopio rendendolo pertanto più luminoso.

Per i telescopi Newton esistono invece dei sistemi di lenti, detto correttori di coma, in grado di ridurre l’aberrazione legata alla curvatura dello specchio principale. Generalmente i correttori di coma non fanno variare la focale dello strumento.

Spianatori di campo e correttori di coma sono strumenti fondamentali per chi vuole riprendere il cielo attraverso telescopi. Questi sistemi correttori non esistono invece nell’ambito degli obiettivi fotografici dove però esiste la possibilità di utilizzare moltiplicatori di focale. Questi aumentano la focale dell’obiettivo a scapito di un drastico peggioramento della qualità ottica. Pertanto è sempre meglio in astrofotografia evitare l’utilizzo di tali moltiplicatori di focale.

 




I “cavalletti” astronomici: le montature

Nel paragrafo 1.3 abbiamo visto come, a seguito del moto di rotazione del nostro pianeta attorno al proprio asse, le stelle sembrano ruotare di moto circolare uniforme intorno ad un punto fisso detto polo celeste e che per l’emisfero boreale coincide in buona approssimazione con la stella Polare.

Finché utilizziamo obiettivi grandangolari o fisheye questo moto rimane comunque trascurabile a patto di utilizzare tempi di esposizione piuttosto brevi (vedi paragrafo 2.3), ma cosa succede se vogliamo riprendere nebulose, ammassi stellari o galassie?

La luminosità superficiale di questi oggetti è generalmente molto bassa così come le loro dimensioni apparenti in cielo. Queste due condizioni spingono ad utilizzare obiettivi a media/lunga focale e tempi di esposizione ben più lunghi di quelli utilizzati nel paragrafo 2.3. Risultato complessivo è che se utilizzassimo un semplice cavalletto astronomico otterremmo sicuramente stelle oblunghe o ancor peggio mosse.

Diventa quindi fondamentale inseguire gli astri ovvero compensare il moto di rotazione terrestre. Per fare questo si è pensato di utilizzare un normale cavalletto fotografico ma inclinato in modo tale che l’asse meccanico sia parallelo a quello di rotazione terrestre (vedi Figura 3.1). In questo modo il moto delle stelle può essere compensato ruotando con velocità appropriata l’asse indicato in Figura 3.1 come Ascensione Retta (A.R.). Questo può essere fatto manualmente utilizzando opportune manopole o attraverso un motorino. L’altro asse, indicato in Figura 3.1 come Declinazione (Dec.), non dovrebbe muoversi durante tutto il tempo di ripresa. Purtroppo è letteralmente impossibile allineare con precisione assoluta l’asse meccanico di questo “cavalletto astronomico”, noto come montatura equatoriale, con l’asse di rotazione terrestre. Questo fatto si traduce in una deriva del soggetto in declinazione. Proprio per questo le montature equatoriali sono dotate di manopole o motorini anche per tale asse.

Figura 3.1: Schema di montatura equatoriale alla tedesca.

È possibile notare come la posizione di un oggetto celeste sia determinato in maniera univoca dalla posizione dell’asse di Ascensione Retta e Declinazione che quindi costituiscono un sistema di coordinate noto come coordinate equatoriali. Il Polo Celeste Nord si trova a declinazione +90° mentre il Polo Celeste Sud a -90°. Così come per il globo terrestre esisterà quindi un equatore celeste con declinazione 0°. L’Ascensione Retta è invece misurata in ore su una scala che va da 0 a 24 e lo zero coincide, per convenzione, con il primo punto d’Ariete ovvero dove si trova il Sole all’equinozio di primavera.

Così come per i cavalletti fotografici anche il prezzo delle montature equatoriali dipende dalla capacità di carico. Più robusta è un montatura e più costerà. Esistono comunque degli strumenti semplici, leggeri e trasportabili che possono essere montati su un cavalletto fotografico trasformandolo in una montatura equatoriale. Questi prendono il nome di astroinseguitori e vengono generalmente dotati di motorizzazione unicamente lungo l’asse di Ascensione Retta. Questo fatto unito al carico limitato, limita l’utilizzo degli astroinseguitori a focali medio/corte.

Oltre alle montature equatoriali esistono anche montature dette altazimutali ovvero cavalletti fotografici in grado di inseguire il moto degli astri agendo sui due assi denominati in Figura 3.2 come Altezza e Azimut (da cui il nome della montatura).

Figura 3.2: Schema di montatura altazimutale.

Oltre a richiedere l’utilizzo contemporaneo di due assi, le montature altazimutali soffrono di un effetto noto come rotazione di campo. Questo si traduce praticamente in una rotazione del campo di ripresa intorno all’oggetto inseguito. Le montature altazimutali risultano quindi inutilizzabili dal punto di vista astrofotografico se non dotati di particolari strumenti, disponibili solo sui modelli più costosi, detti derotatori di campo. Vantaggio di queste montature è l’elevata capacità di carico a seguito di una struttura meccanica più solida di quella delle montature equatoriali. Proprio per questo motivo i telescopi più grandi del mondo utilizzano montature altazimutali dotate ovviamente di opportuni derotatori di campo.

 




ASTROFOTOGRAFIA IN PARALLELO

Avete appreso tutte le tecniche di ripresa illustrate nel capitolo due e non sapete più cosa fare? In questo capitolo vedremo come effettuare le prime riprese in parallelo ovvero utilizzando per la prima volta strumenti specializzati per l’astronomia quali montature e telescopi. Inoltre affronteremo brevemente la calibrazione delle immagini astronomiche che ci porteranno attraverso bias, dark e flat field frame al risultato finale frutto di ore di duro “lavoro”. Scopo di questo libro non è l’elaborazione delle immagini astronomiche. Rimandiamo pertanto il lettore alla lettura di testi specializzati.




Time-lapse: quando la notte si anima

Nel paragrafo precedente abbiamo visto come unire molti fotogrammi al fine di ottenere una rotazione celeste. Cosa succede se proviamo a visualizzare questi scatti uno dopo l’altro? L’effetto complessivo è quello di un’animazione dove le stelle (mosse) ruotano intorno alla stella Polare. Questa animazione riassume in pochi secondi il moto relativo compiuto delle stelle nel corso di minuti se non ore.

Supponiamo quindi di ridurre i tempi di esposizione in modo da ottenere stelle puntiformi. Per fare questo dovremo aprire il diaframma ed alzare gli ISO fino a valori piuttosto alti (1600/3200).

A questo punto, rispetto alla rotazione celeste, otterremo un numero di singoli scatti decisamente superiori anche se più rumorosi. Uniamo il tutto in un video ed ecco ottenuto il nostro primo Time-Lapse: un filmato che in pochi secondi riassume il moto della volta celeste avvenuto nel corso di parecchi minuti od ore.

Potete dimenticarvi del problema di rumore dovuto all’utilizzo di alti ISO, dato che alla fine il video avrà un formato comunque piccolo rispetto alle normali fotografie digitali.

Ricordiamo nuovamente che l’impostazione autoscatto non deve essere attivata.